donna & psicoanalisi Sabine Spielrein 

LA LIBERA COMUNE UNIVERSITA’  PLURIVERSITA’  BOLOGNINA
presenta 
 
donna & psicoanalisi
Sabine Spielrein 
 
 
“Sabine Spielrein è stata una delle prime donne a praticare e scrivere come terapeuta  delle psicopatie. Fu una  pioniera come Tony Wolf, Maria Bonaparte,  Anna Freud e Helen Deutsch,  Lou Andrè Salomè” (Donatella Massara)
VENERDI’   7  marzo  2014
 
HUB Via serra 2/F (stradina laterale al Teatro Testoni)
Dalle ore 19 alle 22
Sabine Spielrein 
film – Prendimi l’anima – di R. Faenza
 
pausa  aperitivo conviviale
 
segue  presentazione  amori-pensieri-vita di una protagonista del XX secolo
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Note e scavi
Negli  ultimi anni del 1977, Aldo Carotenuto, uno psicoanalista junghiano docente di Teoria della personalità  presso l’Università di Roma e deceduto alcuni anni fa,  scopre per caso una collezione di documenti  dispersi da lungo tempo.
Essi sono stato  conservati,  sempre per puro caso, in anni passati, negli  scantinati di un edificio che era stato in anni passati, sede dell’Istituto di Psicologia di Ginevra.
Le carte sono appartenute alla dottoressa Sabine Spielrein , una delle pioniere della psicoanalisi, che nei primi anni del Novercento aveva  per qualche mese analizzato Piaget.
Nel 1923, la Spielrein, decise di tornare alla sua Russia,  e fu  probabilmente  in quell’occasione che abbandonò quelle carte. 
Tra i documenti rinvenuti  vi erano 20 lettere di Freud molte più altre di Jung.
Dalle lettere si comprende la straordinaria influenza che Sabine Spielrein esercitò sull’evoluzione del pensiero di Jung e del  ruoloche ebbe nelllo sviluppo della psicoanalisi freudiana e junghiana. E questo emerge non solo dalle lettere che Freud e Jung le scrissero, quanto dagli abbozzi e dalle copie delle lettere che lei scrisse  loro e del suo diario frammentario ma estremamente rivelatore.
Da queste lettere e questo frammentato diario ho tratto informazioni per questo breve mio  abstract-
BIO-PSICO-GRAFIA
Sabine Spielrein nacque a Rostov sul Don il 6 novembre  1885; figlia primogenita di genitori colti e benestantI,   il nonno e il bisnonno sono stati rabbini profondamente rispettati. 
Durante l’adolescenza  Sabine soffrì di un disturbo consiederato da alcuni come schizofrenico e da altri come una grave forma di isteria con tratti schizoidi.
Nell’agosto del 1904 i genitori seriamente preoccupati la condussero all’ospedale psichiatrico Burghoelzli  di  Zurigo di fama internazionale.
K. Jung  lavorava in questo ospedale fin dal 1900.
Sabine fu una tra i primissimi pazienti che Jung  tentò di curare con  la tecnica psicoanalitica; precedentemente  il suo interesse era andato alle pratiche  delle “libere associazioni”  da cui si poteva rivelare molto della vita interiore, studio questo a cui la stessa Sabine prese parte.
Nel 1905 Sabine si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Zurigo.
Poco tempo dopo stette abbastanza bene da poter lasciare l’ospedale e proseguire la terapia come paziente esterna di Jung.
Nel 1911 ottenne la laurea in medicina, discutendo una tesi dal titolo: Contenuto psicologico di un caso di schizofrenia”.
La paziente Sabine Spielrein diventò una studiosa  di schizofrenia,  un medico che curava i disturbi mentali,  una originale pensatrice  le cui idee acquistarono la massima importanza nel sistema freudiano come in quello junghiano.
La relazione amorosa  di Sabine Spielrein ebbe con Karl Jung  ebbe un’importanza  notevole più su di lui e sul suo sistema psicoanalitico che viceversa.
Si parlò di una relazione assimetrica tra Sabine e Karl dal punto di vista sia teorico che pratico, ma anche nell’anomalia di amanti durante la terapia;    in realtà la  relazione tra i due fu  una complice relazione simmetrica : da un lato Jung contribuì come analista a farla abreagire (a farle rivivere il trauma e a farle superare il disturbo ) e dall’altra  la Spielrein  fornì  a Jung  la soluzione pratica e teorica del suo stesso disturbo ;
a  seguito del  mancato riconoscimento d’amore  di karl, la Spielrein assumerà verso Jung  un atteggiamento  ambivalente,  da un lato ella non perse mai  il profondo affetto verso di lui  per esserli stato amante e  maestro-iniziatore alla psicoanalisi, dall’altro provava un profondo astio  e disagio  per l’amore tradito ma più ancora per  l’indifferenza  al  suo amore, che lo stesso Jung  in  riconobbe come una sua bassezza. Qui  le strade cominciarono a divaricarsi :  sia fra loro che verso  il fondatore della psicoanalisi che sarà per Jung il terzo testimone  incomodo.  Mentre  la  Spielrein si accostava a Freud,  Jung  si allontanava da lei e dalla psicoanalisi freudiana. 
Quello che emerge dai carteggi e dalle lettere  tra Sabine e Karl e Freud  è  la taciuta e mai riconosciuta  influenza  che il pensiero di lei ebbe sullo sviluppo delle  due più importanti tecniche psicoanalitiche.  Si capirebbe di più questa influenza se gli eredi di Jung concedessero come hanno fatto  quelli di Freud di rendere pubblico il contenuto delle lettere che Jung scrisse alla Spielrein (circa 46 lettere).
La relazione della Spielrein  con Jung non fu quella di  semplice musa ma di colei che lo assistè  nella sua evoluzione intellettuale.
Dai documenti che  disponiamo  sostiene Bruno Bettlheim e Aldo Carotenuto,   da cui ho tratto molte delle informazioni sui protagonisti di questa nostra ricerca e in particolare sulla  vita  di una sconosciuta ricercatrice e psicoanalista  Spielrein ,  emerge senza alcun dubbio che  alcuni concetti psicoanalitici attribuiti fino ad oggi a Freud e Jung,  furono generati  anche dal contributo  dato alla ricerca da parte diella Spielrein.  Sua  l’idea  dell’ “limmagine delll’anima” della donna nell’incoscio dell’uomo.  L’importanza  data  all’anima dalla psicoanalisi junghiana  è da attribuirsi a Sabine. Non si può neppure tacere  il rilevante contributo che la Spielrein diede al sistema freudiano.  Pochi  anni prima che Freud incorporasse nel suo sistema il concetto di “pulsione di morte” e gli assegnasse un ruolo vitale, la Spielrein scrisse e pubblicò  sullo -Jahrbuch fuer psycoanalistische  und  psycopathologie Forschungen del  1912 – un suo saggio embrionale –sulla distruzione come causa di creazione- che presentò all’interno della struttura psicoanalitica;  si tratta di una sua disertazione sul  rapporto della pulsione di morte e con la pulsione sessuale che Sabine  presentò un anno prima della pubblicazione di Freud  al circolo psicoanalitico di Vienna.
Ma anche molti concetti junghiani  sono direttamente o indirettamente dovuti alla Spielrein.
Non solo il concetto di -Anima – ma anche quello di –Ombra-: che emerge nella personalità repressa, incoscia, autonoma, sembra  derivino  da lei.
In una lettera a Freud in cui Jung cerca di scagionarsi dalle accuse che la Spielrein li fa sostenendo tali giustificazioni  .“di aver avuto un’idea totalmente inadeguata delle sue componenti  poligame, e che grazie a ciò ha imparato dove e come appendere il diavolo  per gli zoccoli”. Jung scrive riferendosi alle esperienze vissute con la Spielrein.  Mi sembra difficile pensare dice Bruno  Bettelheim  che in particolar modo  le ipotesi della persona, dell’anima e dell’ombra non siano che  il distillato di quella esperienza (di transfert e controtransfert).
In una sua lettera  resa pubblica del 1909 alla Spielrein K. Jung scrive: “l’amore di Sabine mi ha reso conscio qualcosa che prima si presentava confuso, cioè una potenza che determina il destino dell’inconscio, questo più tardi lo condusse a delle cose importanti.
Non si deve scordare che Sabine aveva anche altre passioni : la musica. 
Esperimento asilo bianco di Mosca
Sabine si era impegnata a diffondere la psicoanalisi nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche  (URSS) ne dopo  la rivoluzione russa del 1917.
Nel suo Asilo Bianco di Mosca curava ed educava con il  metodo psicoanalitico,  e fu per quei tempi  un’esperienza originale;  si  dice che anche Stalin ci mandasse suo figlio;  ma fu proprio sotto la dittatura staliana che venne ordinata  la soppressione di quella straordinaria esperienza.  Sabine lavorerà  fino al 1936-37 a Mosca dopo di che ritornerà nella sua Rostov.   Il marito da cui avrà due figli morirà poco prima di lei in un ospedale psichiatrico.  
Il lavoro di Vera Schmidt e di Sabine Spielrein
“ negli anni 1921-1923 a Mosca, sulla scia delle profonde trasformazioni politiche e sociali inescate dalla Rivoluzione d’ottobre si colloca un esperimento educativo originale, promosso da Vera Schmidt, una pedagogista formata  alle idee psicoanalitiche, che si proponeva di cercare nuove vie educative per la prima infanzia.  Sulla base delle recenti conquiste e conoscenze fornite dalla teoria psicoanaitica di S. Freud.    Con questo  abstract si vuole ricordare le figure delle due studiose Vera Schmidt e Sabine Spielrein che animato l’iniziativa, il cui lavoro scientifco è riamsto in ombra rispetto a quello dei loro più famosi colleghi S. Freud e K.Jung;   infine si intende rendere conto dei principi educativi che esse cercarono di mettere in pratica nell’asilo sperimentale di Mosca.” ( tratto dall’abstract “ il  lavoro di Vera Schmidt  e di Sabine Spielrein  nell’asilo bianco sperimentale di Mosca”   – blog PaolaSchiavulli-.
 la sua morte rimase per lungo tempo un mistero;
 in questo spazio tempo  qualcuno  provò  a risolvere il mistero  ricorrendo  come tutti  fanno  quando mancano riscontri  reali a delle ipotesi , ipotesi   che col passare tempo, e passando di bocca in bocca assurgono   verità.  Si era ipotizzato che fosse finita vittima di una delle tante purghe staliniane;  le cose però  andarono per lei seppur  tragicamente in altro modo.
In un articolo “Sabina mellan Jung och Freud “  (Sabina  tra Jung e Freud)   – della rivista svedese  Expressen  (1983) , lo studioso di lingue slave  M. LJUGGREN  rivela di essere riuscito a recuperare a Mosca alcune fotografie della Spielrein e a precisare meglio il tempo e le modalità della sua morte.                          Nel  1941 i nazisti che avevano occupato  Rostov sul Don rinchiusero tutti gli ebrei  nella sinagoga  e li trucidarono.  Sabine  che non era stata catturata, si presentò  con le figlie al comando militare  nazista per cercare notizie della scomparsa di alcuni parenti  e anche lei non sortì una sorte diversa.
(testo  elaborato da   Pino de March –
per la Comune Accademia della libera comune  università pluriversità bolognina)
facebook: Comuni Mappe – libera comune università bolognina

OSSERVATORIO SULLA DEMOCRAZIA PARTECIPATA

Tra i progetti della Comune Accademia vi è anche quello di dar vita ad un Osservatorio che si propone di monitorare i comportamenti degli attori politici in quegli atti riconducibili al tema della democrazia partecipata. 
Lo scenario di queste ultime settimane, già manifestatosi in forme diffuse (dalle primarie alle quirinalie), ha dato vita a scampoli di democrazia specificatamente caratterizzati dalla partecipazione tramite votazioni on line e nel diffuso opinionismo della rete, oltre che nell’appuntamento elettorale di febbraio.
Alcuni contributi al dibattito, proposti dall’Osservatorio, sono presenti nel sito e percorrono il periodo tra le elezioni di febbraio e oggi.
Di questo e altro si parlerà venerdì 10 maggio h.20 

presso HUB – via Serra, Bologna, Bolognina.
Dibattito – Invito / aperto a tutti i comunardi e loro vicinato – 
Pino De March – commenta Simon Weil, 
dal testo “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”

Simon Weil, con il suo manifesto per la soppressione dei partiti  politici (intendendo con essi tutte le istituzioni  reificanti ed alienanti le forme della vita  del Novecento) proponeva la creazione “di spazi condivisi di  ricerca ed azione che dovrebbero essere mantenuti sempre in uno stato costituente di fluidità “(mantenere una lingua e una prassi attiva ispirata semanticamente al participio presente – o del partecipare presente – mai  farsi catturare dalle paura nei partecipi passati). 
Animano il dibattito
Paolo Bosco – su democrazia partecipata e partecipazione alle scelte.
Marco Trotta – su democrazia partecipata e alfabetizzazione dei movimenti nella società digitale. 
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A seguire appunti per approfondire:
Il Concetto di Democrazia Partecipata preso nella sua più ampia accezione indica tutte le democrazie possibili, in tutte le diverse forme, non tanto per rappresentarle in contrapposizione le une con le altre, ma in cooperazione.  Partecipare significa esserci e la democrazia non può esimersi dal sollecitare ad esserci, a partecipare. Vista da questa prospettiva la democrazia partecipata comprende quella rappresentativa, infatti con l’andare a votare si partecipa ad una scelta. Ed una delle critiche più accese contro la democrazia rappresentativa è proprio quella di chiamare ad una partecipazione sporadica e distante nel tempo, tanto da non creare un legame tra eletto ed elettore tale da garantire una continuità, una vera partecipazione. 
Forme di democrazia tendenti ad ampliare il grado di partecipazione si sono avuti per tutto il Novecento. Anzi si può dire che nell’ultimo secolo abbiamo assistito ad una varietà infinita di forme di democrazia; valutare queste forme  significa inserirle in una scala di merito che misuri il grado di partecipazione che realizzano. A seconda della frequenza con cui si viene chiamati ad esprimersi, si definisce l’efficacia delle forme di partecipazione e si può parlare di democrazia partecipata riuscita.
Per una sintesi generale della questione Democrazia Partecipata si potrebbe ripercorrere la storia della democrazia nata nel XX° Sec. come un cammino nelle varie architetture istituzionali e delle forme democratiche abbozzate. La sintesi di tutto il processo è riducibile ai due estremi della questione (massimo e minimo di partecipazione) con le forme del Presidenzialismo e del Parlamentarismo. Nella prima forma si elegge il capo a cui si demanda di fare tutto (o quasi). Nel parlamentarismo si è obbligati a trovare delle maggioranze (che poi siano variabili o fisse cambia parte del contesto ma non lo stravolge nel suo principio). 
Anche nella lotta tra Napolitano e Rodotà si può intravedere questo binomio e le aree politiche e sociali che le due figure rappresentavano.
Frammenti dal manifesto di Simon Weil

“La democrazia, il potere della maggioranza, non sono un bene, sono mezzi in vista di un bene.”

“… per Rousseau la ragione sceglie sempre la giustizia, la passione  sta all’origine di qualunque crimine. Inoltre la ragione si ripropone negli individui in maniera uguale, le passioni differiscono da persona a persona. L’unione degli individui di una comunità (nazione, popolo) se basata sulla ragione può creare una unità (forza, potere) che faccia trionfare verità e giustizia, se basata sulle passioni (si intende quelle collettive) non darà che ingiustizia e falsità. Un volere ingiusto, anche se sottoscritto da una maggioranza, rimane un volere ingiusto. 

“… a determinate condizioni il volere del popolo [ha] maggiori possibilità di qualsiasi altro volere di essere conforme alla giustizia.”

– “Quando in un paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco. Chiunque si interessi alla cosa pubblica desidera interessarsene efficacemente. Così, chiunque abbia un’inclinazione a interessarsi al bene pubblico o rinuncia a pensarci e si rivolge ad altro, o passa dal laminatoio dei partiti.”
– “Si deve ammettere che il meccanismo di oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti è stato introdotto nella storia dalla chiesa cattolica, nella sua lotta contro l’eresia.”
– “Ne è risultata, dopo un certo intervallo, la nostra democrazia fondata sul gioco dei partiti, ognuno dei quali è una piccola chiesa profana armata della minaccia della scomunica.” 
[senza partiti] “Gli elettori si assocerebbero e si dissocerebbero secondo il gioco naturale e mobile delle affinità” 
– “Siamo arrivati al punto da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione pro o contro un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino.”

RESISTENZA E INDIGNAZIONE



Libera Comune Università Pluriversità Bolognina


PRESENTA:

MERCOLEDI 24 APRILE 2013
DALLE ORE 18,00  ALLE 23,45

HUB – VIA SERRA 2/G – Bologna Bolognina


sera-notte di resistenza

come memoria attiva dei processi di liberazione 
sera-notte di indignazione 
come affermazione di dignità 

PROGRAMMA:
DALLE 18 ALLE 20 
LABORATORIO POETICO E FILOSOFICO 
CONVERSAZIONE CON IL POETA CARLO BORDINI:
RESISTERE ED INDIGNARSI  IERI OGGI E DOMANI
“…e se una cosa Carlo Bordini non prevede, questa è la sua scrittura; non ne calcola i benefici istituzionali. E’ il sentirsi scritto (sono scritto). 
esso si coniuga con una irresistibile pulsione autobiografica; i poemetti di Bordini hanno infatti un avvio ed un decorso autobiografico fino al rischio del dolore.
bordini ha sempre cercato dentro ed intorno a sé ..come un moralista, uno spietato  ..cronista del vero.”   
 F. Pontorno 
“un poeta ed un intellettuale che trovi sempre a fianco a te nell’indignazione nell’affermazione delle dignità delle minoranze come delle moltitudini nelle strade e nella reti” . 
P. de March

…a seguire lettura dal poemetto “ma noi mangiamo carne”
Con i Poet*
Pino de March ed Antonella Laterza
(Libera Comune università pluriversità bolognina)
con le poete e i poeti:

Loredana Magazzeni
Serenella Gatti Linares 
Vincenzo Bagnoli
Michela Tura
Anna Zolli 
Leila Falà
per il Gruppo donne e poesia ’98
ed altri/altre 
DALLE 20 ALLE 22 
MUSICA – CIBI AUTO-PRODOTTI – VINI BIOLOGICI 
con STELLA CAPELLINI (musicista e poeta) CANTI POPOLARI E DI RESISTENZA 
DALLE 22 ALLE 23, 45 
BAGLIORI DI RESISTENZA  –  CON POETI POETE E MUSICISTI PARTECIPANTI 
(Se possibile nella piazzetta difronte al teatro Testoni)
PAOLO BOSCO 
– RACCONTO STORICO DELL’ASSALTO DEI FASCISTI A PALAZZO D’ACCURSIO (21 NOVEMBRE 1920)
PINO DE MARCH 
– BIOGRAFIE ANTIFASCISTE: I FRATELLI ROSSELLI
LOREDANA MAGAZZENI 
– AMELIA ROSSELLI, POESIE
MARINELLA AFRICANO 
– LETTERE DELLA RESISTENZA 
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contributi:


Una storia sulle origini del fascismo
Il termine “fascio” aveva un significato importante nel mondo agricolo a cavallo tra otto e novecento, rappresentava una immagine plastica e facilmente intelligibile per le masse contadine analfabete nell’Italia monarchica e liberale. Fascio richiama ad un insieme di steli che proprio nel loro raggruppamento trovano forza e resistenza. L’esempio che veniva proposto nei comizi e nelle adunanze contadine era il seguente: “Prendete un giunco, da solo è debole e si flette facilmente, ma in fascio nessuno può spezzarlo”. Un modo efficace per dire che l’unità fa la forza. Per primi i contadini siciliani ne fecero uso intorno al 1890 in quello che è conosciuto come Il movimento dei fasci siciliani, un movimento di occupazione dei feudi e di mutuo soccorso finalizzato a riscattare millenni di sfruttamento e ingiustizie, in uno spirito genuinamente solidaristico e di ispirazione socialista. I capi del movimento incitavano alla lotta con il detto: “Se divisi siam canaglia stretti in fascio siam potenti.”
Il fascio del 1919/20 ha invece le caratteristiche di una organizzazione militare finalizzata alla difesa degli interessi dei grandi proprietari agricoli del nord Italia. Nasce perché l’aristocrazia proprietaria temeva lo sbilanciamento dello stato verso le rivendicazioni popolari e operaie particolarmente pressanti subito dopo la prima guerra mondiale. In quegli anni la forza proletaria si esprimeva con l’occupazione delle fabbriche e con le agitazioni scaturite dal ritorno dei soldati dal fronte. Il fascismo era dunque già costituito in piccoli nuclei fra i proprietari agrari dell’Alta Italia, che con tale formazione intendevano difendere le loro proprietà dall’invasione dei contadini. Alcuni elementi ex militari, che vedevano con simpatia il costituirsi in fasci delle forze conservatrici, davano volentieri il loro appoggio. Il movimento fascista aveva dunque carattere puramente militare e locale. Erano squadre di aristocratici, di giovani proprietari spinti dall’odio per le masse, timorosi dell’azione del governo che, a loro parere, era incline alla democrazia parlamentare; essi cercavano di avere una forza a propria disposizione da usare contro gli espropri proletari. 
E’ a questo punto che nella grande scena nazionale entra Mussolini.  Agli occhi della borghesia possedeva già un biglietto da visita di tutto rispetto: con il suo giornale aveva appoggiato l’intervento dell’Italia nella guerra, inoltre era stato il protagonista dell’incendio dell’Avanti del 1919. Era nemico dei principali personaggi del movimento socialista, per odio e per febbre di predominio. Nel periodo che precede le elezioni amministrative del 1920 Mussolini e molti rinnegati si orientano decisamente verso la reazione, anzi ne prendono audacemente la direzione politica. Intuiscono che col fascismo avrebbero compiuto la loro ascensione fino ad impossessarsi dello stato. Concepirono il progetto di allargare le basi del fascismo fino a farne una forza politica. Irrobustirono lo squadrismo con l’assoldare elementi violenti anche per specifiche spedizioni, si garantirono l’ascesa con la corruzione e la penetrazione dentro la burocrazia, nei corpi armati, nella giustizia. La borghesia urbana e industriale fu coinvolta nella necessità di organizzare le forze reazionarie e cominciò la tassazione di grosse somme per mettere capitali ingenti a disposizione del nascente fascismo. Da buoni marxisti che applicano all’incontrario le loro competenze seppero muovere le forze reazionarie in modo da polarizzare non solo molti borghesi, ma anche forze proletarie prive di consapevolezza (reduci di guerra, disoccupati ecc.); la base dello squadrismo risultava essere la parte più povera del proletariato, che, come Marx aveva detto, sarebbe stata sempre pronta ad allearsi con la reazione, lasciandosi illudere e ammaliare da promesse vane. 
L’organizzazione originaria era la seguente: alla singola sezione erano iscritti i soci contribuenti, che pagavano una quota fissa mensile e i membri delle squadre d’azione. Il Fascio era diretto da un segretario politico affiancato da un comandante militare dal quale dipendevano i capi delle squadre di azione. Quando occorreva agire le squadre d’azione assoldavano anche altri elementi della malavita, pagandoli profumatamente e utilizzandoli in città diverse da quelle di residenza (ad esempio parecchi malviventi romani hanno fatto gli squadristi in Liguria per periodi più o meno lunghi). La prima importante operazione fascista fu la conquista del basso Po tra il 1920 e il 1921. La scelta dell’Emilia non fu fatta a caso. Impossessarsi dell’Emilia voleva dire colpire uno dei centri più vivaci del socialismo, inoltre permetteva di incunearsi fra il nord e il centro Italia. A Bologna il risentimento degli agrari era più forte che altrove, per il modo violento col quale erano stati colpiti i loro privilegi. Quindi più facili le simpatie borghesi per la repressione violenta. In questo quadro avvennero i fatti di palazzo D’accursio durante i festeggiamenti per l’insediamento della giunta socialista appena eletta. Il programma che i capi della reazione si erano posti era soffocare il socialismo, schiacciare il proletariato, impossessarsi dello Stato. Ma per assolverlo bisognava costruire un organismo militare (le legioni fasciste), coordinare l’azione (il partito fascista), combattere una guerriglia. Tutto ciò causò oltre ventimila morti e migliaia di feriti.
A Bologna gruppi di fascisti minacciarono apertamente di assaltare la camera del lavoro. A difenderla furono raccolti un centinaio di compagni, in parte arrivati in camion da Imola che si asserragliarono dentro armati. Per tre giorni aspettarono eventuali attacchi senza pensare a un servizio di vedette intorno alla sede o nei probabili punti di adunata del fascio. Dirigeva questo gruppo non un capo militare che sentisse tutta la responsabilità dell’azione, ma un deputato, un oratore, affaccendato in mille questioni. Quando poi la difesa armata della camera del lavoro si dimostrò un atto concreto e non sola apparenza, quest’uomo perdette la testa e chiese per telefono l’intervento della questura. I difensori ottennero un primo successo fermando nelle vicinanze della camera del lavoro un tram sul quale scorrazzavano i fascisti. Arrivò infine l’assalto di una pattuglia d’avanguardia fascista, guidata da un oscuro tenente Pappalardo, contro il portone principale ma i compagni li respinsero a colpi di rivoltella. La guardia regia due ore dopo la battaglia circondò l’edificio e iniziò ad arrestare i difensori. 
Alcuni giorni dopo, c’era in programma l’insediamento a palazzo D’accursio del nuovo Consiglio comunale socialista appena eletto, i fascisti dichiararono che lo avrebbero  impedito e diffusero un manifestino nel quale invitavano tutti a starsene a casa. Le sezioni socialiste cittadine allora organizzarono un direttorio per la difesa. Furono portate delle bombe dentro il palazzo, costituite delle squadre di giovani nei quartieri. Ma tutto questo ebbe il difetto dell’improvvisazione. I comandanti non erano degli esperti, né gli uomini ebbero il tempo di esercitarsi. Il piano delle autorità per presidiare la piazza impedì preventivamente l’azione socialista. Alla periferia non fu data alcuna parola d’ordine né fu stabilito alcun collegamento. Appena la prima pattuglia di fascisti arrivati in ordine sparso spezzò i cordoni di cavalleggeri, i socialisti si sbandarono sospinti dalla folla impaurita. Iniziò la sparatoria, anche dall’interno del palazzo partirono colpi d’arma e lanci di bombe a mano. Altri fascisti sopraggiunsero di corsa, inquadrati; infine anche le guardie regie cominciarono il fuoco contro il palazzo. Fu una strage.
Nei giorni seguenti la giunta appena eletta fu sciolta e nominato un prefetto. I socialisti sospesero ogni azione mentre i fascisti imbaldanziti incominciarono la catena di sopraffazioni individuali e le spedizioni punitive, protetti dalla prefettura. Da altre città gruppi di operai chiedevano di essere inviati sul campo della lotta, ma nessuno intendeva coordinare queste forze. Essendosi affermati a Bologna i fascisti si irradiarono nella provincia. Camion carichi d’uomini armati piombavano nei quartieri operai, nei villaggi, specie di notte. Si dividevano in nuclei, incendiavano il circolo, la lega, la cooperativa, uccidevano, ferivano, e fuggivano via subito, tornando alle loro sedi. I proletari mancavano di collegamento, falsi allarmi aumentavano la confusione. Quando i fascisti arrivavano la difesa era impreparata, stanca, insufficiente. 
I fascisti erano strutturati in gruppi di comando e in squadre d’azione, mentre svariati manipoli di uomini assoldati in altre provincie venivano ospitati clandestinamente presso le aziende agrarie; invece i fasci delle città e dei piccoli comuni raccoglievano tutte le forze reazionarie, ne coltivavano i rancori, l’opinione, li indirizzavano contro le organizzazioni operaie e i loro rappresentanti. Avevano costituito un’efficace opera di spionaggio, facevano indagini, segnalavano e anticipavano le mosse degli avversari e davano le dritte alle squadre di fascisti nelle spedizioni punitive. Il tipo d’azione, una volta individuato l’obiettivo e stabilita la capacità di resistenza possibile, consisteva nel piombarvi sopra con forze adeguate a vincere. Per l’operazione gli squadristi avevano armi, munizioni, camion spesso fornite sottomano dalle autorità militari. Se una improvvisa resistenza li sbaragliava, allora sopravveniva la spedizione più grossa, nei casi peggiori intervenivano anche le forze dello Stato.
Da Bologna l’azione fascista si irradiò nel Ferrarese attraverso una propaganda intensa fatta con mezzi vastissimi. Ben presto fu toccata anche la Toscana. A Ferrara i socialisti organizzarono la difesa presidiando i locali pubblici; respinsero in un primo tempo l’assalto fascista alla camera del lavoro, al palazzo della giunta, al comune socialista. L’azione di resistenza sorprese i fascisti, la loro disfatta ne diminuì l’aggressività. In sostegno arrivò l’azione del Governo che impose il disarmo delle due provincie emiliane. S’intende che a deporre le armi fu il solo proletariato. Lo Stato sequestrò in tal modo 5000 fucili, migliaia di rivoltelle, pugnali, baionette, munizioni, bombe, proiettili in grande quantità. Mentre i fascisti conservarono i loro depositi nelle ville dei signori, nei magazzini militari, aumentando così in prepotenza. La loro forza, essendo oramai fatta di molte migliaia di uomini, ringalluzzì i borghesi e coloro che amano stare dalla parte dei vincenti. 
Mentre i maggiorenti del partito socialista rimanevano smarriti, piccoli nuclei di eroici operai, poggiandosi sui centri non attaccati ancora dal fascismo, malgrado i bandi, le morti, gli arresti, le condanne, iniziarono, sotto il vessillo del partito comunista, una audace guerriglia. Nella combattiva Imola gli elementi più agguerriti  si erano costituiti in frazione comunista combattente. I gruppi operai, come norma di combattimento, seguivano la più elementare: contrattaccare i fascisti quando questi si presentavano nei quartieri. I fascisti invece compivano le loro puntate come le pattuglie d’assalto d’un esercito ben organizzato. Lo Stato, che aveva il grosso nei reparti di carabinieri e nelle guardie regie ammassate nei punti strategici, non appena le zuffe si generalizzavano o quando la massa operaia si rivelava combattiva,  intervenivano sferrando attacchi in appoggio dei fascisti.
Dal 1922 la partita si chiude, il ventennio si apre. Lo stato fascista metterà da questo momento le catene ad ogni sogno… ed i sonni si riempiranno di incubi. La storia, come le onde del mare, tornerà a sollevarsi con la lotta di liberazione partigiana… ed ancora la reazione farà stragi; ci sarà la riscossa con la resistenza, il ’48 democristiano, i tentati golpe degli anni ’60 e ’70, le rivolte giovanili dello stesso periodo. Con il dipanarsi di un storia sempre più universale, la reazione tornerà nei panni di Reagan e Margareth Tatcher. L’iper liberismo (reazionario) degli anni ’80 continuerà lo sfruttamento capitalista del lavoro. Lo sbocco finanziario degli anni novanta sposterà lo sfruttamento su un piano virtuale, spersonalizzato, che si abbatte sugli individui sotto le false vesti della libertà di scegliere, in un quadro di precarietà normativizzata.  I partiti di massa e poi quelli delle lobbies nel frattempo si sono inabissati lasciando una realtà che i sociologi definiscono liquida. Una società in cui la comunicazione diffusa rischia di assomigliare ad una censura gestita scientificamente. Rimane comunque il compito di promuovere liberazione, di increspare questa società liquida, evitando che diventi un putrido stagno… Necessita provocare ancora altre mille e mille onde.
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Le mani sulla città – Francesco Rosi

Al terzo tema, che proponiamo per osservare le dinamiche elettorali nate dopo il suffragio universale, dedichiamo una finestra italiana, il celebre film di Francesco Rosi. Non sono però le vicende specifiche narrate nel film ma il loro significato a fare da pretesto per una narrazione storica che vuole indagare sulla osannata volontà popolare che si esprime durante le elezioni. Al tema però serve avvicinarsi con qualche precisazione. Sulla conquista del diritto di esprimersi delle masse, sulla formula “una testa un voto” come momento di emancipazione, non si possono sollevare dubbi; ma è altrettanto indubbio che molto è stato fatto per anestetizzare l’indipendenza di scelta, la possibilità di esprimere giudizi e preferenze frutto di una opinione personale. Gia il film proposto in precedenza (Quinto Potere) mostrava quanto fosse poco autonomo l’orientamento del pubblico legato alla televisione.
In Italia il suffragio universale è stato conquistato con la nascita della Repubblica, ma si è velocemente modificato nella formula della “sovranità limitata”, ovvero il protettorato occidentale contro il rischio comunista. Questo fenomeno, nato in una realtà sociale complessa come è quella italiana, dove una grande varietà di interessi ha affiancato gli aspetti più squisitamente ideali, ha bloccato qualsiasi ipotesi di progresso democratico. All’attivismo del più grande partito comunista dell’occidente si è contrapposto un fitto processo di acquisizione del consenso delle masse popolari attraverso, e non solo, la chiesa e le pratiche familiste.
Un discorso a parte riguarda i sistemi elettorali che sono il vero meccanismo che traduce un certo consenso espresso con il voto in potere legittimato. Ed i sistemi elettorali, come è noto, sono costruiti da ingegneri della politica che hanno piena padronanza dei congegni matematici, delle ripartizioni percentuali, delle dinamiche finalizzate comunque a mantenere una certa idea di partecipazione politica. Difficile immaginare quanto sia garantita, in un tale quadro, l’effettiva volontà popolare. 
Un altro problema sfugge alla osannata volontà popolare espressa nel chiuso delle urne: è il sistema delle alleanze, ovvero tutto il pullulare di accordi sottobanco non privi di lotte incrociate e interessi contrastanti con l’indirizzo complessivo espresso dall’elettorato. Di questo aspetto ci occupiamo con l’aiuto del film di Rosi. 
Non si è mai fatto mistero, nell’Italia repubblicana, della tendenza ad accaparrarsi pacchetti di voti alla stregua di pacchetti azionari. Grazie anche al boom economico, che ha ampliato gli appetiti di molti, il controllo di porzioni di elettorato si è tradotto nella nascita di grandi ricchezze e di gruppi di pressione che hanno se non bloccato almeno anestetizzato qualsiasi forma di trasformazione sociale tramite la volontà degli elettori.
Ci interessa qui sviluppare una riflessione che possa rappresentare un punto di partenza per futuri studi storici: la corrispondenza tra i sistemi elettivi democratici di stampo occidentale e la proprietà privata. Il processo non presenta camuffamenti, anzi risulta evidente la simbiosi tra proprietà privata e democrazia rappresentativa poiché entrambe si poggiano su una precisa idea di individuo. Un individuo che grazie al proprio egoismo garantisce il funzionamento dell’insieme. 
Siamo così arrivati ai giorni nostri, al bivio che contraddistingue gli attuali anni e che  rende oramai palese la necessità di dare vita a forme collettive di protezione di alcuni fondamentali beni comuni. Se la democrazia elettiva ha convissuto perfettamente con una certa idea di proprietà privata, oggi una democrazia partecipata dovrebbe fare da battistrada ad una società dei beni comuni. 
Ne “le mani sulla città” un imprenditore edile chiarisce un principio fondamentale della democrazia elettiva, rivolto ai propri soci dice: “I nostri voti contano, non la bandiera sotto la quale stiamo”. Una affermazione questa valida per dare i contorni alla storia del Novecento e alla democrazia che rimane corretto, al di là delle mode espressive, definire borghese. 

Paolo Bosco

Il quinto potere

Film, regia di SidneyLumet

TUTTO SERVITO A DOMICILIO

Altra fondamentale “finestra” sul Novecento, dopo l’energia elettrica, è la comunicazione. Sin dagli albori del XX° secolo scambiare informazioni diventa una comune pratica necessaria nel mondo industrializzato. Con rapidità si inseguono l’invenzione del telefono, della radio e di tutta una serie di tecnologie funzionali alla veloce possibilità di comunicare. Proprio in questo ambito la televisione ha trovato indiscussa supremazia in quanto creatrice di bisogni e convincente consigliera. Il suo occhio è entrato nella quasi totalità delle case, creando un fenomeno inimmaginabile solo pochi decenni prima. 
«Il quinto potere» (titolo originale “The network”), racconta l’evoluzione della televisione in strumento di persuasione potentissimo e capace di modellare in modo incisivo l’immaginario collettivo. A quasi quarant’anni dalla sua uscita questo film conferma tutta la sua qualità profetica e l’acuto spirito di osservazione posseduto dal regista, per arrivare alla descrizione di una realtà oggi sotto gli occhi di tutti. 
Oggi è relativamente semplice comprendere il potenziale televisivo in fatto di imbonimento. Basti pensare all’uso che ha fatto di questo mezzo proprio in Italia un personaggio spregiudicato arrivato ai vertici dello Stato grazie al possesso di alcuni canali. 
Il nucleo centrale di questo film si colloca nella trasformazione del mezzo televisivo da strumento informativo e ancorato fondamentalmente alla cultura umanistica, a veicolo sempre più orientato all’appiattimento sulla immediata realtà. Il passaggio non è di poco conto, la nuova tv pretende di portare sullo schermo frammenti di vita comune (reality show). Tutto nasce dall’intenzione di annunciare in diretta il proprio suicidio da parte di un conduttore, il corto circuito che ne segue rivela la disponibilità dei telespettatori a inseguire le novità, le emozioni coinvolgenti capaci di creare una sorta di cerchio magico tra individui chiusi nei propri salotti. 
Il “reality” impedisce di decifrare le contraddizioni che albergano nella realtà, annulla la categoria del possibile dall’orizzonte proponendo a ripetizione quella del conosciuto, sia esso il problema del cane della vicina o l’eterna lotta condominiale. Ma la realtà è materia priva di una sua oggettività, permette solo di essere rappresentata, interpretata, lo sanno molto bene gli storici. Lo sanno anche i romanzieri che dei modi di rappresentarla ne hanno fatto oggetto di infinite ricerche. La realtà interpretata ha la capacità di far evadere il soggetto, ed è proprio la qualità dell’evasione a fare la differenza. Se si evade grazie ad Omero o a un romanzo di Calvino, ma anche assistendo sullo schermo ad uno spettacolo teatrale o a un film, si è coinvolti automaticamente in un viaggio che riporta alla realtà rinnovati; l’evasione tramite una rappresentazione che assomiglia molto alla vita propria o di un vicino (un gesto di follia, una lite tra inquilini), non restituisce altro che la convinzione che tutto sia immutabile. Anche quando il messaggio sembra indirizzato a mobilitare per una giusta causa. Quello che risalta è solo l’alto numero di spettatori che questo tipo di televisione produce, perché l’interesse si concentra nelle opportunità di vendere spazi pubblicitari. 
Proprio nel momento in cui questo strumento elettrico raggiunge tutti, installandosi in posizione centrale nel salotto di casa, l’industria che lo gestisce si concentra sulla sua capacità di chiamare contemporaneamente moltitudini di uditori a seguire le trasmissioni, insensibile alle ripercussioni sociali che produce. La principale delle quali è la docile trasformazione degli individui in consumatori.
Il regista di Quinto potere, non indugia nell’individuare il cuore di questa architettura comunicativa, anzi lo rivela senza reticenze: è il mondo dell’alta finanza nel momento in cui prende coscienza di come utilizzare il mezzo. In una scena memorabile, si ritrovano il personaggio televisivo che ha fatto del suo esistenzialismo un formato televisivo e un potente guru che chiaramente si mostra come illuminato e settario governatore del “bussines” internazionale. Uno che ha chiaro in mente cosa deve diffondere la tv e a quale fine si deve ispirare.
Ecco realizzato il sodalizio tra finanza e televisione, così come è avvenuto quello tra scoperte scientifiche e finanza. Tutto il Novecento è intriso di questo fenomeno ed oggi incominciamo a scorgerne le conseguenze.
paolo bosco

IL SEGRETO DI NIKOLA TESLA

Energia elettrica: corrente alternata o alternativa?

(prime riflessioni a partire dal film su Tesla)

   Le implicazioni (meglio dire esternalità) generate dalla diffusione dell’energia elettrica sono immense, tanto che noi oggi abbiamo indissolubilmente incorporato questo processo tecnico nella totalità delle nostre azioni. Sarebbe un errore, affrontando questo tema, giudicarne la bontà o la cattiveria. E’ di gran lunga più interessante ricavare consapevolezza da una vicenda storica di tale importanza piuttosto che limitarsi a esprimere dei giudizi.

   

   Con il film “Il segreto di Nikola Tesla” prendiamo l’avvio per osservare la vicenda dell’energia elettrica, vero e proprio motore della rivoluzione industriale novecentesca, sistema nervoso che capillarmente ha diffuso e trasformato le funzioni motorie della società, che ha riscritto il suo codice sensitivo. Il fenomeno, nella dimensione raggiunta, è stato reso possibile grazie all’introduzione della corrente alternata e del moderno motore elettrico ad opera dello scopritore Nikola Tesla. 

   Tesla aveva idee molto chiare sull’evoluzione della ricerca nel campo dell’energia, idee capaci di ridurre le difficoltà alla sua trasmissione via cavo. Inoltre il motore elettrico di sua invenzione, usato in maniera inversa poteva essere utilizzato come generatore (se alimentato da energia elettrica produce un moto rotatorio, se alimentato da fonte altra, ad esempio una cascata, restituisce energia elettrica). Ma le idee non sono mai figlie di uno scopritore unico. Vi sono dei geni che volano alto, altri che fanno una gran fatica nei laboratori, ci sono quelli che continuano un’idea mettendola sulla giusta via,  su un piano che fila liscio. Ed inoltre ci sono scoperte “spendibili” sul mercato degli investimenti, dove un capitano della finanza si butta a pesce appena intuisce l’affare, ed altre che seppur convenienti per l’umanità rimangono irrealizzate. Tesla era interessato solo alla ricerca e non al profitto economico, aveva (a differenza di un Marconi, ad esempio) continuato a inseguire le sue intuizioni senza curarsi personalmente degli affari, inoltrandosi sulla strada ancora sconosciuta dell’energia pulita, illimitata e disponibile per tutti. 

Tesla non si è dunque fermato nella sua ricerca alla scoperta, seppur fondamentale, della corrente alternata. Essendo dotato di capacità mentali quasi sovrumane, come quella di progettare complesse macchine elettriche solo nella sua mente, in grado di ricostruirle senza prendere nessun appunto, si rivela sin da subito un brillantissimo scienziato che lavorava, al pari di altri, ai problemi della sua epoca. I suoi contributi sono tutti ben inseriti all’interno delle ricerche a lui contemporanea; la quantità di tecnologie a cui diede un contributo essenziale è assolutamente unica e impressionante. Se è vero che non fu il primo a studiare sistematicamente i raggi X e a renderli noti alla comunità scientifica, ha comunque il merito di essersi reso conto della loro pericolosità (mentre Edison la ignorò, col risultato che uno dei suoi assistenti, Clarence Dally, morì atrocemente di tumore). Tesla indubbiamente diede un enorme contributo anche allo sviluppo tecnologico della radio: migliorò molto gli apparati sperimentali, si garantì dei brevetti essenziali (che avrebbe usato per contestare quelli di Marconi), e dimostrò perfino una forma primitiva di telecomando radio. Vero è anche che Marconi probabilmente conosceva il lavoro di Tesla (anche se lui tendeva a negarlo), e i suoi primi apparati secondo alcuni assomigliano in modo sospetto a quelli dell’inventore serbo. 

La visione di Tesla era effettivamente assai avanti: egli immaginava già alla fine dell’800 un mondo in cui si poteva comunicare attraverso lo Spazio con le onde radio, in cui si potevano illuminare città senza usare fili. Immaginare mondi nuovi da raggiungere attraverso la tecnologia, saper osare al di là del presente, non aver paura di innovare: in questo la figura di Tesla resta un esempio indiscutibile. Ma Tesla era un visionario che andava oltre il limite segnato, tra l’altro sosteneva di aver comunicato con esseri extra terrestri, argomento che utilizzeranno successivamente i suoi detrattori. 

Con la sua febbrile ricerca inseguì intuizioni che però non suscitarono l’interesse da parte dei suoi finanziatori. Tesla riuscì a trovare la strada per avere energia pulita e per tutti grazie ad un trasmettitore di ingrandimento (basato sulla Bobina di Tesla), in grado di convogliare e sfruttare l’energia che è naturalmente presente nell’atmosfera: un’energia illimitata, senza fili e alla portata di tutti. Ma una tale prospettiva non entusiasmò i suoi finanziatori che fino a quel punto lo avevano appoggiato. Questo aspetto è evidenziato nel film da alcune battute declamate da un guru del capitalismo statunitense, J. P. Morgan (interpretato da Orson Welles), quando boccia il finanziamento alla ricerca di Tesla perché avrebbe azzerato i lucrosi profitti che la vendita di energia (non importa se ottenuta da fonti non rinnovabili) garantiva.

Se all’epoca tutto il suo entusiasmo avvenieristico non fu compreso, questo non significa che le identiche visioni fantastiche non siano poi state utilizzate per riempire di senso il mito dello sviluppo/progresso, e della successiva terminologia sulla crescita illimitata, che proprio all’inizio del ‘900 prende avvio (ma questa è un’altra storia che ci porterebbe lontano).

Quello dell’energia è un mondo ancora adesso, anzi, soprattutto adesso, lanciato per strade a noi comuni mortali negate sia per ignoranza che per opportunità politiche. E questo spiega il mistero che avvolge Tesla.
Paolo Bosco

TRE FINESTRE SUL NOVECENTO

Jessie Boswell, LE TRE FINESTRE, 1956


Raccontare il Novecento nel suo insieme è impossibile. Troppo vicino a noi per poterne avere una visione sintetica. Scegliamo dunque tre temi, tre aspetti fondamentali per inoltrarci nel secolo appena passato. Tre questioni che lo hanno caratterizzato in maniera definitiva: la diffusione dell’energia elettrica, la comunicazione divenuta un fenomeno di massa ed infine il suffragio universale, visto dalla prospettiva dell’accaparramento dei consensi. Tre punti nodali legati da un filo da cui si dipana la storia. Lo facciamo proponendo tre film rappresentativi dei temi scelti, accompagnati da una riflessione che del film prende spunto per inoltrarsi nelle implicazioni storiche collaterali.

PROGRAMMA:
Ore 19 – aperitivo conviviale. 
Ore 20 – presentazione 
Ore 20.30 – film


Venerdi 8 febbraio 2013

– Cos’è l’energia elettrica? corrente alternata o alternativa?

“Il segreto di Nikola Tesla”

regia di Krsto Papic .

Venerdi 15 febbraio 2013

– Il potere della televisione.

“Quinto potere” 
regia di SidneyLumet


Venerdi 22 febbraio 2013

– Accordi sottobanco all’ombra delle elezioni.

“Le mani sulla città”
regia di Francesco Rosi


                    HUB – Via Luigi Serra 2/2 – Bologna