trans-educazioni

COMUNIMAPPE- LA LIBERA COMUNE UNIVERSITA’ PLURIVERSITA’ BOLOGNIPER UNA COMUNE RICERC-AZIONE                                                                 verso una nuova cooperazione educativa critica, divergente,  diffusa,laica, multidimensionale e pubblica.

PROMUOVE

SIMPOSIO SULLE TRANS-EDUCAZIONI

IL BAMBINO SI EDUCA DA SE’ …..

A RIGOR DI LOGICA DA UN PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO NON E’ POSSIBILR CHE QUALCUNO EDUCHI QUALCUN ALTRO …

CI SI PUO’ SOLO EDUCARE DA SE STESSI” <(Tratto dalla psicologia pedagogia e ripresa nella teoria delle emozioni di L.E.VYGOTSKJI)

DOMENICA 19 MAGGIO 2019

ALLA ZONA ORTIVA

VIA ERBOSA 17 –BOLOGNINA (per arrivare:scendere alla fermata autobus 11 c –arcoveggio- ippodromo poi proseguite su una traversa a sx – Fratelli Cervi, in fondo alla strada vi troverete di fronte alle Scuole Grosso Tasso, a questo punto da lì girate a dx, e dopo aver passato  sotto un ponte ferrovia e circa 200 mt dopo il campo Sinto ci siete …)

INIZIAMO ALLE ORE 10

ALLE 13 PAUSA PRANZO COMUNE

ALLE 14 RIPRESA ATTIVITA’ FINO ALLE 16

ACCORDA: PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE

RESPONDENS (INTERLOCUTORE):— DINO BUZZETTI -GIA’ DOCENTE UNI BO

RELAZIONI:                                             

 1 – EUROPEIZZAZIONE EDUCATIVA AL NEO-LIBERISMO  – ALESSANDRO PALMI, DOCENTE–CESP-COBAS

2- RINVENZIONI TRANSFEMMINISTI E DI GENERE – NELLA SOCIETA’ E NELLA SCUOLA ED IMPEGNO A TENERLE APERTE –RENATOBUSARELLO-SMASCHIERAMENTI E VALENTINA MILLOTTI  DOCENTE E RICERCATRICE –CESP-COBAS

3 – EDUCAZIONE DIFFUSA – DIMITRIS ARGIROPOULOS DOCENTE –RICERCATORE

4 – ESPERIENZE DI PEDAGOGIE DELLE DIFFERENZA NELLA COOPERAZIONE EDUCATIVA DEL NOVECENTO – PIERA STEFANINI – DOCENTE, FREELANCE- GIORNALISTA

5 – LA TRASAVANGUARDIA NELL’ARTE – RAFFAELE PETRONE – DOCENTE STORIA DELL’ARTE

6– EDUCARE ALLE DIFFERENZE PER CONTRASTARE STEREOTIPI DI GENERE ED IDENTITA CHIUSE’, VIOLENZA TRA PARI, MASCHILISMO E OMOFOBIA –  NELLE SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO GRADO – MARIA AGNESMAIO- SOCIOLOGA CRTICA, FORMATRICE, ESPERTA EDUAZIONE AL GENERE ED INTERCULTURALE

7 – LA TRANSIDIVIDUALITA’ IN SIMONDON – ALFIO NERI – DOCENTE  DI FILOSOFIA

8 – TRANS-SAPERI: STORICO-CULTURALI E PSICOLOGICI                                                OLTRE IL DUALISMO CARTESIANO EMOZIONI – RAGIONI, ATTRAVERSO COMMENTI AD UN SAGGIO ‘L’ERRORE DI CARTESIO DEL NEUROSCIENZIATO DAMASIO ED UNA RICERCA SULLA ‘TEORIA DELLE EMOZIONI’ DEL PEDAGOGISTA VYGOTSKIJ.PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE

CONVIVIO O UN SIMPOSIO SU TRANS-EDUCAZIONI

(TRANS) COME MOVIMENTO D’OLTREPASSAMENTO

AD UN’EDUCAZIONE APERTA,DIFFUSA E MULTIDIMENSIONALE,

AD NUOVA COOPERAZIONE E RICERCA EDUCATIVA NON MERCANTILE E NON COMPETIZIONALE (RIDOTTA A COMPETIZIONE E COMPETENZE),

AD UN’ EDUCAZIONE DI GENERE NON BINARIA

ED INFINE AD UNA FILOSOFIA DELLA CONOSCENZA E DELL’EDUCAZIONE NON DUALISTA.

UN CONVIVIO OD UN SIMPOSIO PER RICREARE UNA DIMENISIONE INFORMALE MA SOPRATTUTTO NELLA CONVIVIALITA’ MANIFESTARE ESPRESSIONI E PENSIERI INCARNATI NELL’ESPERIENZA E NELLE RELAZIONI.

Trans-educazioni

"Il terzo paradiso" di Pistoletto installato tra Manarola e Volastra

Trans prefisso che indica un variegato movimento  di trans-formazione in cammino verso molteplici forme di vita e d’educazioni autonome, erotiche, divergenti, critiche e responsabili e sostenuto da un’immaginale poetico – inteso  come – Terzo Paradiso – così come viene concepito dall’artista Michelangelo Pistoletto.

la poesia è un sogno fatto alla presenza della ragione”.

TRANS-EDUCAZIONE

Con questo convivio trans-educazione vorremmo cominciare ad invertire la tendenza al ristagno fin qui praticata nelle istituzione educative, che si esplicitano con didattiche delle competenze (saper fare  ‘performativo e funzionale’ rapido e a-problematico ed irriflessivo a scapito del saper essere e pensare lento riflessivo e problematico ed esistenziale), sapere performativo e competizionale orientato al capitale umano e alla realtà delle cose o al post-umano(alla tecno-latria), verso uno sviluppo illuminista, umanista e progressivo dello sviluppo complesso dell’umano, con le sue ricercate auto-realizzazioni e orizzonti di senso trans-individuali, trans-culturali, e trans-femministi e  di ritrovati limiti e relazioni tra arte,scienze e tecniche ed universi umani per l’affermazione del vivente tutto (trans-umani).

Trans-educazioni da intendersi come trama complessa di relazioni che costituiscono ad un tempo:                                                                – un saper-essere (soggetto attivo e consapevole negli affetti e nelle relazioni – autonomo ed empatico, e non soggetto-oggetto, assoggettato, inerme, inconsapevole ridotto ad oggetto fra gli oggetti o vuoto profilo o performance),

  • un saper-pensare(per concetti critici, divergenti e problematici)
  •  un saper-fare(cooperazione, produzione – riproduzione di nuovi oggetti e percetti eco-sociali)

ove emerge il primato delle relazioni e della costitutività su ogni singolo elemento implicato  (per parafrasare Simondon nella sua complessa esplicazione della trans-individualità),

 che favorisca una nuova cooperazione educativa e sociale e dialogo tra pari, e pensieri incarnati.

Il prefisso trans-indica in primis un movimento e e nel contempo la possibilità di oltrepassare separazioni ed ostacoli posti da secolari dualismi filosofici (platonici-cartesiani), binarismi sessuali (patriarcali)e uni-dimensionalità capitalistiche utilitaristiche-mercantili (infatti ‘nell’uomo ad una dimensione’  il filosofo H.Marcuse denunciava anticipatamente una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà che ormai prevale nella civiltà industriale avanzata sotto il segno di un progresso tecnico e di relativi automatismi ) che ha colonizzato anche la conoscenza e la cultura; un’oltrepassare ad un terzo paradiso di molteplici espressioni, relazioni e conoscenze per riprendere l’artista Pistoletto.

-e secolari dualismi-filosofici(separazioni ed opposizione di matrice cartesiana smascherato in modo esemplare nel saggio – nell’errore di Cartesio -dal neuroscienziato portoghese Damasio ),

  • il binarismo sessuale (maschile-femminile, ben trattato nel piano educativo del movimento transfemminista –non una di meno).

Un verso poetico-musicale in questo cammino di tras-formazione c’accompagna, un verso che afferma non esserci ‘nessun grado di separazione’ tra molteplici culture e generi, tra mente e corpo, tra biologico e culturale, cognitivo ed emotivo, scienze naturali e scienze umane ecc.).

Attivarsi in maniera trans-umana o neo-umana per generare un terzo spazio tra umano, natura e tecnica (o terzo paradiso prefigurato dall’artista Michelangelo Pistoletto.)

 Nel 2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito. Tra i due cerchi contigui, assunti a significato dei due poli opposti di natura e artificio, viene inserito un terzo cerchio centrale, a rappresentare il grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società.

“nel primo paradiso, gli esseri umani, considerati privi d’autonomia di pensiero e d’azione, si trovano in una condizione paradisiaca in quanto estranei alla sofferenza che deriva dal voler capire e dal dovere scegliere(condizione alienata in cui siamo precipitati ora di nuovo nell’era iper-consumista). Non essendo gli umani artefici di quell’Eden, esso è stato attribuito ad un Dio onnipotente ieri (e al Mercato oggi), il morso della mela rappresenta il primo momento d’autonomia dell’essere umano e segna inizio del secondo paradiso e del religioso senso di colpa. A quel punto l’essere umano prende possesso del mondo naturale, lo sfrutta fino a degradarlo, trasformandolo in mondo sempre più artificiale. Il religioso senso di colpa non è bastato ad arginare il crescente abuso del nostro pianeta, che pare davvero inarrestabile, destinandoci alla catastrofe finale. L’Arte,oggi, chiede(o con) la scienza di impegnarsi per creare un nuovo equilibrio fra artificio e natura (trans-umano). La mela morsicata,con il marchio dell’Apple, ha tramutato un simbolo della natura in un simbolo di puro artificio. La mela artificiale ha conquistato il mondo, rendendo attuale e globale l’immagine biblica. La scienza stessa, in questo passaggio che richiede una vera e propria metamorfosi della società umana, dovrà necessariamente adoperarsi per ricucire il rapporto fra artificio e natura. La mela reintegrata , che ho disegnato nel 2007, rappresenta tale cucitura. Il terzo paradiso è conseguente alla mela reintegrata. Esso rappresenta la società generata da questa cucitura. Con l’espressione terzo paradiso, nominiamo un possibile percorso per l’umanità. Cogliendo la funzione simbolica dell’art, ho deciso di proporre un simbolo con il quale rappresentare questo cammino. Tale simbolo è tratto dal segno matematico dell’infinito, costituito da una linea continua che incrociandosi forma due cerchi. Nel simbolo del Terzo Paradiso, la linea s’incrocia due volte, configurando tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutti gli opposti(o i dualismi metafisici), fra questi la natura e l’artificio entrati in conflitto. Il cerchio centrale è il luogo ove tocca a noi congiungerli, affinché fecondino il grembo della nuova società. Se il primo paradiso è il tempo dell’inconsapevolezza e il secondo paradiso è l’età della conoscenza, il terzo paradiso ci introduce alla responsabilità”. Testo tratto dal manifesto per una rigenerazione della società di Michelagelo Pisotletto edizione chiarelettere 2017. (per approfondimenti vedi sito dell’artista – www.pisotoletto.it  )

Tommaso Ceva, letterato e matematico del Ducato di Mantova, vissuto tra ‘600 e ‘700, ha dato della poesia una celebre definizione: la poesia è un sogno fatto alla presenza della ragione”. La definizione è stata spesso citata, tra gli altri da Montale.

QUALE TRANS-EDUCAZIONE APERTA, CRITICA,LAICA E  PUBBLICA POSSIAMO IMMAGINARSI OGGI, mirante allo sviluppo umano e a differenti comprensioni del nostro attivo pensare, abitare, camminare, esplorare e con-vivere attraverso spazi-ecologie (naturale,umana, mentale, culturale e sociale)

e non il passivo dimorare e riprodursi condizionato e ridotto a capitale umano o a misere ‘risorse umane’ (prigioniere di una visione unidimensionale e post-umanista)nelle diffuse, ammutolite e omologate istituzione educative europee?

GLI INCANTESIMI NEO-LIBERISTI

“L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”(Margaret Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1 maggio 1981)

Di Altre Trans-educazioni abbiamo bisogno che riaprono alla conoscenza diffusa e ad una visione multi-dimensionale trans-individuale, trans-culturale, trans-umana, trans-femminista , trans-Specista, trans -avanguardista verso un ‘transumanar –organizzar -saperi critici e problematici e prassi di cooperazione sociale.

E che sappia denunciare e invertire al tendenza  nichilista-liberista dell’Europa e delle sue istituzioni nel legiferare e sostenere questo processo di svilimento della scuola e del sapere, ridotto ad un unidimensionale saper-fare che aumenta le competenze ma svilisce ed annienta le conoscenze.

Un trans-umanar ed organizzar, avvalendomi di Dante per andare oltre e non solo-verso il divino o il sublime, ma con Pasolini oltre la dimensione letteraria per l’impegno civile, oltre il sapere frammento e competenziale (o di unidimensionale umana che Il filosofo Marcuse denunciava e prefigurava criticamente già dagli anni sessanta – ‘un uomo ad una dimensione’);                                     tran-sitare verso una visione multi-dimensionale ed un sapere orientato all’impegno civile,alla cooperazione sociale e alla comprensione della condizione umana ‘precaria’ e alla terra ‘che brucia’, terra che ci ospita e cisostiene.

IN EUROPA NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI SI E’ DETERMINATO UNA MUTAZIONE  COMPETIZIONALE  LIBERISTA-MERCANTILE  DEL SISTEMA EDUCATIVO (CHE FRAMMENTA  LA CONOSCENZA RIDUCENDOLA A MERA COMPETENZA ED  ESASPERANDONE LA FRAMMENTAZIONE  E  ACCRESCENDONE LA COMPETIZIONE TRA ESSSERI  INTELLIGENTI E COMPLESSI  RENDENDOLI  OGGETTI COMPARABILI  AD ALTRE RISORSE ) ,CHE GENERA  PLUS-VALORE (K-MARX) E PLUS-GODIMENTO (J.LACAN) IN UN’ESIGUA MINORANZA (dell’1%) E NELLE MOLTITUDINI (DEL RESTO 99%)UNA PERMANENTE  INQUIETUDINE ESISTENZIALE  ED UNA PRECARIETA’ MATERIALE E SOCIALE  IN UN CONTESTO DI  MUTATO CAPITALISMO DIGITALE POST-UMANO, OVE GLI ALGORITMI  DELLE PIATTAFORME  DOMINATI  OPERANO ASSOGGETTANDO OGNI POSSIBILE  RELAZIONE E ED ESISTENZA(CANIBALIZZANDO IL FUTURO DELLE NUOVE GENERAZIONI).    

MATERIALI

TRANS-EDUCAZIONE PER PRENDERSI CURA DI SE’ E DEGLI ALTRI-E

Di fronte ad una visione impoverita del mestiere di educare, è tempo di meditare le parole di Platone per uscire dai limiti di una visione mercantile dell’educazione e riportare al centro del/ad educare alla ricerca del sapere umano , l’obbligo ad apprendere l’arte di coltivare la mente attraverso pratiche di spiritualità [laica].

Si finisce spesso per confinare la vita in un orizzonte

limitato, che restringe le possibilità di fare esperienza viva e differente del

tempo; aprire lo spazio della domanda libera, che sporge sull’inedito significa

slargare lo spazio dell’esperire.

Molti sono gli inganni in cui può cadere, fino ad inabissarsi, la vita della

mente; uno di questi sta nel rinunciare a porre domande; si tratta per questo

di vigilare sulla forma che prende il proprio pensare, affinché non sia solo

ricettivo ma fondamentalmente esplorativo. Tuttavia, l’obbedire alla necessità

di porre domande di senso non salva dal rischio di scivolare in una diminuzione

di essere, perché può accadere di moderare le domande di senso, di cercare

poco: accontentarsi di poco senso dell’essere. Platone parla della necessità

Saggi 57

Conosce re se stessi per ave r cura di sé

di rigirare l’anima, dal mondo del divenire alle cose che sempre sono (Platone,

La repubblica, 518c); si può ridefinire il senso di questo rigirare radicale per

intenderlo come un sottrarre la mente dalla comoda posizione di accettare il

già detto e quel poco che si rende accessibile, per arrischiare l’inedito e l’ulteriore

rispetto al disponibile. Il rigirare la mente va intesa come l’arte (Platone,

La repubblica, 518d) del tornare a stare in ascolto dei desideri di esserci e lì,

nello slargo del desiderio, andare a pescare le domande di senso che guidano

la ricerca della misura essenziale del nostro esserci.

Platone ritiene che questa forma di educazione dell’anima vada iniziata a

partire dall’infanzia, lavorando ad alleggerirla di tutti quei «pesi di piombo»

che le impediscono di volar altro, e liberandola da tutte quelle cattive abitudini

che impoveriscono al forza autentica del pensiero (Platone, La repubblica,

519a-)

Tratto da ’‘AVER CURA DI SE’’ di Luigina Mortari – edizioni Raffaello Cortina-2019

MEDITAZIONI SULL’INGNORANZA E LA CONOSCENZA

«Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova con l’ignoranza»    

Queste parole non sono state pronunciate dall’ultimo arrivato, bensì da Derek Bok, rettore dell’università di Harvard. Bok è una delle tante voci autorevoli citate nel libro “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco, uscito da poco per Guanda.

Quest’espressione amara, ironica e di protesta è ritornata urlata e variata: :‘se la conoscenza costa allora proviamo con l’ignoranzanelle piazze tematiche e nei numerosi scioperi di docenti e di studenti; e coniata dentro le massive mobilitazioni bolognesi dell’inizio del secolo XXI, espressione che esplica in modo chiaro la regressione che stavamo attraversando.

Però non per riaffermare la visione elitaria e classista della conoscenza come accadeva nelle scuole di ogni parte d’Europa prima della rivoluzione culturale del’68 del secolo scorso. Come bene chiarisce in un recente saggio la filosofa Nicla Vassallo:”Non annegare. Meditazioni sulla conoscenza e sull’ignoranza. Ed. Mimesis mi-ud”

“Si può anche fare a meno della conoscenza in alcuni casi per la filosofa Nicla Vassallo, che lei distribuisce in tre casi – la conoscenza diretta,che si dà per contatto con qualcuno o qualcosa, la conoscenza competenziale che richiede capacità e conoscenza nel fare certe cose(navigare,governare o nuotare, il sapere utile per ‘non annegare’), infine la conoscenza proposizionale, quella che maggiormente caratterizza l’essere umano, relativa al patrimonio di dati, informazione, tecniche e saperi non diretti.

Date le caratteristiche della conoscenza, come si distingue la persona conoscente dall’ignorante? Per esempio,spiega Vassallo, in base alle tipologie che rendono giustificabili o ingiustificabili le azioni degli individui. Ragioni pragmatiche o prudenziali, legate all’utile, all’opportunismo e alla convivenza basteranno all’ignorante;                                             gli esseri conoscenti avranno invece bisogno di giustificazioni epistemiche fondate sulla ragione e sui dati scientifici. La questione non concerne ovviamente le persone la cui  conoscenza sia stata per varie ragioni negata, ma quelli che dell’ignoranza godono e  alla conoscenza non non aspirano, forse perché faticosa. Faticoso è anche il dubbio scettico, il dubbio che attanaglia Descartes(e se ci fosse un genio ingannatore? E se stessi sognando?);ma è anche privilegio di chi ama e segue la conoscenza, mentre l’ignorante fiero di esserlo il dubbio nemmeno conosce. ‘Conoscere porta sì travaglio e inquietudine assevera Nicla Vassallo (filosofa teoretica, è nota per aver portato contributi innovativi alla riflessione critica riguarda a problemi di epistemologia,filosofia della conoscenza,gender studies ), ciò nonostante ‘conduce pure alla felicità, e a tratti a straordinarie felicità.’Tratto da non annegare, meditazione sulla conoscenza  e sull’ignoranza. Edizioni Mimesis, Mi-Ud

Però come intellettualità inquieta, critica e moltitudinaria non abbiamo da rimproverarci nulla:                                                

CHI HA PAURA NON PUÒ EDUCARE» TANTO MENO PRENDERSI CURA DELLA SFERA PUBBLICA.

Non abbiamo assistito passivamente a quanto stava accadendo sotto i nostri occhi sempre più increduli ma attivamente resistito, giorno dopo giorno, all’indifferenza dei governati (sia della dx (berlusconiana)che della sx liberista(terza via blairiana-renziana)a questa lenta regressione culturale di stampo neo-liberista, amplificata dall’espansione dei media commerciali e della loro immiserita neolingua (la Fininvest berlusconiana con ben 4 canali televisivi presenti in tutto il territorio nazionale ha preparato l’avvento orwelliano del Grande Papi Berlusconi), che portavano a termine quel genocidio culturale intravvisto da Pasolini una decina d’anni prima coll’affermarsi della tossicità consumistica e dell’edonismo reganiano;

queste vuote ed inondanti narrazioni televisive (da Milano da bere o da acefali paninari) trovano solo sparute acide note di contrasto di una minorità culturale in  zone temporaneamente autonome antagoniste, di punk(punk-animazione) e di cyberpunk e di ormai sfinite radio comunitarie o ‘libere’.

Ai canali mainstream della ‘buona educazione narcisista’ aggiungersi come aggravante le politiche ‘educative’ sostenute da più direttive o note della Commissione Europea a partire dagli ’90 del secolo scorso, che hanno costretto le istituzione culturali ed educative die paesi europei dentro ad un vicolo senza via d’uscita, ottuso o poco lungimiranti, con l’emergere di predefinite’ didattiche ‘delle competenze’ e  e di condizionanti‘sistemi di valutazione’ , che hanno via via marginalizzato una prassi della conoscenza aperta con didattiche interattive e trans-disciplinari, e soprattutto critiche dell’esistente(che nonostante la loro poca adesione alla realtà produttiva pre-esistente hanno determinato la nascita di nuovi sistemi produttivi post-fordisti e l’avvento del post-industriale e della new economy o economia dei servizi e della conoscenza).

 Le scuola e le università che si erano auto-riformate durante gli anni della contestazione studentesca erano da ritenere e possiamo ancora ritenere, malgrado tutte le pressioni ‘liberiste o le proposte buone scuole’ come luoghi di eccellente formazione culturale e tecnico-scientifica. Tali direttive hanno cercato e cercano d’orientar le nuove generazioni docenti e discenti ad intraprendere brevi e veloci cammini d’addestramento più che d’apprendimento uni-dimensionali; sloganisticamentepropagandate come scuole caratterizzate dalle tre i-i-i di gelminiana memoria(inglese, informatica ed impresa); scuole ed università d’orizzonti ristretti e  funzionali alla                                                                                                                                              produzione del capitale umano e alla più miserabile riproduzione delle risorse umane.

Nessun interesse o passione viene posta alla durata: ri-e-voluzioni planetarie necessarie dei neo-sapiens per uscire dalla crisi sistemica capitalista ispirata all’effimero e alla tossicità consumistica che sta divorando le risorse del pianeta sia naturali che umane;

la mancanza d’attenzione alle crisi investono le dimensioni esistenziali,umane,culturali, ecologiche e sociali; i cambiamenti climatici e le grandi migrazioni; le nuove tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale che vanno via via sussumendo il lavoro vivo e creando una fascia limitata di garantiti nell’occupazione come nel benessere(1%) con un’immensa miserabile moltitudine disperata, gettati nella precarietà esistenziale e sociale(99%), paralizzati dalla paura dell’Altro, e per questo malessere e mediatico isolamento (social) incapaci di cooperare affermativamente ed in comune nei differenti territori ed in questo unico pianeta A e non in uno B, e con questa unica A seppur variegata umanità.

Chi ha paura non può educare», affermava nel secolo scorso lo psicoanalista Erik Erickson. In questo senso, una «buona scuola» (il riferimento è alla successiva  riforma del governo Renzi, ndr.) che viene sottomessa al paradigma neo-liberista del capitale umano, segna il momento preciso in cui la paura è innalzata a cifra portante della prassi educativa. Lo sviluppo umano smette così di essere considerato il fine del principio educativo perché l’uomo stesso è concepito come un mezzo al servizio della produttività economica.

neoliberismo Indirizzo di pensiero economico che, in nome delle riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche all’ombra del laissez faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà politiche. Gli economisti neoliberisti, come gli austriaci F.A. von Hayek e L. von Mises e il francese J.-L. Rueff, non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato, ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in costrizione.

Dizionario – Trecani

capitale umano Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente, le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e a qualificarla, influenzandone i risultati.

Capitale umano come patrimonio dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione) degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà, di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece oggetto di scambio sul mercato.

Evoluzione del concetto di capitale umano. Sebbene indicato con termini diversi, il concetto di c. u. è stato a lungo familiare agli economisti, ma è solo a partire dagli anni 1960 che è stato sviluppato e ha ricevuto notevole attenzione. Contributi di particolare rilievo si debbono a T.W. Schultz, G. Becker e J. Mincer. Il concetto è stato inserito in un’analisi generale del comportamento umano basata sui principi di fondo della razionalità economica. Negli anni 1980 e 1990, questo tema è oggetto di rinnovato interesse da parte dei teorici della crescita endogena che considerano il c. u. uno degli argomenti della funzione di produzione e sottolineano l’interdipendenza fra crescita economica e sviluppo del c. umano. In tal senso programmi di addestramento e riqualificazione contribuiscono all’aumento del c. u., favorendo così l’evoluzione del sistema nel suo complesso e le condizioni di reddito dei lavoratori. L’attuale dibattito nella letteratura economica individua soprattutto nella conoscenza e nelle competenze individuali gli elementi principali di cui si servono le imprese per mobilitare in maniera integrata risorse interne ed esterne, impegnando forza lavoro più qualificata e adeguata alle esigenze di un Paese a economia avanzata.

TRANS-LOCALE-PENSARE-EUROPA

Pensare ed abitare –l’Europa partendo dal proprio Sé( e dalla propria terra-matria) – per costruire pacificamente quel complesso costrutto geo-storico-culturale-politico di molteplici luoghi e pensieri.

 “Ci si è domandati spesso, fin da quando il modello-europa unita ha iniziato a vacillare per gli assalti dello scetticismo e della disaffezione, a quali valori far risalire un’idea di cultura europea comune. La via dei valori, si sa, non ha prodotto grandi risultati e anzi la strada che ha portato all’attuale congiuntura caratterizzata dalla riaffermazione nazionalista è stata lastricata appunto di “buoni valori”. Forse quell’idea di cultura comune può sorgere davvero da persone e luoghi invece che da valori astratti, perlomeno quanto viene a da credere leggendo Paolo Pagani- i luoghi del pensiero- dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo- ed. Neri Pozza. Giornalista con alle spalle studi di filosofia. P.Pagani fissa in questa collana – piccola biblioteca – un percorso in sette tappe attraverso il vecchio continente (con un – dirottamento oltreoceano)sulle orme degli uomini e delle donne rappresentativi che hanno plasmato la storia culturale. Si tratta soprattutto di filosofi, ma anche di economisti,naturalisti e scrittori. Siano essi atei razionalisti (Marx,Darwin)o i logici dell’anima mistica(Wittgstein), d’indole provinciale (Heidegger)o cosmopolita(Keynes,Arendt)… accomunati da ciò che l’autore chiam a -l’eresia intellettuale, la rottura con il passato, la discontinuità con la tradizione-. E tutti insegnano come il pensiero sia davvero fecondo solo quando è critico, quando fa crescere la salvezza là dove c’è il pericolo – per parafrasare le parole di Hoelderlin. Pagani tiene a sottolineare che il suo non è un libro di filosofia, anche se parla di filosofi: …. sono reportage letterari di viaggi al quale apaprtengono opere come le ‘anime baltiche’ di Jan Brokken. Libri che esplorano il groviglio inestricabile di geografia, storia e produzione intellettuale, ricordando come quest’ultima non sia mai sradicata ma si nutra sempre di una terra, in un circolo virtuoso in cui ‘pensare e abitare coincidano’.

……

Altrettanto abbagliante, e persino più esemplare ed emozionante, è riconoscere -l’intima inerenza- di ambiente e filosofia(e politica) nella teoria di umili stanze in cui visse e lavorò Spinoza tra Amsterdam, Leida e l’Aja….

…..

O ancora nel misero bilocale di Soho dove Marx lavorò al Capitale, in una Londra che era ‘un paesaggio piransiano di ciminiere, fabbriche sferraglianti, opifici malsani, vapori neri e mefitici.

….

E ciò che traspare qui è qualcosa di ancora più essenziale: il fatto che la vera filosofia è sempre un modo di stare al mondo, una maniera di vivere (e per far vivere cultura e politica). Se come ci ricorda Pagani ‘la casa è autobiografia’, il pensiero non può essere coerentemente allacciato con la vita che lo incarna. Ed è proprio agli individui (trans-comunanza di pensiero-luogo) capaci di  questa comunanza di vita ed ideale, oltre che alla facoltà laica dei grandi pensieri d tornare criticamente suoi – propri – luoghi, che bisognerebbe guardare quando si cercano le radici (meglio i rizomi deleuziani) della comune cultura europea.” Testo di F. Boccia – Quelle umili stanze ove visse Spinoza-tratto da Alias-il manifesto – 21.4-19.

Trans-educazione bio-politica

‘La conoscenza è un po’ come la libertà, un valore positivo per eccellenza.

L’abbiamo sentito evocare nel senso d’istruzione, nelle parole da brivido di MALALA YUSAFZAI, attivista pakistana nota per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto all’istruzione, bandito da un editto dei talebani, delle donne della città di Mingora, nella valle dello Swat. Lei è la persona più giovane di sempre a ricevere il premio Nobel, quando avvolta nel suo sari rosa confetto e puntando il dito diceva davanti all’Onu:un bambino,un docente, un libro, una penna possono cambiare il mondo.’Francesca Rigotti

Il trans-individuale in Simondon

G. Simondon è stato un filosofo francese. La sua attività filosofica si svolge tra gli anni ‘50 e gli anni ’70 del XX sec., partendo dal problema dell’individuazione, tratta principalmente dell’essere umano come vivente e della centralità filosofica e politica del problema della tecnica. La sua ricerca filosofica è un originario intreccio tra la scuola fenomenologica, la tradizione epistemologica di G.Canguilhem, suo ‘directuer de thèse’, e la nascente cibernetica di Nobert Wiener. Sullo sfondo di una imponente cultura classica e scientifica di matrice bergsoniana e bachelardiana. G.Deleuze recensì le sue prime opere fin dagli anni ’60 (l’individuo e la genesi fisica e biologica- cfr. nell’isola deserta e altri scritti, in particolare nella ‘Logica del senso’ vi si riferisce ampiamente dimostrando quanto abbia influenzato il suo pensiero. ) Con la sua tesi di dottorato ‘del modo d’esistere degli oggetti tecnici -1958, riscoperta a partire dal 2000 da Stiegler in Francia e Paolo Virno in Italia, Simondon divenne noto al grande pubblico. La sua tesi di dottorato ‘l’individuazione alla luce della nozione di forma ed informazione è oggetto di grande interesse soprattutto per i concetti di :individuazione, metastabilità, trasduzionee transindividualel

Il trans-individuale è dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo l’individuazione psichica che quella collettiva.

E qui emerge il primato della relazione sugli elementi   o della costituitività o ciò che lo compone.

TRANS-INIVIDUALE PER ANDARE OLTRE IL DUALISMO

Le teorie tradizionali o metafisiche pongono l’accento sulla dualità della forma o della materia, ma Simondon un filosofo della scienza, ispirandosi alle scienze naturali bio-fisiche focalizza il limite di una tale visione, ma anche intravvede la soglia( di relazione).

.Non si tratta più di cercare di individuare una modelizzazione, cioè di plasmare l’ente (o quello che è) secondo un modello trascendente o ricercare una particolare identità pre-esistente (o ripetizione dell’identico o presunto tale), piuttosto di individuare una moduazione che non imprime ma cerca di variare o di attualizzare una differenza immanente.Il filosofo Deleuze parlerebbe di ripetizione e differenza. Ed inolte Simondon ci introduce alla individuazione attraverso la trasduzione ovvero alla tras-formazione di qualcosa da una forma, luogo o concetto ad un altro, in ambiente che non è nè stabile nè instabile ma meta-stabile. La metastabilità è la caratteristic propria di un sistema caotico o infinitamente complesso e diverso.

Trans-individuale

Per il filosofo Simondon che l’ha concepito, il transindividuale ci può aiutare ad attraversare criticamente il classico dualismo delle dottrine metafisiche dell’individualità d’interno ed esterno, di conoscenze a priori o a posteriori, di psciologismo o sociologismo (platonismi) o altre separazioni di tipo cartesiano. Il neuroscienziato Damasio con simpatie spinoziane, nel corso delle sue ricerche sul campo neuro-chirurgiche scopre che la classica separazione cartesiana tra res cogitans (la mente cosa che pensa) e res extensa (il corpo o quella cosa estesa che subisce) risulta essere priva di valore scientifico. Infatti un suo paziente che aveva subito in seguito ad un grave incidente sul lavoro con una netta recisione delle connenssioni tra la corteccia cerebrale (ritenuta ciò che pensa) e la sottocorteccia (che è ritenuta sfera emozionale), era in grado di fare buoni ragionamenti razionali ma poi quando doveva passare alla decisione non è in grado di portarla a termine. Quindi la parte emozionale o estesa ritenuta non necessaria per Cartesio,viene scoperta da Damasio essere parte del complesso fenomeno del ragionare-deecidere, per non rimanere  in quello stallo di paralisi  d’indecisione narrato in un racconto zen, di un millepiedi  che non sapendosi  decidersi con quale dei suoi mille doveva incominciare la giornata.

Le metafisiche classiche hanno sempre subordinato la comprensione dell’individuazione(ontogenesi) alla definizione dell’individuo come forma (idealmente) misurabile, mentre la fisica e la biologia (compreso alcune discipline come lo studio dei processi cognitivi,nei quali l’adattamento al cambiamento ambientale richiede l’emergere di nuove strutture)forniscono strumenti decisivi perprogettare un nuovo concetto generale di ontogensi…

Trans-individuale in Simondon è precisamente il nome del darsi ad un tempo dell’individuazione psichica e di quella collettiva.

Nè presistenza dell’individuo rispetto alla società nè presistenza della società rispetto all’individuo.

E’ da questa analisi complessa simondoniana che intendiamo partire per comprendere tutte le altre compesse combinazioni quali trans-femminismo, trans-.culture, trans-umano ecc

Per riassumere in estrema sintesi il percorso teorico attraverso cui Simondon giunge a definire la specificità, lo si può ridurre all’enunciazione di due tesi filosofiche di estrema importanza attraverso cui si porpone di tracciare una netta linea di demarcazione rispetto alla tradizione metafisica occidentale:

la tesi del processo d’individuazione sull’individuo è quello del primato delle relazioni sui termini della relazione.

Nell’individuazione psichica e collettiva Simondon si propone di fissare l’attenzione sui processi d’individuazione contro una tradizione che ha concesso un privilegio ontologico all’individuo già costituito.

  • Sia la tradizione sostanzialista

(sostanzialista agg. e s. m. e f.

[der. di sostanziale]

(pl. m. -i). – Relativo al sostanzialismo; come sost., seguace o sostenitore di una dottrina, o anche di un atteggiamento, che riconosca valido soltanto ciò che è veramente sostanziale, oltre ogni apparenza).

 ()che quella ile-morfica o ilo-morfica (ilemorfismo (o ilomorfismo) s. m. [comp. del gr. ὕλη «materia» e μορϕή «forma»]. – Nel linguaggio filos., la dottrina scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una composizione ontologica di materia e forma).

Sia la dottrina sostanzialista che quella ilo-morifica (sia pure in contrapposizione tra loro)infatti ipotizzano, secondo Simondon, l’esistenza di un principio d’individuazione anteriore alla individuazione stessa, in grado di spiegarla,provocarla e dirigerla.            

principio d’ individuazione,                           criterio o elemento della determinazione ontologica dell’ente singolo che rende ragione della sua unità e indivisibilità e quindi della differenziazione di due cose l’una eguale all’altra o – laddove la sostanza comune o universale sia intesa come ontologicamente prioritaria – di più individui esistenti in una stessa specie. È il principio della conoscibilità dell’ente singolo e richiama il grande problema logico e metafisico dell’identità e della differenza. Tale principio ha avuto diverse applicazioni a seconda delle epoche e dei contesti di volta in volta interessati.

L’individuo vivente per Simondon è un sistema d’individuazione:un sistema che individua ed un  sistema che si individua.

Il trans-individuale è dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo l’individuazione psichica che quella collettiva.

E qui emerge il primato della relazione sugli elementi   o della costituitività o ciò che lo compone.

Tesi sostenute da Whitehead e Paci, in opere come tempo e relazione e esitenzialismo e relazionismo.                   

Il problema consiste in definitiva nell’abbandonare l’opposizione

tra materia e spirito presupposta dall’elaborazione brentaniana dell’intenzionalità,

e tale operazione può essere condotta se si approfondisce

lo spunto costituito dalla relazionalità come caratteristica

definitoria dei fenomeni intenzionali. In ambito più strettamente fenomenologico

questo programma è stato delineato da Francisco

Varela sulla scorta delle suggestioni provenienti dalla filosofia di

Maurice Merleau-Ponty. nella prospettiva di Varela, la natura è intesa

in modo molto differente rispetto alla descrizione cartesiana in

termini di materia inerte soggetta a rapporti meccanici. Insieme a

Humberto Maturana, Varela

ha proposto una concezione della natura

in termini di sistemi auto-poietici, ossia essenzialmente sistemi

biologici capaci di comportamenti cognitivi in quanto capaci di auto-

riprodursi. È a partire da tale spunto che la concezione dell’esperienza

propria della metafisica di Whitehead può essere più proficuamente

esaminata. La questione della natura dell’intenzionalità

può cioè essere affrontata a partire da una revisione della nozione di

natura che consenta di superare il dualismo cartesiano di brentano

senza tornare a una prospettiva spiritualistica relativamente alla

mente. Pertanto il passo preliminare da compiere è quello di indagare

la concezione della natura elaborata da Whitehead. Il che significa

che la discussione sulla natura dell’intenzionalità è un problema

squisitamente ontologico.

La relazione non è mai tra due termini presistenti, ma costituzione di termini messi in gioco dalla relazione.

Una relazione va  intesa come relazione nell’essere, relazione dell’essere e relazione del modo di essere.

Non già mero rapporto tra due termini che, disponendo di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili adeguatamente per mezzo dei concetti.

Questa nuova logica non è più fondata sulla sostanza, ma sulla relazione, permette di pensare il rapporto individuo-società non in termini di primato di un elemento o dell’altro.

Il trans-individuale non è altro che la categoria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del sistema meta-stabile che dà luogo all’individuazione psichica e collettiva, tra di relazioni che attraversa e costituisce gli individui,e le società, interdicendo metodologicamente la sostanzializzazione degli uni e degli altra.

La società –scrive Simondon non è il prodotto della reciproca presenza di molti individui, ma non è neppure una realtà sostanziale da sovrapporre agli esseri individuali, quasi fosse indipendente da essi.

La società è l’operazione, è condizione operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso di quanto sia la presenza dell’essere individuale isolato.

Un modello di relazione esso stesso senza centro (complesso e stratificato).

Simondon conclude che non vi è qualcosa di psicologico o qualcosa di sociologico, ma solo l’umano che in rare situazioni limite, può sdoppiarsi in psicologico e sociologico.

Idividuazione attraverso la trasduzione,trasporto o trasformazione di qualcosa, da una forma, un luogo o concetto ad un altro.

La metastabilità

Simondon ricorre alla fisica  per comprendere quella situazione che non possono essere definite dall’alternativa: ‘o stabile o instabile’, cioè metastabile.

La metastabilità è la caratteristica propria di un sistema caotico, o infinitamente complesso, diverso

Manifesto dell’educazione diffusa                                                                “Mai più aule tra i muri e studenti che volgono lo sguardo teso alla fuga al di là dei vetri chiusi”

    (La Città educante. Manifesto della educazione diffusa, Asterios)

L’educazione diffusa è un’alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale. È tempo di rimettere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in circolazione nella società che, a sua volta, deve assumere in maniera diffusa il suo ruolo educativo e formativo.

La scuola dove ridursi a una base, un portale ove organizzare attività che devono poi realizzarsi nei mondi aperti del reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi e bambini stessi.

All’apprendimento chiuso e iperprotettivo della scuola, privo di motivazione e connessione con le realtà si sostituisce progressivamente un apprendimento realizzato con esperienze concrete da rielaborare e condividere. Non più insegnanti di discipline ma educatori, méntori, guide, conduttori capaci di agevolare i percorsi di interconnessione e indurre sempre maggior autonomia e autorganizzazione. I ragazzi e i bambini nel mondo costituiranno una nuova linfa da troppo tempo emarginata e costringeranno la società e il lavoro a ripensarsi, a rallentare e a interrogarsi.

È un atto politico portare questo modello nella società. È un impegno, una scommessa e una prospettiva di vita sensata che chiediamo di sottoscrivere impegnandosi a divulgare l’idea e il progetto per trasformarlo in esperienze diffuse nel territorio.

L’educazione diffusa pone al centro della vita educativa l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i sensi ma soprattutto la forza che li accende, la passione.

L’educazione diffusa ribalta l’idea che la mente possa imparare separatamente dal corpo, è attraverso il corpo, i suoi sensi, il suo impegno, che si verifica un vero apprendimento duraturo.

L’educazione diffusa libera i bambini e i ragazzi, le bambine e le ragazze, dal giogo della prigionia scolastica: li aiuta a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per offrire il proprio contributo alla società.

L’educazione diffusa è un reticolo in continua espansione di focolai di attività reali nelle quali i più giovani, al di fuori della scuola, esplorano, osservano, contribuiscono, si cimentano, danno vita a situazioni inedite, aiutano, si esprimono e imparano da tutti e da tutte, così come insegnano a tutti e a tutte.

L’educazione diffusa sradica la malapianta delle valutazioni insensate per mezzo di attività reali delle quali correggere sul campo eventuali cadute, imperfezioni, fallimenti e delle quali solo il raggiungimento e il processo valgono come documenti vivi per poter stabilire se ciò che si è fatto è valido e ripetibile o da rivedere e correggibile

L’educazione diffusa vede gli insegnanti mutare in mèntori, educatori, accompagnatori, guide indiane, sostenitori, trainer, organizzatori di campi d’esperienza nel mondo reale e non nel chiuso di aule panottiche dove l’apprendimento marcisce e i corpi avvizziscono.

L’educazione diffusa chiama tutto il corpo sociale a rendersi disponibile per insegnare qualcosa ai suoi più piccoli e giovani: ognuno dovrebbe poter regalare con piacere un poco della sua esperienza, condividendo finalmente la vita con chi sta crescendo e imparando da loro a riguardare il mondo come non è più capace di fare.

L’educazione diffusa trasforma il territorio in una grande risorsa di apprendimento, di scambio, di legame, di cimento, di invenzione societaria, di sperimentazione, al di fuori di ogni logica di mercato, di adattamento passivo, di competizione o di guadagno monetario.

Nell’educazione diffusa si assiste alla costruzione di un tessuto sociale solidale, responsabile, finalmente attento a ciò che vi accade a partire dal ruolo inedito che bambini e adolescenti tornano a svolgervi come attori a pieno titolo, come soggetti portatori di un’inconfondibile identità planetaria.

Per iniziare a sperimentare l’educazione diffusa occorrono un gruppo di genitori motivati, di insegnanti appassionati e possibilmente un dirigente didattico coraggioso che abbiano voglia di vedere di nuovo allievi vivi che gioiscono dell’imparare e di essere riconosciuti come soggetti a pieno titolo nel mondo.

Con l’educazione diffusa ognuno viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. L’educazione diffusa promuove l’apprendistato della libertà contro ogni monopolio (statale, scolastico, familiare, religioso, aziendale).

Il Manifesto tradotto in ucraino (presto la versione in altre lingue)

Azioni di educazione diffusa

 Costruire la rete di Educazione Diffusa e Comunità Educante che sottoscrive il Manifesto dell’educazione diffusa. La rete può essere costituita da almeno un istituto scolastico (“campo base”), comitato di genitori, enti locali ed enti pubblici, parchi e aree protette, botteghe, mercati comunali, teatri, biblioteche, librerie, musei, sedi di associazioni e cooperative, centri sociali, centri sportivi, università e altri spazi sociali  e culturali, professionisti, singoli cittadini, etc. etc. (consapevoli che dal punto di vista normativo si tratta di attività realizzabili nell’ambito dell’autonomia scolastica, coerenti con le Indicazioni nazionali – Linee guida per tutti gli ordini e gradi di istruzione).

    Avviare incontri di auto-formazione tra scuola, realtà sociali e culturali, fautori di buone pratiche nel territorio circostante – anche con il supporto dei primi firmatari del Manifesto della educazione diffusa – per definire nel dettaglio il percorso di sperimentazione che lavori agli obiettivi, i tempi, le modalità e i parametri da misurare.

    Elaborare, come gruppo di supporto della sperimentazione, progetti volontari di architettura per trasformare gli spazi individuati della città educante (edifici storici, botteghe, teatri, biblioteche, musei, piazze, parchi…) in luoghi di apprendimento (privilegiando l’autocostruzione e il coinvolgimento dei territori), sia in relazione con gli enti locali che in quanto cittadini autorganizzati. Dirottare le risorse dedicate alla obsoleta edilizia scolastica verso esperimenti di progettazione e costruzione di “portali” e di recupero e trasformazione di spazi e luoghi della città in educanti.

    Avviare la sperimentazione includendo anche una parte sempre crescente di attività come “scuola aperta”, per cominciare ad abitare in modo diverso gli edifici scolastici sia durante il tradizionale orario scolastico che oltre, quando sia possibile cogestire gli spazi con associazioni di genitori e realtà sociali locali.

    Monitorare il percorso sperimentale attraverso incontri e ricercare e partecipare a bandi pubblici locali, regionali, nazionali ed europei e di fondazioni private per rafforzare le azioni di educazione diffusa.

    Stimolare e promuovere politiche dettagliate di cittadinanza dei bambini e bambine, ragazzi e ragazze in ogni settore politico: trasporti, urbanistica, cultura, ambiente, servizi sociali, sport, sviluppo economico, pubblica amministrazione, sanità, sicurezza fino a definire nei bilanci degli enti la quota dedicata a tali obiettivi.

    Dedicare parte dei percorsi di educazione diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione e ad esercizi di dialogo interno attraverso elaborazioni teatrali, festival delle emozioni ed ogni altra iniziativa che promuova l’emersione dei sentimenti profondi degli individui, solitamente rimossi dalla vita scolastica, per un confronto vivo all’interno della comunità educante.

    Realizzare passeggiate cognitive alla scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali, luoghi abbandonati, luoghi dimenticati per ripensare e riprogettare il territorio e per tornare a prendersene cura a partire dalle osservazioni e le analisi di bambini e bambine, ragazzi e ragazze.

    Strutturare in dettaglio i processi di partecipazione e decisione dei bambini e ragazzi nella definizione dei percorsi di educazione diffusa in modo da rispondere ad una parte dei loro bisogni e dei loro quesiti desiderosi di risposte.

    Documentare il percorso con tutti gli strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi in modo che siano consultabili da altre scuole e città.

Appunti per un Progetto di educazione diffusa

Primi firmatari:

Paolo Mottana, Giuseppe Campagnoli, Francesca Martino, Dimitris Argiropoulos, Anna Sicilia, Luigi Gallo, Ester Manitto, Mariagrazia Marcarini, Alice Massano, Francesca Pennati, redazione di Comune

MANIFESTO E PROPOSTA TRATTO da comune-info

Per aderire al Manifesto scrivete nome, cognome, città di residenza inviando via email: info@comune-info.net

Condividendone sperimentazione desidero portare a conosocenza i frequentatori del blog e delle nostre attività tale matifesto e proposta

Pino de March x comunimappe    

trans-umanesimo

Il significato del termine “transumanesimo” fu delineato in modo sistematico da Julian Huxley nel 1957, nel testo “In New Bottles for New Wine”, dopo averlo a sua volta mutuato dall’amico Pierre Teilhard de Chardin che aveva coniato il termine già nel 1949[1]. Nell’originaria accezione di Huxley, transumanesimo indica «l’uomo che rimane umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana», collocandolo in uno scenario di emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima assume consapevolmente il compito di guidare il generale processo evolutivo.[2]

Il filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin nella città della tecnica cioè Parigi capitale del XIX sec., sostiene che ‘la macchine da presa riesce ad adattarsi meglio alle nuove condizione della visione meglio di quanto non riesca a fare l’occhio umano’.

Tecnica che accompagna il sapiens nel corso della sua stessa evoluzione, dall’uso di quella prima scheggia-utensile, che lo ha reso umano, in quanto costrutto stesso della sua stessa mani-polazione, che  da un lato lo trascende dalla natura ma dall’altro rende possibile l’altro potenziale, che emana o emerge da essa (o ciò che immanente al vivente).

Queste considerazioni sulle relazioni sempre più implicanti tra macchina ed umano non vanno intese in senso perturbante pessimistico-alienato(o post-umanista),cioè di delega della visione o del senso dell’occhio alle macchine ma piuttosto di quella nuova articolazione-protesi che dilata la nostra visione e la ricombina tecno-umanamente in modo da ridarci un altro sguardo aumentato però non meno umano dell’altro che ne è privo. E la fotografia come la pellicola cinematografica che l’equivale in quanto scandisce l’immagine seppur in movimento-in fotogrammi distinti-  a detta di un altro critico e visionario della comunicazione-tecnica Mc Luhan, che riflette l’emergenza-media e spettatore e ne misura la temperatura, cioè la nostra partecipazione ad essi; i fotogrammi sono da considerarsi un media caldo in quanto mono-sensoriale, in quanto ci restituiscono una realtà nuova e più dettagliata, e che ci restituisce una condizione di percezione  che ci richiede meno partecipazione-elaborazione -di dati -integrazione sensoriale; i media freddi invece sono quelli che operano integrando più funzioni sensoriali come per esempio la televisione che cattura anzi con-gela la nostra attenzione-emozione-percezione e per questo ci richiede più partecipazione nell’elaborazione di lontano-vedere-ascoltare.

Media caldi e media freddi


Una ulteriore tessera del mosaico intellettuale di McLuhan è rappresentata dal concetto di “temperatura dei media”. Sulla base di questa nozione lo studioso canadese divideva i media in due categorie: media caldi e media freddi.

Come molte altre nozioni del pensiero mcluhaniano, anche questa è stata al centro di polemiche e di interpretazioni contrastanti. In generale possiamo dire che il concetto di “temperatura” è legato al grado di partecipazione che un media richiede in chi lo utilizza o ne fruisce. In questo senso i media “caldi” sono quelli che non esigono da parte di chi li utilizza una grande partecipazione, e media “freddi” sono invece quelli che richiedono al fruitore maggiore partecipazione e coinvolgimento.

Ma da cosa viene determinato questo livello di partecipazione? Analizzando i vari passi in cui lo studioso canadese si occupa di questo tema, emergono due elementi fondamentali che caratterizzano la temperatura di un medium: il numero di canali sensoriali che sono impegnati durante il suo uso e il livello di definizione o di “intensità” con cui sono costruiti i messaggi.

Un medium è caldo, e dunque meno partecipativo, se impegna un solo senso con messaggi ad alta definizione. In questo caso, infatti, la comunicazione fornisce una grande quantità di dati estremamente dettagliati, che non richiedono al fruitore nessuna operazione di integrazione del messaggio durante la percezione. Un esempio di medium caldo è la fotografia: su tratta infatti di un medium esclusivamente visivo le cui immagini sono dotate di un elevato grado di dettaglio. Ma anche la radio e la scrittura sono considerati da McLuhan media caldi.

Al contrario, i media freddi coinvolgono molteplici canali sensoriali, inviando però un messaggio a “bassa definizione”. Essi di conseguenza lasciano spazio al fruitore, gli chiedono anzi di completare la loro portata informativa con una partecipazione attiva. I media freddi, insomma, coinvolgono il fruitore proprio perché lo stimolano con maggiore efficienza sia dal punto di vista sensoriale che da quello percettivo. Non stupisce dunque che McLuhan, oltre al telefono, indicava come esempio massimo di media freddo la televisione: «La TV è un medium freddo, partecipazionale … La radio, invece, è un medium caldo e funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo… La TV non può essere uno sfondo, ci impegna, ci assorbe».

Insomma, anche nel caso della distinzione tra caldo e freddo, McLuhan mette in evidenza come l’effetto dei media non dipenda solo dal contenuto, ma soprattutto dal tipo di relazione percettiva che uno strumento instaura con i processi percettivi e cognitivi del fruitore. Da questo punto di vista ci sembra esemplare il modo in cui un importante studioso italiano del pensiero di McLuhan, nonché insigne studioso di arte e letteratura, Renato Barilli, ha riassunto la distinzione tra media caldi e freddi:

«Sono “freddi” i media che procurano uno sviluppo armonico e globale della superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia consentito un esercizio fondamentalmente sinestetico. Sviluppo, quindi, ben proporzionato dei vari canali percettivi; partita aperta tra il dare e l’avere, tra il dentro e il fuori, tra attività e recettività. Sono “caldi” invece i media che portano all’ipertrofia di qualche canale percettivo a spese di altri, interrompendo la continuità sinestetica, portando a un eccesso di sviluppo e di specializzazione qualche area della superficie di contatto a scapito di altre».

Da mediamente.rai.it

postumano (post-umano), s. m. e agg. Progressiva alterazione delle caratteristiche dell’essere umano; che tende a modificare o a perdere le caratteristiche umane. ◆ Se – scrive [George] Steiner – siamo alla fine e stanno già sparecchiando, non credo che ciò avvenga, come egli dice a causa della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, del computer capace di creare il Museo di Bilbao di una bellezza estetica degna del Partenone. È piuttosto con la manipolazione genetica che sta avvenendo una vera mutazione antropologica, prevista da Nietzsche, forse preludio all’avvento di una nuova specie, post-umana. (Claudio Magris, Corriere della sera, 6 aprile 2003, p. 33, Terza pagina) • [tit.] Tra chip e sensori arriva il post-umano [testo] Dobbiamo cominciare ad abituarci ad una parola nuova, e inquietante – post-umano –. […] Siamo alla vigilia di un cambiamento della natura stessa del corpo che, modificato tecnologicamente, diverrebbe per ciò post-umano? (Stefano Rodotà, Repubblica, 6 dicembre 2004, p. 1, Prima pagina) • L’Uomo, inteso tanto come singolo quanto come genere umano, ha imparato a guardare a se stesso non più come un fatto, ma come un da fare. La consapevolezza di questo cambiamento in atto, ha indotto un numero sempre maggiore di filosofi ad introdurre nel dibattito contemporaneo un nuovo ambito di riflessione ed a coniare un nuovo termine, un neologismo, per definirlo. Tale termine è: postumano. Ma cos’è il postumano? Sulla base delle posizioni più comuni, una prima risposta approssimativa potrebbe essere la seguente: «Il postumano è il nome col quale si è divenuti soliti definire gli estremi di una nuova filosofia per la quale la natura biologica del corpo dell’uomo, ivi compreso il cervello, non costituisce il limite delle possibilità dell’essere umano. Anzi, per questa filosofia, tale natura può e dev’essere superata attraverso l’implementazione sul “corpo biologico” di protesi tecnologiche». (Cosimo Pacciolla, Gazzetta del Mezzogiorno, 10 gennaio 2006, La Gazzetta di Lecce, p. 7).
Derivato dall’agg. umano con l’aggiunta del prefisso post-.
Già attestato nel Corriere della sera del 19 giugno 1994, p. 15 (Carlo Formenti).

TRANS-EDUCARE RELAZIONALE E CIRCOLARE CONTRO LA FREDDA TIRANNIA DELLE

VALUTAZIONI E DELLECOMPETENZE

L’avvento della meritocrazia

“Nel 1958 Michael Young pubblicava a Londra il profetico libro – The Rise of Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962), una distopia in cui si delinea l’avvento al potere su scala mondiale di una Meritocrazia. I nuovi padroni governeranno in base ad una selezione fondata non sulla nascita, né sulla ricchezza, ma sull’intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe dirigente arriverà al potere grazie ad una serie di riforme scolastiche e socio-economiche ispirate al principio d’eguaglianza delle opportunità. Le classi inferiori, lavoratori e lavoratrici hanno finora perso tutti i loro saperi e il loro ingegno, con il loro consenso – democraticamente –  ottenuto, autodichiarandosi e riconoscendosi come esseri inferiori. Nell’anno 2034, però, le masse di esseri sottoposti si rivolteranno mettendo in discussione l’intero sistema ‘non meritocratico’. Nel manifesto che descrive l’intenzione dei rivoltosi si può leggere:’la società senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza e cultura, la loro occupazione o attività svolte e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere […]. Ogni essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo non alla luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari capacità per vivere una vita più ricca.’ Tratto da Michael Young – The Rise of Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962)

‘ Non esiste oggi esponente politico di dx o di sx, manager di aziende pubbliche o private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne poche eccezioni) che non metta al primo posto dei suoi obiettivi , nell’indicare la soluzioni ai guasti di queste nostre società, proprio la mancanza della selezione sociale fondata sul merito ’. Roger Abravanel , Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008.

Certamente in una società che premia il demerito appare del tutto evidente che invocare e aspirare ad una società meritocratica non può non essere un obiettivo facilmente condivisibile. Il problema come già M.Young aveva intuito, è che valorizzare le attitudini personali, i singoli talenti e la specifica sensibilità è una cosa, il merito è un altro, la meritocrazia un’altra cosa ancora. Innanzitutto è palese la difficoltà(l’impossibilità ) di definire in modo assoluto il merito, poi è evidente quanto arbitrario, possa essere organizzare una comunità secondo la regola del premio all’individuo meritevole,infine sono facilmente intuibili i danni irreparabili che ne deriverebbero. Il merito è una variabile che dipende da numerosi fattori e da diversi parametri:                                       tempi in cui si verifica                                                           spazio in cui avviene                                                                  contesto che permette all’individuo di dimostrarsi meritevole.                          Il merito è una variante altamente aleatoria, mai una costante, pertanto premiare il merito (in senso assoluto) è impossibile.

La meritocrazia è di conseguenza impraticabile perché considera il merito un valore assoluto(e non relativo)e costante (anziché variabile). Possiamo dunque dire che la meritocrazia è la negazione del merito stesso.                          Tratto da – il feticcio della Meritocrazia, Manifesto libri, Roma 2013.

Eppure la Meritocrazia è la parola chiave, il concetto per eccellenza, che ispira tutti coloro che si propongono come i veri riformatori di questa nostra società.

Un altro mantra è la valutazione.                               Valutare vuole dire dare valore quindi pesare, quantificare, attribuire un peso spendibile nel mercato a qualcosa.                                                      Valutare contiene il verbo valere, avere forza, potenza, autorità,comprende valenza, valevole(utile, valido, efficace), ma soprattutto richiama il sostantivo valore (avere valore di, con valore di, valore di scambio, valore d’uso, valore nominale, valorizzare, valoroso, valuta nel senso di moneta). La valutazione è l’atto effettivo di valutare e il suo significato (nella molteplicità di derivati e di sensi che le si attribuiscono)è preminentemente legato al concetto di valore o stima, alla determinazione del prezzo, trasformandosi così in un potente strumento di potere (nel senso di ‘potere fare’ o ‘non fare’.)

Come ben sottolinea Angélique del Rey in questo suo lavoro (la tirannia della valutazione, ed. Eléutera, Milano 2018), la valutazione è lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea del lavoro, che produce inevitabilmente una precarizzazione psicologica dell’essere umano. Si caratterizza come controllo a posteriori attraverso la performance, con una pretesa di oggettività(una semplice informazione diviene discorso di verità), il significato che la società (post)moderna attribuisce all’oggettività implica l’equivalenza tra le cose e gli esseri umani:la valutazione oggi oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, cioè dalla loro interiorità e specificità. In sostanza ciu suggerisce ancora Angélique del Rey, il razionalismo valutatore, vera tirannia del visibile e del esplicito, sviluppa e realizza una deterritorializzazione della misura e del giudizio presente nella valutazione. Pertanto è l’intero soggetto che, nel momento in cui viene valutato, è sradicato dalla propria reale condizione. Ancora di più, chi valuta pensa ad un soggetto che è divenuto e si conferma come oggetto medio, così ipotizzato da parametri generali e generici,completamente senza storia, senza presente e con un fututro che sta per essere determinato dal suo esterno. L’ideologia di fondo di questa società ossessionata dal valutare tutto, sempre, comunque, è propria di una nuova economia che potremo definire ‘cognitiva’, nella quale l’impresa(nel senso più ampio del termine)investe nel ‘capitale umano ’ (vero orrore espressivo), secondo equazioni come – ricchezza e sviluppo nazionale = innovazione-. In altre parole l’individuo è chiamato a forza ad aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo. Una nuova logica bio-politica e totalitaria del dominio enuncia e persegue il passaggio dal saper fare al saper-essere(in senso performativo e non d’unicità o singolarità). Col pretesto dell’efficienza, in realtà si valuta solo la capacità d’adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi tempi,luoghi, modi, relazioni,incitando ad una competizione esclusivamente finalizzata al raggiungimento del risultato(a qualsiasi costo), promuovendo questo nuovo oggetto-soggetto (essere assoggettato) dal cervello ‘aumentato’ (Miguel Benasayag, il cervello aumentato, l’uomo diminuito, ed. Erikson,Trento 2016), piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate. In nome della performance, sottolinea Angélique del Rey, abbiamo creato una misura che misura solo la capacità di conformarsi alla misura stessa. Adattarsi alle richieste significa adattarsi alla norma:le valutazioni disciplinari scolpiscono ognuno all’interno, a partire da un modello dato e interiorizzato.

L’esito è il riconoscersi come soggetti –(oggetti)proprio in quanto si è valutati:VALUTATI DUNQUE SONO (VALUTATO ERGO SUM di cartesiana memoria.

Insomma, l’idea dominante è che ogni individuo, attraverso la valutazione, si possa ritenere soddisfatto del posto che occupa nella piramide sociale perché è quello che si è meritato.

…..

DALL’ISTRUZIONE OBBLIGATORIA ALLA FORMAZIONE OBBLIGATORIA

Un esempio significativo di tutto questo lo possiamo rilevare nei sistemi scolastici. La logica meritocratica si propone di trasformare i giovani da soggetti ad oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici è innanzitutto quello di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti malleabili (assoggettati) e utilizzabili(spendibili)in contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di adattamento psicologico e professionale (imparare ad imparare).

Abbiamo ormai consumato il passaggio strategico dall’idea d’istruzione obbligatoria, a quello di formazione obbligatoria, ll’uomo produttore a quello di consumatore.

DALL’ACQUISIZIONE DI CONOSCENZE ALL’ACQUISIZIONE DI COMPETENZE

Ecco perché in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione di competenze mentre adesso è rivolata all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i lavoratori alle esigenze della logica del capitalistica-finanziaria, di educare a stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive dei mercati(Nico Hirtt,L’École prostitutée,Edition Labor, Bruxelles 2001).

Il futuro del lavoratore (fin da studente) deve essere flessibile,adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e soprattutto responsabile generale (Con quello delle classi dominati).

LA PEDAGOGIA DELLE COMPETENZE

La pedagogia delle competenze, così come è delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle ‘Raccomandazioni del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa  del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del globo, oltrepassando le frontiere del vecchio continente e governando il sistema d’istruzione degli U.S.A., Canada,Australia, Argentina, Algeria, Togo ecc.

Il Consiglio d’Unione Europea adotta una nuova raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente (22 maggio 2018)

OTTO COMPETENZE CHIAVE

  • COMUNICAZIONE NELLA MADRELINGUA
  • COMUNICAZIONE NELLE LINGUE STRANIERE
  • COMPETENZA MATEMATICA E COMPETENZE DI BASE IN SCIENZA E TECNOLOGIA
  • COMPETENZA DIGITALE
  • IMPARARE AD IMPARARE (partecipare attivamente alle attività portando il proprio contributo personale. Reperire, organizzare, utilizzare informazioni da fonti diverse per assolvere un determinato compito;organizzare il proprio apprendimento;acquisire abilità di studio)
  • COMPETENZE SOCIALI E CIVICHE
  • SPIRITO D’INIZIATIVA ED IMPRENDITORIALITA’(Risolvere i problemi che s’incontrano nella vitae nel lavoro e proporre soluzioni;valutare rischi ed opportunità;scegliere da opzioni diverse;prendere decisioni;agire con flessibilità;progettare e pianificare;conoscere l’ambiente in cui si opera anche in relazione alle proprie risorse.)
  • CONSAPEVOLEZZA ED ESPRESSIONE CULTURALE

L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI SISTEMI VALUTATIVI 

Tutto ciò si imposto se che governi nazionali, sindacati tradizionali e forze politiche abbiamo speso una parola di condanna o abbiamo allertato i loro iscritti rispetto alle conseguenze che questo fenomeno trasversale e internazionale sta producendo( raramente e solo movimenti di base degli studenti attraverso le assemblee e sindacati di base dei docenti – attraverso i comitati di base – hanno attivato i loro associati e aperto conflitti e discussioni nel merito di quanto stava accadendo). L’internazionalizzazione dei sistemi valutativi risponde in pieno ad un modello educativo che è divenuto irrimediabilmente ‘formativo’ e che ha trasformato la Scuola in un Fabbrica di allievi performanti, in una fabbrica di ‘risorse umane’.

Si è così imposta una valutazione che poggia su una filosofia comune caratterizzata da una misurazione standardizzata e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto quotidiano della dinamica apprendimento/insegnamento/apprendimento. Le tecnologie e gli strumenti valutativi(definiti dal Pisa, Programme for International Student Assessment dell’OCSE, ed in Italia tradotti dall’INVALSI) stanno trasformando l’intero sistema d’istruzione,diventando ormai il presupposto e non la conseguenza delle pratiche quotidiane che si fanno a scuola.

Questi sistemi pretendono di misurare ciò che non è misurabile, cioè si propongono di dare un valore quantitativo ad una qualità. La competenza è quella capacità tutta personale di tradurre concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze.

Pertanto non può essere misurata quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un’insieme di fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti. Tradizionalmente è vista come il risultato di una padronanza o signoria delle conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle esperienze pratiche.

Ma dalla fine del XX secolo, questo buon senso ha lasciato il posto ad una nuova interpretazione del termine ‘competenza’, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma rimanda sempre più ad una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze (qualunque esse siano).

Ciò che caratterizza l’approccio a queste nuove competenze, predominate a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità d’azione. Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente possedere,ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro, per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità valutative inducono perciò ad insegnare solo ciò che è misurabile o che si ritiene tale.

Quindi non solo condizionano le modalità d’insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e rendono validi solo alcuni dei modi d’apprendere. Con un’operazione arbitraria e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità senza considerare realmente che l’essere vivente non è mai uguale a se stesso(cambia, s’evolve) e soprattutto non è mai uguale ad un altro,neanche nel modo, nello stile e nei tempi del suo apprendimento.

QUESTO FENOMENO STA PRODUCENDO L’INSEGNAMENTO DELL’IGNORANZA (Jean Claude Michéa,l’enseignement de l’ignorance, Edition Climats,Castelnau-le-lez,1999 ), depauperando i saperi, abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che ormai divenuto una sorte di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà spazio ad una didattica che produce segmentazione e mecanizzazione dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si basa sul rispondere a domande(test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente.

 La filosofia dell’utilitarismo governa il processo di trasmissione del sapere e plasma le metodologie di insegnamento, producendo nei fatti ‘un uomo senza qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )

La valutazione per competenza si propone di ‘valutare l’attitudine dei giovani quindicenni a cavarsela nella vita reale. Vita reale? Appare chiaro che nello scenario definito dalla valutazione la nozione di competenza impone una visione normativa della vita e della sua riuscita. Di ciò che la vita reale è, e di ciò che non è. Di ciò che significa riuscire nella vita reale, e di ciò che significa fallire. qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )

TUTTO CIÒ SIGNIFICA FORSE CHE IL VALUTARE DEV’ESSERE BANDITO DA OGNI FORMA DI RELAZIONE E DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE? OVVIAMENTE NO! NEANCHE ALL’INTERNO DELLE SCUOLE.

MA OCCORRE RIPRENDERE SIGNIFICATI PIÙ AUTENTICI, PIÙ CONSONI A RELAZIONI UMANE ISPIRATE AI VALORI DELLA COOPERAZIONE PIUTTOSTO CHE ALLA COMPETIZIONE.

Ciò che va dunque respinto è quel dispositivo di potere che assume le caratteristiche di un controllo totale funzionale alla diffusione ‘di un essere senza qualità’, funzionale al mercato del lavoro globale ,un dispositivo prodotto da un sistema scolastico fondato sulla cultura dell’utilitarismo e organizzato sui tempi ‘spesi bene’(dove per bene s’intende qualcosa di specifico e predefinito.)

CIÒ CHE OCCORRE MODIFICARE PER ANGÉLIQUE DEL REY È PROPRIO IL PARADIGMA DI FONDO: ACCETTARE LA COMPLESSITÀ, L’INCERTEZZA, L’IMPREVEDIBILITÀ,LA SPECIFICITÀ, LA SINGOLARITÀ, LA CONTESTUALIZZAZIONE, RIMPIAZZANDOLA LINEARITÀ E IL RIDUZIONISMO SISTEMATICO.

ECCO DUNQUE CHE, IN AMBITO VALUTATIVO PREVARRÀ L’OSSERVAZIONE E AL REGISTRAZIONE SUL GIUDIZIO, L’ATTENZIONE AL PROCESSO PIÙ CHE AL PRODOTTO.

In questo ambito si recupera tutta una tradizione libertaria fatta di innumerevoli esperienze concrete, realizzate anche nell’attualità, che hanno privilegiate queste modalità alternative e fortemente anti-autoritarie (dialogo e circolarità). Modalità che spingono per intervenire il meno possibile nella relazione educativa(secondo l’insegnamento di Tolstoj e della Montessori), per ritenere strategico il fatto di valutare anche l’intervento dell’adulto, per considerare l’errore uno strumento e un’occasione irrinunciabile di crescita (e non una condanna), per mettere in pratica confronto tra pari, il tutto partendo dalla convinzione che l’apprendimento è una costruzione sociale e non esclusivamente individuale. La valutazione pertanto risulterà funzionale al lavoro che si sta svolgendo e perderà ogni valenza assimilabile ad un rito da tribunale(Ferrer). Valutare è funzionale ad imparare :all’opposto nella scuola istituzionalizzata gli errori si nascondono all’insegnate perché si vogliono evitare i giudizi. Questo è un punto d’inizio per un’analisi radicale di come, attraverso queste ossessioni valutative, si sta imponendo un tipo di essere umano privo d’autonomia, servile ed ignorante, ma fortemente , perché ne ha interiorizzato i fondamenti, ad essere consumatore passivo in modo assolutamente a-critico.

Questo testo sopra riportato con alcune mie note  per una riflessione e critica comune è la prefazione di Francesco Codello al saggio di Angelique de Rey , la tirannia della valutazione, edizione Eleutera.

MANIFESTO TRANSFEMMINISTA CONTRO IL BINARISMO SESSUALE

Pubblicato il 13 luglio 2018 da feminoska    

Emi Koyama.

Ultima edizione, 26 Luglio 2001

Testo originale qui. Illustrazione per gentile concessione di Florent Manelli.

Introduzione

La seconda metà del ventesimo secolo è stata testimone di una crescita senza precedenti del movimento femminista americano, grazie alla partecipazione di diversi gruppi di donne. Ogni volta che un gruppo di donne, precedentemente messo a tacere dal movimento femminista ufficiale, rompeva il silenzio reclamando il posto che gli spettava di diritto all’interno del movimento, subito veniva accusato di frammentare il femminismo con problemi di poco conto, e solo successivamente finiva per essere accettato e accolto come un elemento prezioso del pensiero femminista. Siamo diventat* sempre più consapevoli del fatto che la diversità è la nostra forza, non la nostra debolezza. In ultima istanza, nessuna frammentazione o polarizzazione temporanea è così grave da annichilire i benefici delle politiche inclusive dell’alleanza.

Ogni volta che alcune donne (precedentemente ridotte al silenzio) prendono parola, sfidano le altre femministe a riconsiderare la propria idea di chi rappresentano e degli ideali per i quali lottano. Anche se questo processo, talvolta, porta alla dolorosa realizzazione dei propri pregiudizi e delle oppressioni interiorizzate in quanto femministe, esso si rivela vantaggioso per il movimento, perché allarga le nostre prospettive e la nostra cerchia. È con questa idea in mente che dichiariamo che è giunto il momento che le donne trans partecipino alla rivoluzione femminista, espandendo ulteriormente la portata del movimento.

“Trans” è spesso utilizzato come un termine inclusivo, che raggruppa una gran quantità di violazioni delle norme di genere, accomunate da una qualche discontinuità fra il genere assegnato alla nascita e l’identità e/o l’espressione di genere di una persona. Ai fini di questo manifesto, tuttavia, il termine “donne trans” verrà spesso utilizzato per descrivere quelle persone che si identificano, presentano o vivono più o meno come donne, anche se il sesso che è stato assegnato loro alla nascita è l’opposto. Allo stesso modo, “uomini trans” è utilizzato per descrivere coloro che si identificano, presentano o vivono come uomini a discapito del fatto che alla nascita siano stati percepiti in altro modo. Anche se questa distinzione metodologica esclude le molte persone trans che non si conformano alla dicotomia maschile/femminile, o le persone che vivono il loro essere trans in maniera differente, speriamo che riconoscano un numero sufficiente di punti in comune tra i problemi che noi tutt* affrontiamo, e trovino la nostra analisi in qualche modo utile per le loro lotte.

Il transfemminismo è prima di tutto un movimento fatto da e per le donne trans che riconoscono che la propria liberazione è intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le altre donne, e delle altre soggettività. È, infatti, un movimento aperto alle persone queer, intersex, agli uomini trans, alle donne non-trans, agli uomini non-trans e a tutt* coloro che siano solidal* nei confronti dei bisogni delle donne trans, e che considerino l’alleanza con le donne trans come una parte essenziale della loro stessa liberazione. Storicamente, gli uomini trans hanno dato un contributo maggiore al femminismo rispetto alle donne trans. Crediamo sia imperativo che più donne trans inizino a partecipare al movimento femminista a fianco di tutt* le/gli altr*, per realizzare la nostra liberazione.

Il transfemminismo non è un tentativo di impadronirsi delle attuali istituzioni femministe. Al contrario, allarga il campo e fa progredire il femminismo stesso attraverso la nostra liberazione e attraverso l’alleanza con tutt* le/gli altr*. Si schiera, in egual misura, per la liberazione delle donne trans e non-trans, e chiede alla donne non-trans di battersi per le donne trans. Il transfemminismo incarna le politiche dell’alleanza femminista attraverso le quali donne con storie diverse si sostengono a vicenda, perché se non ci sosteniamo a vicenda, nessun altro si prenderà la briga di farlo.

Principi fondamentali

I principi fondamentali del transfemminismo sono semplici. Primo, è nostra convinzione che ogni individuo abbia il diritto di definire la propria identità e di aspettarsi che la società la rispetti. Questo aspetto include anche il diritto di esprimere il nostro genere senza timore di discriminazioni o violenze. Secondo, riteniamo di avere diritto esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi facciamo.

Tuttavia, nessun* è completamente liber* dalle dinamiche sociali e culturali esistenti all’interno del sistema di genere istituzionalizzato. Quando prendiamo decisioni riguardo alla nostra identità o espressione di genere, non possiamo sfuggire al fatto che lo facciamo nel contesto di un sistema di genere binario e patriarcale. Le donne trans, in particolare, sono incoraggiate, e a volte obbligate, ad adottare la tradizionale definizione di femminilità per essere accettate e legittimate dalla comunità medica, che si è autoproclamata arbitro di chi è veramente donna e chi no. Le donne trans si trovano spesso a dover “dimostrare” la propria femminilità, interiorizzando gli stereotipi di genere per essere riconosciute come donne o per sottoporsi ad interventi ormonali e chirurgici. Questa pratica è oppressiva nei confronti di ogni donna, trans o meno, in quanto nega l’unicità di ogni donna.

Il transfemminismo ritiene che nessun* debba sentirsi costrett* a prendere decisioni personali riguardanti la propria identità o espressione di genere per essere una “vera” donna o un “vero” uomo. Crediamo inoltre che nessun* debba essere costrett* a prendere simili decisioni personali per qualificarsi come una “vera” femminista. Come donne trans, abbiamo imparato che la nostra sicurezza spesso dipende da quanto brave siamo a “passare” per donne “normali”; come transfemministe, ci troviamo a dover negoziare costantemente il nostro bisogno di sicurezza e tranquillità con i nostri principi femministi. Il transfemminismo esorta tutte le donne, comprese le donne trans, a esaminare i modi nei quali interiorizziamo tutti i comandamenti di genere eterosessisti e patriarcali e quali implicazioni globali comportano le nostre azioni; allo stesso tempo, chiariamo che non è responsabilità di una femminista sbarazzarsi di ogni somiglianza con la definizione patriarcale della femminilità.

Le donne non dovrebbero essere accusate di rafforzare stereotipi di genere nel fare le proprie scelte, anche se queste scelte sembrano obbedire a determinati ruoli di genere; una simile prova di purezza svaluta le donne, perché nega il nostro libero arbitrio, e avrà come unica conseguenza l’alienazione della maggioranza delle donne, trans o meno, dal movimento femminista. Il transfemminismo crede nell’idea che ci siano tanti modi di essere donna quante sono le donne, che dovremmo essere libere di prendere le nostre decisioni senza sensi di colpa. A tale scopo, il transfemminismo si confronta con istituzioni sociali e politiche che inibiscono o riducono le nostre scelte individuali, rifiutando allo stesso tempo di incolpare le singole donne per le loro decisioni personali. Non è necessario – al contrario, è oppressivo – imporre alle donne di abbandonare la propria libertà di compiere scelte personali per essere considerate vere femministe, poiché ciò avrà l’unica conseguenza di sostituire il rigido costrutto patriarcale della femminilità ideale con una versione femminista leggermente modificata ma altrettanto rigida. Il transfemminismo crede nella promozione di un contesto in cui le scelte individuali delle donne siano rispettate, mentre al contempo critica e sfida le istituzioni che limitano la gamma di scelte a loro disposizione.

La questione del privilegio maschile

Alcune femministe, specialmente le cosiddette femministe lesbiche radicali, accusano le donne e gli uomini trans di godere del privilegio maschile. Queste femministe sostengono che le transessuali MtF (N.d.T. MtF [Male to Female] indica una persona transessuale il cui sesso biologico/genetico assegnato alla nascita è maschile, che decide di operare una transizione verso il sesso femminile) crescano socializzate da maschi, e dunque beneficino del privilegio maschile. D’altro canto, invece, i transessuali FtM (N.d.T. FtM [Female to Male] indica una persona transessuale il cui sesso biologico/genetico assegnato alla nascita è femminile, che decide di operare una transizione verso il sesso maschile) sono visti come traditori che hanno abbandonato le loro sorelle in un patetico tentativo di acquisire il privilegio maschile. Il transfemminismo deve rispondere a queste critiche, che sono state usate per giustificare la discriminazione contro le donne e gli uomini trans all’interno di alcuni ambienti femministi.

Di fronte a questa argomentazione, la prima reazione delle donne trans è di negare di aver mai goduto di un qualsivoglia privilegio maschile nelle loro vite. È comprensibile pensare che il fatto di essere state assegnate al genere maschile alla nascita abbia rappresentato per loro più un peso che un privilegio: molte di loro, crescendo, hanno odiato i propri corpi maschili e il fatto di essere trattate da maschi. Ricordano, per esempio, quanto le mettesse a disagio subire la pressione di doversi comportare da uomini duri e virili. Molte sono state vittime di bullismo e sono state ridicolizzate da altri ragazzi per il loro comportamento non “propriamente” maschile. Sono state spesso indotte a vergognarsi e hanno sofferto di depressione. Anche da adulte vivono con la paura costante di venire scoperte ed esposte, cosa che metterebbe a repentaglio il loro lavoro, le loro relazioni famigliari e di amicizia e la loro sicurezza.

Tuttavia, come transfemministe dobbiamo rifuggire questa reazione semplicistica. Per quanto sia vero che il privilegio maschile investe alcuni uomini molto più di altri, è anche difficile immaginare che le donne trans assegnate uomini alla nascita, non ne abbiano mai beneficiato. La maggior parte delle donne trans sono state percepite e trattate da uomini (seppure effeminati) almeno per un certo periodo della loro vita, e hanno dunque goduto di un trattamento preferenziale a scuola e sul lavoro, indipendentemente dal fatto che fossero felici di essere percepite come uomini. Sono state educate ad essere decise e sicure di sé, e alcune donne trans mantengono queste caratteristiche “mascoline”, spesso a loro vantaggio, dopo la transizione.

Questo dimostra che spesso confondiamo l’oppressione che abbiamo subito per il fatto di non conformarci ai dettami del binarismo di genere, con l’assenza di privilegio maschile. Invece di affermare che non abbiamo mai beneficiato dei vantaggi derivanti dalla supremazia maschile, dovremmo piuttosto sostenere che le nostre esperienze sono il risultato di un’interazione dinamica tra privilegio maschile e svantaggi derivanti dall’essere trans.

Chiunque abbia un’identità di genere e/o un’inclinazione verso un’espressione di genere che corrisponde al sesso assegnatogli/le alla nascita ha il privilegio di non essere trans. Questo privilegio, come tanti altri, risulta invisibile a chi lo possiede. E, come per tutti gli altri privilegi, coloro che non ne beneficiano percepiscono intuitivamente quanta sofferenza è causata dalla sua assenza. Una donna trans può avere accesso limitato al privilegio maschile a seconda dell’età in cui ha fatto la transizione e di quanto pienamente viva da donna, ma allo stesso tempo subisce enormi svantaggi sul piano emotivo, sociale ed economico per il fatto di essere trans. L’assunto che le donne trans siano intrinsecamente più privilegiate di altre donne è privo di fondamento, tanto quanto affermare che le coppie di uomini gay siano più privilegiate delle coppie eterosessuali perché entrambi i partner godono del privilegio maschile.

Spesso nascono tensioni quando le donne trans tentano di accedere a “spazi per donne”, che si suppongono essere rifugi sicuri dal patriarcato. L’origine di questi “spazi per donne”, può essere fatta risalire al primo femminismo lesbico degli anni ‘70, composto per la maggior parte da donne bianche di classe media che consideravano il sessismo come la più importante diseguaglianza sociale, trascurando però ampiamente il loro ruolo nella riproduzione di altre oppressioni come il razzismo e il classismo. Partendo dal presupposto che il sessismo influenzasse la vita delle donne più di ogni altro elemento sociale, davano per scontato che la loro esperienza di sessismo fosse la stessa per tutte le donne indipendentemente dall’etnia, dalla classe ecc. – intendendo, con la parola donne, tutte le donne non-trans. Critiche recenti al femminismo radicale degli anni ‘70 mettono in luce come l’opportunistica disattenzione nei confronti del razzismo e del classismo da parte di queste donne costituisse in realtà un modo per mantenere il proprio privilegio di donne bianche e di classe media.

A partire da questa consapevolezza, le transfemministe non dovrebbero rispondere alle accuse di privilegio maschile negandolo. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che le donne trans possono avere beneficiato del privilegio maschile – alcune ovviamente più di altre – nella stessa misura in cui quelle tra noi che sono bianche dovrebbero affrontare la questione del privilegio bianco. Il transfemminismo crede nell’importanza del rispetto di ciò che differenzia così come di ciò che accomuna le donne, vista l’ampia varietà di contesti sociali da cui le donne provengono. Le tranfemministe si confrontano con il proprio privilegio e si aspettano, allo stesso modo, che le donne non-trans riconoscano il proprio privilegio di donne non-trans.

Riconoscendo e affrontando i nostri privilegi, come donne trans possiamo sperare di costruire alleanze con altri gruppi di donne tradizionalmente ignorati e considerati non abbastanza “femminili” sulla scia di parametri di femminilità bianchi e di classe media. Quando ci chiamano degenerate e ci attaccano per la sola ragione di essere ciò che siamo, non c’è nulla da guadagnare nell’evitare la questione del privilegio.

Decostruire l’essenzialismo inverso

Sebbene la seconda ondata di femminismo abbia diffuso l’idea che il genere di ognun* sia distinto dal suo sesso fisiologico e sia frutto di una costruzione sociale e culturale, essa ha per lo più lasciato indiscussa la credenza che esista realmente un sesso biologico. La separazione del genere dal sesso ha rappresentato un potente strumento retorico utile ad abbattere i ruoli di genere imposti, ma ha permesso alle femministe di mettere in discussione solo una parte del problema, tralasciando la discussione sulla naturalità dei sessi, femminile e maschile, fino a tempi più recenti.

Il transfemminismo afferma che sesso e genere sono strutture sociali e che, per di più, la distinzione tra sesso e genere è costruita artificialmente per questioni di comodità. Sebbene il concetto di genere come costrutto sociale abbia mostrato di essere uno strumento potente nel decostruire la visione tradizionale delle capacità delle donne, ha lasciato comunque spazio alla giustificazione di certe politiche o strutture discriminatorie su base biologica. Esso ha fallito anche nell’affrontare la realtà delle esperienze trans, che vivono il proprio sesso biologico come più artificiale e modificabile rispetto alla percezione interiore che hanno di sé.

La costruzione sociale del sesso biologico è più di un’osservazione astratta: è una realtà fisica che molte persone intersessuali (N.d.T. L’intersessualità comprende diverse variazioni fisiche che riguardano elementi del corpo considerati “sessuati” come cromosomi, marker genetici, gonadi, ormoni, organi riproduttivi, genitali, e l’aspetto somatico del genere di una persona; le persone intersessuali sono nate con caratteri sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile o femminile) devono affrontare. Poiché la società non mette in conto l’esistenza di persone le cui caratteristiche anatomiche non rientrano perfettamente in quelle di maschio o femmina, queste sono regolarmente mutilate da medici professionisti e costrette a vivere nel sesso che viene assegnato loro. Di solito alle persone intersex non viene data la possibilità di decidere per se stesse su come vogliano vivere e se vogliano o meno ricorrere a “correzioni” chirurgiche o ormonali. È terribile per molte persone intersex non poter dire la propria in merito ad una decisione così importante per la propria vita, sia nel caso in cui la loro identità di genere coincida col sesso assegnato, che nel caso in cui invece non vi coincida. Crediamo che la mutilazione genitale de* bambin* intersex sia intrinsecamente violenta, dal momento che viola immotivatamente l’integrità dei loro corpi senza alcun consenso. La questione non è neppure che il sesso assegnato a una persona coincida con la sua identità di genere o meno; ma se alle persone intersessuali venga data l’effettiva possibilità di scegliere sul proprio corpo.

Le persone trans sono scontente del sesso che viene loro assegnato, senza consenso, secondo parametri medici eccessivamente semplicistici. Esistono svariati modi di essere persone trans: alcune si identificano e vivono come persone di sesso differente da quello assegnato dalle autorità mediche, scegliendo o meno l’intervento medico, mentre altre si identificano con entrambi i sessi, maschile e femminile, o con nessuno dei due. La liberazione delle persone trans passa attraverso il diritto di definirsi a prescindere dalle autorità mediche, religiose e politiche. Il transfemminismo considera qualsiasi metodo di assegnazione del sesso un costrutto sociale e politico, e promuove un assetto sociale in cui ognun* possa liberamente assegnarsi il proprio sesso (o non-sesso, per l’appunto).

Dal momento che le persone trans cominciano ad organizzarsi politicamente, si è tentati di adottare la nozione essenzialista di identità di genere. Il cliché reso popolare dai mass media è quello per cui essere trans significa essere “donne intrappolate in corpi di uomini” o viceversa. L’attrattiva di una simile strategia è chiara, poiché l’opinione pubblica può supportarci più facilmente se la convinciamo di essere vittime di un errore biologico su cui non abbiamo alcun controllo. Questa visione è anche spesso in accordo con la propria percezione di se, che sentiamo come molto radicata in noi e fondante. Ciononostante, da transfemministe, resistiamo a queste tentazioni a causa delle loro implicazioni.

Le persone trans sono spesso state descritte come persone il cui sesso biologico non corrisponde col genere della loro mente o anima. Questa spiegazione può avere senso a livello intuitivo, ma è allo stesso tempo problematica per il transfemminismo. Sostenere che una persona abbia una mente o un’anima femminile significherebbe ammettere che esistono menti maschili e menti femminili, diverse tra loro in modo distinguibile, idea che si potrebbe usare per giustificare la discriminazione nei confronti delle donne. Essenzializzare la nostra identità di genere può essere tanto pericoloso quanto ricorrere all’essenzialismo biologico.

Il transfemminismo sostiene che la propria identità di genere si costruisce basandosi su ciò che ci appare genuino, coerente e che ci fa sentire a nostro agio nel modo in cui viviamo e ci relazioniamo ad altr*, nell’ambito dei vincoli socioculturali dati. Questo vale sia per coloro la cui identità di genere è in linea col sesso assegnato alla nascita, sia per le persone trans. La nostra richiesta di riconoscimento e rispetto non dovrebbe essere in alcun modo indebolita dall’accettazione di questo fatto. Invece di giustificare la nostra esistenza attraverso l’essenzialismo inverso, il transfemminismo smonta il preconcetto essenzialista secondo il quale la congruenza tra sesso e genere è la norma.

Immagine e consapevolezza del corpo come questione femminista

Noi, in quanto femministe, affermiamo di sentirci a nostro agio, sicure, forti nei nostri corpi; sfortunatamente, però, questo non è il sentire di molte donne, incluse quelle trans.

Per molte transfemministe, la questione dell’immagine del proprio corpo è il punto in cui  il nostro bisogno di benessere e sicurezza si scontra con la nostra politica femminista. Molte di noi si sentono così a disagio e provano così tanta vergogna per il proprio aspetto da scegliere di rimanere nascoste oppure di sottoporsi a elettrolisi, terapie ormonali, interventi chirurgici per modificare i propri corpi in modo congruo alla propria identità di donne. Queste procedure sono costose, dolorose, richiedono molto tempo e possono condurre alla perdita definitiva della fertilità e ad altre serie complicazioni quali l’aumento del rischio di tumori.

Perché qualcun* dovrebbe volersi sottoporre a procedure così disumane? Anche se ci piacerebbe credere che il bisogno che sentiamo di far corrispondere i nostri corpi alle nostre identità di genere sia innato o essenziale, non possiamo in tutta onestà negare che fattori sociali e politici influenzino le nostre decisioni personali.

Uno di questi aspetti consiste nel rinforzo sociale della dicotomia dei ruoli di genere. Siccome le nostre identità sono costruite all’interno del sistema sociale in cui siamo nate, si potrebbe a questo punto affermare che la discontinuità tra l’identità di genere di una persona e il suo sesso biologico sia problematica solo nel momento in cui la società stessa mantiene attivamente una dicotomia del sistema di genere. Se il genere di una persona fosse un fattore insignificante a livello sociale, il bisogno delle soggettività trans di modificare i propri corpi per essere conformi al binarismo dei generi potrebbe diminuire, anche se non scomparirebbe del tutto.

Tuttavia, questo ragionamento non dovrebbe essere usato per ostacolare le persone trans dal prendere decisioni sui propri corpi. Le donne trans sono estremamente vulnerabili alla violenza, all’abuso e alle discriminazioni per ciò che sono, e non si dovrebbe farle sentire in colpa quando fanno tutto il necessario per sentirsi al sicuro e a proprio agio. Il transfemminismo ci sfida a prendere in considerazione le modalità attraverso le quali i fattori sociali e politici influenzano le nostre decisioni ma, in ultima analisi, chiede che la società rispetti qualsiasi decisione ognun* di noi prenda sul proprio corpo e sulla propria identità di genere.

Non è contraddittorio lottare contro l’applicazione rigida dei ruoli di genere da parte delle istituzioni mentre, al contempo, si difende il diritto individuale di scegliere come vivere per sentirsi a proprio agio e al sicuro; non è contraddittorio neppure supportarsi tra pari, in modo da poter costruire una sana autostima e al contempo  sostenere la decisione altrui di modificare il proprio corpo, se così si è deciso. Ognuna di noi può sfidare gli arbitrari assunti di genere e sesso della società senza diventare dogmatica. Nessuna di noi dovrebbe sentirsi in dovere di rifiutare in un colpo solo tutti gli aspetti oppressivi della propria vita: finiremmo coll’essere esauste e diventare folli. La somma delle nostre piccole ribellioni combinate destabilizzerà il sistema normativo di genere così come lo conosciamo. Varie forme di femminismi, l’attivismo queer, il transfemminismo e altri movimenti progressisti attaccano tutti diversi aspetti del comune nemico: il patriarcato etero-sessista.

Violenza contro le donne

Le femministe hanno sostenuto fin dagli anni ’70 che la violenza contro le donne non consiste solo in una serie di eventi isolati, ma che è una funzione sistematica del patriarcato per mantenere soggiogate tutte le donne. Il transfemminismo richiama l’attenzione sul fatto che le donne trans, come altri gruppi di donne che subiscono molteplici oppressioni, sono particolarmente vulnerabili alla violenza rispetto alle donne che beneficiano di privilegi cis (N.d.T: cisgender o l’abbreviazione cis, indica le persone che si identificano nel proprio genere di nascita: nelle/i cisgender, identità di genere e sesso biologico corrispondono).

In primo luogo, le donne trans sono prese di mira perché vivono come donne. Essere una donna in questa società misogina è pericoloso, ma ci sono alcuni fattori che ci rendono molto più vulnerabili quando siamo sottoposte a violenze sessuali e domestiche. Ad esempio, quando un uomo attacca una donna trans, soprattutto se tenta di violentarla, può scoprire che la vittima ha o aveva un’anatomia “maschile”. Questa scoperta spesso porta ad un’aggressione ancora più violenta alimentata dall’omofobia e dalla transfobia. Le donne trans subiscono frequentemente aggressioni da parte di uomini quando viene fuori il loro essere trans. Gli omicidi delle donne trans, come quelli delle prostitute, sono raramente presi sul serio o in modo empatico dai media e dalle autorità, soprattutto se la vittima è una donna trans che lavora come prostituta.

Le donne trans sono anche più vulnerabili agli abusi emotivi e verbali dei propri partner a causa della loro sovente scarsa autostima e dell’immagine negativa che hanno del proprio corpo. È facile per un molestatore far vergognare una donna trans e farla sentire brutta, inutile e pazza perché questi sono gli stessi identici messaggi a cui l’intera società  l’ha sottoposta nel corso degli anni. Gli abusanti la fanno franca con la violenza domestica, portando via alle donne la capacità di definire la propria identità e le proprie esperienze, aspetti in cui le donne trans possono essere particolarmente vulnerabili, tanto per cominciare. Le donne trans hanno maggiori difficoltà a lasciare i propri abusanti perché è più difficile per loro trovare lavoro, e quasi certamente in caso di divorzio perderebbero la custodia dei figli a favore del proprio partner violento, quando ci sono bambini coinvolti.

Inoltre, le donne trans sono prese di mire per il fatto di essere queer. Gli omofobi tendono a non distinguere tra le persone gay e le persone trans quando commettono crimini d’odio, ma le persone trans sono molto più vulnerabili perché sono spesso più visibili delle persone gay. I terroristi omofobi non spiano le camere da letto delle persone quando escono per cacciare le persone gay; cercano indizi di genere nella loro preda che non corrispondano al sesso percepito, e di fatto prendono di mira chi è visibilmente deviante rispetto al genere assegnato. Per ogni uomo omosessuale o donna lesbica il cui omicidio diventa un titolo sulle testate nazionali, molte persone trans vengono uccise in tutto il paese, anche se ci sono molte più persone gay e lesbiche “dichiarate” che persone transessuali. Gli uomini trans vivono anche nella costante paura di venir scoperti mentre attraversano una società che perseguita gli uomini che fanno un passo al di fuori dei loro ruoli socialmente stabiliti. I crimini contro gli uomini trans sono commessi sia da estranei che da “amici” intimi, crimini che sono indubbiamente motivati da una combinazione di transfobia e misoginia, messi in atto come punizione per aver violato le norme di genere al fine di rimetterli al loro “posto da donna”.

A causa della situazione di pericolo in cui viviamo, il transfemminismo crede che la violenza contro le persone transessuali sia uno dei problemi più importanti su cui dobbiamo lavorare. Possiamo essere ferit* e restare  delus* dal fatto che in alcuni eventi riservati alle donne esista un rifiuto a farci entrare, ma è la violenza contro di noi che, da troppo tempo, ci uccide letteralmente o ci costringe al suicidio. Non abbiamo altra scelta che agire, immediatamente. In questo senso è essenziale la cooperazione con le tradizionali case-famiglia per la violenza domestica, con i centri antiviolenza e con i programmi di prevenzione dei crimini d’odio. Alcuni centri di accoglienza hanno già deciso di accettare pienamente le donne trans come tutte le altre donne, mentre altri esitano per varie ragioni. Dobbiamo organizzare ed istruire gli organi esistenti circa la necessità delle donne trans di essere aiutate. Dobbiamo sottolineare che la dinamica della violenza contro le donne trans non è dissimile da quella che subiscono le donne non-trans, salvo che siamo spesso più vulnerabili. E dovremmo anche chiedere servizi per gli uomini trans.

Come transfemministe, non dovremmo richiedere soltanto che le organizzazioni attuali ci forniscano servizi; dovremmo essere noi a unirci a loro. Dovremmo offrirci volontariamente per aiutarle a mettere a punto un efficace metodo di monitoraggio al fine di garantire loro la sicurezza mentre espandono il loro campo d’azione. Dovremmo metterci a disposizione come consulenti in caso di situazioni critiche e come responsabili per altre donne trans che hanno bisogno. Dovremmo anche aiutarle a finanziare laboratori di formazione specifici per il  personale. Dovremmo sviluppare corsi di autodifesa per le donne trans, modellate sui corsi di autodifesa femministi per donne, ma che prestino particolare attenzione alle nostre esperienze specifiche. Potrebbe non essere possibile adesso iniziare da zero a realizzare delle nostre case-famiglia, ma possiamo lavorare per l’eliminazione della violenza nei confronti delle persone trans in una vasta coalizione che miri all’eliminazione della violenza contro le donne e le minoranze sessuali.

Dobbiamo anche affrontare il problema della violenza economica. Le donne transessuali sono spesso in condizioni di povertà perché, in quanto donne, guadagniamo meno degli uomini, perché le discriminazioni palesi nei confronti delle persone trans che hanno un’occupazione sono dilaganti, e a causa del costo proibitivo della transizione. Ciò significa anche che i partner abusanti delle donne trans hanno più potere, e ci tengono intrappolate in relazioni abusanti. Il transfemminismo crede nella lotta contro la transfobia e il sessismo tanto in ambito economico quanto sociale e politico.

Salute e scelte riproduttive

Può sembrare ironico che le donne trans, le quali generalmente non possono procreare, abbiano interesse nel movimento per i diritti riproduttivi delle donne, ma il transfemminismo vede una connessione profonda tra la liberazione delle donne trans e il diritto delle donne a scegliere. Prima di tutto, la stigmatizzazione sociale dell’esistenza trans è in parte dovuta al fatto che interveniamo sui nostri organi riproduttivi. Le operazioni di chirurgia estetica non genitale vengono effettuate molto più spesso delle operazioni di riassegnazione sessuale, eppure non richiedono mesi di psicoterapia obbligatoria. Tanto meno le persone che si sottopongono a operazioni di chirurgia estetica vengono quotidianamente ridicolizzate e vilipese in talk show spazzatura trasmessi a livello nazionale. Una tale isteria riguardo alle nostre scelte personali è alimentata in parte dal tabù sociale contro l’autodeterminazione dei nostri organi riproduttivi: come per le donne che vogliono abortire, i nostri corpi sono diventati un territorio comune, un campo di battaglia.

Inoltre, gli ormoni che prendono molte donne trans sono simili per origine e composizione chimica a quelli che le donne non-trans prendono per il controllo delle nascite, per la contraccezione d’emergenza e per la terapia ormonale sostitutiva. Come donne trans, condividiamo le loro preoccupazioni sulla sicurezza, il costo e la disponibilità di queste pillole a base di estrogeni. Donne trans e non-trans devono essere unite nella battaglia contro le tattiche della destra che mirano a rendere inaccessibili, se non illegali, i mezzi e l’informazione per il controllo sui nostri corpi. Ovviamente, la scelta riproduttiva non riguarda soltanto l’accesso all’aborto o al controllo delle nascite: riguarda anche la resistenza alla sterilizzazione forzata e coercitiva o all’aborto per le donne meno privilegiate. Allo stesso modo, il transfemminismo si batte per il diritto a rifiutare interventi chirurgici e ormonali, inclusi quelli prescritti per le persone intersex, e aspetta ancora che la società rispetti il nostro senso di identità personale.

Durante gli anni ’80, le lesbiche vennero cacciate da alcune organizzazioni per la libertà di scelta riproduttiva perché considerate irrilevanti per la loro causa. Ma il diritto a scegliere non è esclusivamente una questione eterosessuale, così come non è solo -cis, siccome riguarda fondamentalmente il diritto delle donne a determinare che cosa vogliono fare con i loro stessi corpi. Il transfemminismo dovrebbe aderire alle organizzazioni per la scelta riproduttiva e manifestare per il diritto di scelta. Una società che non rispetta il diritto delle donne a scegliere sulla gravidanza, non sarà mai propensa a rispettare il nostro diritto di scelta degli interventi medici necessari per far sì che i nostri genitali siano coerenti con la nostra identità di genere. Se abbiamo paura di dover ottenere gli ormoni sottobanco o di dover viaggiare oltreoceano per un intervento di riassegnazione del sesso, dovremmo riuscire a identificarci con le donne che temono di dover tornare all’insicurezza degli aborti illegali.

Inoltre, il transfemminismo dovrebbe imparare dal movimento per la salute delle donne. La ricerca dedicata a questioni di salute di particolare interesse per le donne, come il cancro al seno, non è nata dal nulla. È stato attraverso un attivismo vigoroso e l’autoeducazione collettiva, che queste questioni sono arrivate ad essere prese seriamente. Prendendo atto del fatto che la comunità medica ha storicamente fallito nel far fronte in modo adeguato alle preoccupazioni delle donne sulla propria salute, il transfemminismo non può aspettarsi che le persone in posizione di potere prendano seriamente le preoccupazioni in termini di salute delle donne trans. Questo è il motivo per cui dobbiamo partecipare al movimento per la salute delle donne ed espanderlo.

Richiamare le analogie con il movimento per la salute delle donne risolve anche il dilemma strategico sulla patologizzazione dell’identità di genere. Per molti anni le persone trans hanno discusso tra di loro se fosse opportuno o meno richiedere la de-patologizzazione del disturbo dell’identità di genere, che è attualmente un prerequisito per alcuni trattamenti medici. È stata una questione che ci ha divise perché la patologizzazione del disturbo dell’identità di genere permette ad alcune di noi di sottoporsi a interventi medici, anche se, al tempo stesso, ci stigmatizza e nega la nostra autodeterminazione. Prima delle critiche femministe alla medicina moderna, i corpi femminili venivano considerati “anormali” dallo standard maschio-centrico del sistema medico che aveva come risultato la patologizzazione di esperienze femminili del tutto ordinarie come mestruazioni, gravidanza e menopausa; è stato il movimento per la salute delle donne che ha costretto la comunità medica ad accettare il fatto che sono parte delle comuni esperienze umane. Il transfemminismo insiste sul fatto che la transessualità non è una malattia o un disordine, ma fa parte dell’ampio spettro dell’esperienza umana comune, tanto quanto la gravidanza. Non è quindi contraddittorio chiedere che il trattamento medico per le persone trans sia reso più accessibile e, allo stesso tempo, de-patologizzare il “disturbo dell’identità di genere”.

È ora di agire

Nonostante abbiamo sperimentato il rifiuto più del dovuto sia all’interno che all’esterno delle comunità femministe, coloro che sono rimast* i/le nostr* miglior* alleat* sono comunque stat* femministe, lesbiche e altre soggettività queer. Il transfemminismo afferma che è inutile discutere, a livello intellettuale, su chi è e su chi non è inclus* nella categoria “donne”: dobbiamo agire, ora, e costruire alleanze.

Ogni giorno subiamo molestie, discriminazioni, aggressioni e abusi. Non conta quanto bene impariamo a passare per donne, l’invisibilità sociale dell’esistenza trans non ci proteggerà quando tutte le donne saranno sotto attacco. Non riusciremo mai a vincere se giochiamo secondo le regole sociali che normano come le donne dovrebbero comportarsi, abbiamo bisogno del femminismo tanto quanto le donne non-trans, se non di più. Come transfemministe siamo orgogliose della tradizione delle nostre antenate femministe e portiamo avanti la loro lotta nelle nostre vite.

Il transfemminismo è convinto che una società che rispetta le identità cross-gender coincida con una società che tratta equamente le persone di tutti i generi; la nostra esistenza, infatti, viene vista come un problema solo quando si dà una rigida gerarchia di genere. Con questa convinzione, è essenziale per la nostra sopravvivenza e dignità reclamare il nostro posto nel femminismo, non in maniera minacciosa o invasiva, ma in modi amichevoli e cooperativi. Il sospetto e il rifiuto iniziali da parte di alcune istituzioni femministe esistenti sono normali, soprattutto se si tiene conto che queste ultime sono state tradite tantissime volte da uomini auto definitisi “pro-femministe”. È attraverso la nostra perseveranza e impegno ad agire che il transfemminismo trasformerà la portata del femminismo in una visione del mondo più inclusiva.

Cogliere un’onda: rivendicare il femminismo nel ventunesimo secolo

Ho scritto il Manifesto Transfemminista nell’estate del 2000, soltanto un paio di mesi dopo essermi trasferita a Portland, aver incontrato comunità transgender e transessuali e iniziato a esplorare le intersezioni tra il femminismo e le esperienze trans. Suppongo di essere stat* ingenu*, ma inizialmente sono rimast* sorpres* quando ho scoperto che circolavano sentimenti anti-trans tra alcune femministe e sentimenti anti-femministi tra certe persone trans, perché le persone trans che avevo conosciuto erano il tipo di persone che rispetto sia come femministe che come attivist* trans. Ho scritto questo manifesto con l’obiettivo di elaborare una teoria femminista che fosse decisamente pro-trans e un discorso trans che fosse radicato nel femminismo. Penso di esserci riuscit*.

Tuttavia, questo manifesto presenta dei problemi che mi rendono in parte insoddisfatt*. Nelle varie revisioni che ho fatto nel corso degli ultimi due anni ho sistemato alcuni dei problemi minori, ma rimangono intatti problemi più grandi che non possono essere corretti senza riscrivere l’intero pezzo. Penso, però, sia importante spiegare quali siano questi problemi e perché si siano insinuati nel manifesto. Due di questi,  di più ampia portata, sono:

– L’attenzione eccessiva dedicata alle persone trans MtF a scapito dei trans FtM e di altre persone che si identificano come transgender o genderqueer (N.d.T. genderqueer indica una persona con un’identità di genere che non si riconosce nell’opposizione binaria maschio/femmina, ma ritiene che l’identità di genere sia l’espressione di uno spettro infinito di possibilità). Mi assumo la piena responsabilità del fatto che questo manifesto sia fortemente focalizzato su questioni che riguardano le persone transessuali MtF, mentre trascura difficoltà specifiche a cui vanno incontro le persone trans FtM o altre persone transgender e genderqueer. Al tempo in cui ho scritto questo articolo, avvertivo l’esigenza di limitare il focus del femminismo alle “donne” perché temevo che un’estensione del campo avrebbe permesso a uomini non-trans di sfruttare il femminismo per i loro interessi, come effettivamente fa qualche gruppo in favore dei cosiddetti diritti degli uomini. Anche se continuo a pensare che questa paura sia giustificata, adesso ho realizzato che privilegiare le questioni delle donne transessuali a spese delle altre persone trans e genderqueer è stato un errore.

– Un’analisi intersezionale insufficiente. Il manifesto si concentra prevalentemente sull’intersezione tra sessismo e oppressione delle persone trans, tuttavia non si occupa di come questi temi si intersechino con altre ingiustizie sociali. Per esempio, il manifesto fa riferimento alle critiche mosse dalle donne non bianche al razzismo delle donne bianche nel contesto del movimento femminista, ma non si sofferma su come le donne trans possano diventare alleate delle donne non bianche. Anche qui, ho esitato a spostare l’attenzione dal sessismo perché nel periodo in cui stavo scrivendo questo manifesto temevo di ricevere critiche da parte di altre femministe (non-trans). Ora, invece, concordo con l’idea che una teoria femminista che non fa i conti con il razzismo, il classismo, l’abilismo, ecc. che circolano tra le donne è incompleta e riconosco, quindi, che questo manifesto è incompleto.

Sebbene si tratti di critiche molto diverse tra loro, entrambe hanno la stessa origine: l’idea che le femministe debbano occuparsi principalmente – talvolta esclusivamente – dell’oppressione che ogni donna sperimenta. In questa concezione, problematiche come il razzismo e il classismo possono essere affrontate solamente quando farlo favorisce la battaglia contro il patriarcato – per esempio, parlando del razzismo degli uomini bianchi nei confronti delle donne non bianche – ma non quando farlo è visto come “divisivo” per il movimento delle donne, o piuttosto, quando ne svela le divisioni nascoste. Questo manifesto in larga misura si situa all’interno di tale traiettoria senza rimetterne in discussione le implicazioni razziste, classiste, ecc., e, per questo, merita di essere criticato. Ora mi sono res* conto che quando ho scritto il manifesto non mi sentivo sald* a sufficienza nelle mie stesse convinzioni per assemblare più questioni e ho ceduto alla paura di venire criticat* per aver annacquato il femminismo. È stato attraverso la solidarietà maturata negli ultimi due anni con altre potenti donne non bianche, donne della classe operaia e donne con disabilità, che ho potuto liberarmi da questo timore.

Ho pensato di scrivere un nuovo manifesto per affrontare queste e altre intuizioni che ho avuto dal 2000 ad oggi, con la sicurezza e la chiarezza che ho ora, ma per il momento lascio il compito ad altr*. Se ne scriverete uno, per favore mandatemelo.

Bonus: femminismo razzista alla National Women’s Studies Association

Emi Koyama

28 giugno 2008

A marzo mi è stato chiesto di intervenire al “tribute panel” dedicato al femminismo nero e in particolare alla vita e alle opere di Audre Lorde nell’ambito della National Women’s Studies Association. Mi sentivo onorata – e anche piuttosto intimorita – al pensiero di essere stata scelta per parlare dell’importanza delle opere di Audre Lorde nella mia vita e nel movimento femminista in generale. Erano state invitate a partecipare anche Kaila Adia Story (Università di Louisville) e Melinda L. de Jesus (California College of the Arts).

Sono entrata per la prima volta in contatto con i testi di Audre durante un corso di Women’s Studies al mio secondo anno di college. Per tutto un semestre, le/gli studenti dovevano leggere diversi articoli ogni settimana, per poi discuterne in classe e scrivere alcune riflessioni legate a tali letture. Ogni volta, settimana dopo settimana, la maggior parte del materiale assegnato era scritto da donne bianche, borghesi ed eterosessuali (se non, a volte, “lesbiche politiche”) e per me era difficile identificarmi nella gran parte delle questioni che venivano discusse. Continuavo a scrivere che non mi rivedevo nella lettura, ma non mi rendevo conto che questo avesse a che fare con la selezione del materiale. Mi sentivo in colpa per la mia reazione così “negativa” al femminismo e alle femministe.

Verso la fine del semestre una settimana venne dedicata alle opere di “donne di colore” [N.d.T. Utilizziamo qui ‘donne di colore’ perché riteniamo che il titolo originario della settimana fosse questo; nel testo, invece, abbiamo ritenuto di utilizzare ‘non bianche’ per definire, in modo non offensivo, le varie soggettività che non si rispecchiano nella bianchezza né nella dicotomia bianco/nero] (proprio così, un’intera settimana, evviva!). Se ricordo bene, si trattava di alcuni brani dall’antologia This Bridge Called My Back (la dichiarazione del Combahee River Collective e, credo, uno dei pezzi di Cherrie Moraga) e Sorella Outsider di Audre Lorde. Questi erano articoli con i quali, per la prima volta, riuscivo a entrare in connessione. Davano voce ai miei sentimenti di alienazione e frustrazione, che prima non riuscivo a inquadrare fino in fondo. E sebbene fosse solo una settimana, su un intero semestre, e si trattasse probabilmente della peggior forma di concessione esclusivamente simbolica all’interno della disciplina, questi articoli hanno fatto nascere la mia dedizione al femminismo e ai Women’s Studies, dedizione che dura tutt’oggi. Se non fosse stato per Sorella outsider, non so se oggi sarei una femminista.

Eppure una settimana non è stata sufficiente per acquisire la sicurezza e la forza che mi servivano per dire la mia quando mi ritrovavo circondata da femministe bianche e borghesi che sembravano ignorare quanto le loro azioni e le loro parole, razziste e classiste, causassero dolore e tristezza. Non era sufficiente leggere le opere di Audre e di altre come lei; quello di cui davvero avevo bisogno era costruirmi attorno un sistema di supporto, con persone di ogni etnia e genere che avessero a cuore la giustizia in ogni ambito della società e che si impegnassero a responsabilizzarsi a vicenda in modo empatico.

Nell’estate del 2000 mi sono trasferita a Portland, nell’Oregon (la prima metropoli in cui ho trascorso la mia vita adulta). Il giorno successivo al mio arrivo ho conosciuto Diana Courvant, una donna bianca transessuale che aveva fondato il Survivor Project per rispondere alle necessità delle persone trans e intersex sopravvissute a violenza domestica e sessuale. Essendo io stessa una sopravvissuta con una storia complessa per quanto riguarda genere e identità sessuali, mi sono unita subito al progetto.

Eppure mano a mano che conoscevo Diana, scoprivo che non tutte le femministe accettavano le persone trans. Al contrario, per un periodo lei stessa si era trovata in mezzo a una disputa da incubo all’interno della comunità lesbica femminista di Portland, di cui poi aveva parlato nel saggio “Speaking of Privilege” (in “This Bridge We Call Home”, curato da Gloria Anzaldua e AnaLouise Keating). Per farla breve: Diana era stata invitata a un ritiro femminista per sole donne nella foresta dell’Oregon, che, dopo che lei aveva accettato di partecipare, aveva istituito una politica che impediva l’accesso a persone dotate di pene, escludendo così le donne transessuali che non si erano sottoposte alla riassegnazione chirurgica del sesso. Diana aveva quindi declinato l’invito, organizzando però un workshop su tematiche trans appena fuori dal perimetro, con l’aiuto di alleate non trans. Il workshop aveva avuto successo, ma si era sparsa la voce che poco dopo lei si fosse introdotta nel perimetro del ritiro e si fosse denudata. La voce era ovviamente falsa, ma estremamente offensiva.

Proprio in reazione a questo clima generale scrissi il “Manifesto Transfemminista”, più tardi pubblicato nell’antologia Catching a Wave: Reclaiming Feminism for the 21st Century, curato da Rory Dicker e Alison Piepmeier. Il manifesto affrontava vari temi femministi, come la contraccezione, la salute sessuale e riproduttiva e la violenza contro le donne, e discute di come le donne transessuali condividano molte delle preoccupazioni delle altre donne. Volevo scrivere una teoria femminista che contrastasse l’argomentazione secondo la quale le donne transessuali sono così diverse dalle altre donne, che non c’è posto per loro nel movimento femminista (o che il femminismo sia inutile per le donne transessuali). Volevo fornire delle argomentazioni facili da ripetere, in modo che le femministe pro-trans potessero usarle per combattere l’ipocrisia e le falsità che si dispiegavano contro le donne transessuali. E in questo senso, penso che il “Manifesto” sia stato un successo.

Tuttavia, il Manifesto presentava degli aspetti disturbanti. Nello sforzo di creare un’alleanza fra donne transessuali e donne cisgender, il saggio trascurava le lotte degli uomini transessuali e delle altre persone transgender e genderqueer che non si identificano come “donne”, eccetto quei casi in cui era utile includerle. Il testo mancava anche di un’adeguata analisi intersezionale: ovvero, di come opinioni e oppressioni transfobiche si uniscano e complichino altre oppressioni oltre al sessismo – inclusi, soprattutto, razzismo e classismo. Tuttavia, di fatto, il saggio si ispirava alle opere di donne non bianche per argomentare determinate posizioni — come per esempio quella per cui la specificità delle esperienze delle donne transessuali non dovrebbe essere ragione di esclusione, in quanto questo presupporrebbe l’esistenza di un’unica esperienza femminile universale, cosa che chiaramente non esiste – senza però contribuire alla riflessione su come l’inclusione di soggettività trans aiuti a combattere il razzismo e altre forme di oppressione.

Il fatto è che, quando scrissi questo saggio, mi ero trasferita da soli tre mesi in una nuova città, e non ero ancora completamente consapevole del disagio che mi provocava il femminismo bianco che riempiva nove delle dieci settimane del corso Introduction to Women’s Studies. Al tempo stesso, non mi sentivo abbastanza sicura di me per mettere in discussione l’idea che il femminismo significasse semplicemente difendere i diritti delle donne e combattere il sessismo – e nient’altro. In breve, quella che scrissi era una versione del femminismo bianco, modificata quel tanto che bastava per includere le donne transessuali. Allora mi sembrava l’unico modo sicuro di elaborare una teoria femminista in grado di migliorare la posizione delle donne transessuali all’interno del femminismo. Gli anni seguenti li passai a incontrare sempre più persone che avevano come obiettivo comune la giustizia per tutte le soggettività, così come a sviluppare la consapevolezza necessaria a “trasformare il silenzio in linguaggio e azione”, utilizzando le famose parole di Audre. Nel paragrafo seguente parlerò proprio di uno di questi silenzi che è stato trasformato in linguaggio e azione.

L’invito a parlare durante il panel istituito per onorare l’eredità di Audre Lorde recitava: “La NWSA (National Women’s Studies Association ) ha il piacere di offrirle la partecipazione gratuita alla conferenza per ringraziarla per il suo tempo e la sua competenza. Sfortunatamente, tuttavia, l’associazione ha un budget limitato e non potrà coprire le sue spese di viaggio”. Io, però, non sono un’accademica, e senza un contratto stabile non posso permettermi di spendere centinaia di dollari solo per intervenire a una conferenza. Risposi spiegando la mia situazione e chiedendo un contributo per poter partecipare alla conferenza, ricevendo nuovamente in risposta dalla direttrice esecutiva: “La NWSA può pagarle la quota di iscrizione e registrazione; ovviamente ci piacerebbe poter fare di più”.

Cominciai a parlarne con alcune componenti del Direttivo dell’associazione, che conoscevo, e chiesi loro di farmi da portavoce; inviarono delle e-mail alla direttrice, ma la risposta fu identica. Inoltre venni a sapere che l’anno precedente la NWSA aveva invitato un’altra attivista che stimo moltissimo, impegnata da tempo sui temi della giustizia sociale per le persone queer, la quale dovette declinare l’invito a causa della indisponibilità dell’organizzazione di coprire le spese di viaggio.

Avrei potuto declinare anch’io l’invito, ma a quel punto la NWSA avrebbe continuato a tentare di sfruttare, di anno in anno, gli/le attiviste mentre fingeva di onorare e supportare il loro lavoro senza  nessuna contestazione. Decisi  di fare qualcosa di diverso: scrissi alla WMST-L (una mailing list internazionale di studi sulle donne con migliaia di iscritte), spiegando la situazione e chiedendo alle persone di scrivere alla NWSA per protestare contro questa prassi e donare un po’ di soldi affinché io potessi partecipare alla conferenza.

In pochi giorni ricevetti circa una dozzina di offerte di donazione e, a quanto pare, circa altrettante persone scrissero alla direttrice esecutiva della NSWA, anche persone del direttivo. Fra le più accanite sostenitrici c’erano la presidenta del Lesbian Caucus Lisa Burke, la co-presidenta del Women of Color Caucus Pat Washington e la rappresentante del Bisexual-Transgender Interest Group Joelle Ruby Ryan. A questo punto però la situazione divenne ridicola. A quanto pare, la direttrice esecutiva informò alcune delle mie sostenitrici che mi era già stata messa a disposizione una camera d’albergo a spese della NWSA, insinuando implicitamente che ero stata disonesta o che stavo architettando un piano per diffamare delle studiose femministe benintenzionate. Pensando che la direttrice avesse cambiato idea e avesse deciso di contribuire almeno a parte delle spese, ricontattai la NWSA solo per sentirmi rispondere che nulla era cambiato e che le spese erano ancora a mio carico (seppur con l’aiuto di molte sostenitrici).

Ricevetti donazioni sufficienti per coprire la maggior parte delle spese, quindi volai a Cincinnati per partecipare al tribute panel. Nel mio discorso parlai di come avevo scoperto l’opera di Audre Lorde, quanto fosse stata importante per me, ma anche di quanto non fosse sufficiente leggere i suoi libri per sentirsi davvero emancipate. Lessi la postfazione che scrissi per il “Manifesto transfemminista” e raccontai come quel pezzo riflettesse un momento della mia vita in cui stavo negoziando cautamente la mia posizione all’interno del femminismo. Parlai poi del panel stesso, e di quanto fossi profondamente combattuta sul partecipare o meno a una celebrazione di Audre Lorde e del suo lavoro, dal momento che la struttura stessa del forum tradiva la sua eredità.

Dissi che mi chiedevo, se Audre fosse stata ancora qui, se avrebbe accettato l’invito a parlare a questa conferenza a condizioni così umilianti. Audre non lo meritava, e questo tribute panel non era il modo più adatto di onorare e commemorare il suo contributo agli studi delle donne. Dissi anche che una delle ragioni per cui mi sentivo così indecisa se parlare in questa occasione, era dovuta alla paura che la mia presenza alla conferenza potesse contribuire a legittimare ciò che era fondamentalmente illegittimo.

Audre stessa affrontò circostanze simili nel 1979 quando fu invitata a parlare in occasione dell’“unico panel [della Seconda conferenza sul sesso, tenutasi  alla New York University] nel quale il contributo delle femministe e lesbiche nere fosse rappresentato” anche se accettò l’invito “mettendo in chiaro che avrebbe commentato articoli riguardanti il ruolo della differenza nella vita delle donne americane”, cosa che non sarebbe stata possibile “senza un contributo significativo da parte delle donne povere, delle donne nere e del Terzo Mondo e delle lesbiche”. Il suo discorso, intitolato “Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone”, incluso in Sister Outsider, è tanto famoso quanto poco compreso.

Quando Audre parlava degli “strumenti del padrone”, ciò a cui si riferiva era la riluttanza delle femministe bianche, etero e della classe media, a riconoscere le differenze esistenti tra le donne in base alle linee di razza, classe, sessualità, ecc. Poiché non riescono a cogliere la forza che può provenire dal riconoscimento delle differenze, non solo tra donne bianche e nere, ma anche tra donne nere – perché gli organizzatori non coinvolsero diverse donne non bianche, come se si aspettassero che Audre rappresentasse tutte le donne nere? – Lorde sostiene che molte femministe bianche siano complici del fatto che il patriarcato razzista e omofobico prosperi.

In un altro testo, anche questo parte di Sorella Outsider, Audre dichiarò che non avrebbe mai più parlato di razzismo alle donne bianche. Ovviamente non fu l’ultima volta che lo fece, ma non ho dubbi sul fatto che abbia combattuto spesso con la voglia di arrendersi. Parte della ragione per cui alla fine decisi di partecipare alla conferenza e di parlare al tributo è stata realizzare di trovarmi sulle spalle di Audre Lorde e delle sue contemporanee, molte delle quali sono ancora vive, anche se molte se ne sono andate. Il panel ha avuto grande successo e la discussione che ha coinvolto le relatrici e il pubblico è durata quasi tre ore, anche se inizialmente la durata prevista era di soli 75 minuti.

Nel corso dell’assemblea delle delegate il giorno successivo, Lisa Burke del Lesbian Caucus si fece avanti. La direttrice esecutiva le aveva promesso che si sarebbe “occupata” della mia situazione, il che significava che la NWSA mi avrebbe fornito almeno l’alloggio per la conferenza, cosa che in qualche modo non successe. La direttrice sostenne che l’NWSA in effetti aveva prenotato una stanza per me, pagata tramite il proprio conto, e accusò la sua assistente, una donna nera che non era presente nella stanza, del “problema di comunicazione”. Lisa protestò per questa ricerca di un capro espiatorio e chiese all’organizzazione di rimborsarmi le spese di alloggio e di presentare scuse ufficiali. Tutte le delegate votarono a favore della mozione. La risoluzione mi fee quasi sentire in colpa, in parte perché un’altra donna non bianca mi era stata messa contro ed era stata incolpata di tutto, e in parte perché il pensiero di una stanza da 170 dollari lasciata vuota per me era uno spreco enorme a cui non volevo pensare.

TRANS-FILOSOFIE DEI PASSAGGI E DEI FLUSSI

Filosofia dei passaggi e dei flussi verso un terzo spazio delle partecipate differenze e delle molteplicità o il terzo paradiso rappresentato da Pisotoletto

Dalle relazioni tra partecipate differenze (sottostanti  duali)della Candiotto  alle molteplicità deleuziane (apparentemente moniste)

 Un modo nuovo per intendere la “dualità” , la partecipazione tra idee e sensibili, la relazione di anima e corpo e la finalità della conoscenza filosofica. È di vitale importanza riuscire a pensare un oltrepassamento della concezione dualista che non si riduca a un monismo indifferenziato o a un immanentismo della presenza che nega ogni forma di trascendenza o trascendentale (linguaggi e visioni del mondo) : lo sforzo è cioè quello di pensare per questa filosofa la dualità senza dualismo.

Laura Candiotto (1981), dottore di ricerca, è assegnista di ricerca in Filosofi a Teoretica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con un progetto dedicato alla nozione di relazione.

 Studiosa di Platone e dell’ontologia greca, si occupa anche di metafisica ed epistemologia contemporanea, oltre che di pratiche filosofiche ispirate al metodo dialogico socratico. È autrice di Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di Platone (Mimesis 2012) e di numerosi articoli scientifici rintracciabili in unive.academia.edu/LauraCandiotto

Con i contributi di: Beatriz Bossi, Luc Brisson, Laura Candiotto, Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta, Salvatore Lavecchia, Arnaud Macé, Maurizio Migliori, Olivier Renaut, Emanuele Severino, Luigi Vero Tarca, Anca Vasiliu, Mario Vegetti.

Frammenti tratti da ‘senza dualismi’ di Laura Candiotto edizioni MIMESIS

‘Per superare il dualismo è necessario “aprire il cantiere della partecipazione” (p.129), soffermandosi sull’eidos matematico. O. Renaut porta in primo piano la funzione degli intermediari. A partire dal modello psicologico tripartito, lo studioso riprende il ruolo dello thymos, a metà tra desiderio e valutazione razionale: esso, mentre conferma il supposto dualismo, allo stesso tempo valorizza quanto è in posizione di collegamento. Questo tipo di posizione teorica apre il campo a uno studio della filosofia platonica come “filosofia dei passaggi” (p.143) che ponga attenzione allo sforzo di Platone di comporre il dualismi.

Sulla centralità della relazione punta l’attenzione L. Candiotto. Il superamento del dualismo può avvenire infatti solo riconoscendo come esso sia una forma di relazione tra differenti e non di separazione tra incomunicabili. In primo luogo Candiotto si sofferma sulla nozione di “partecipazione”: a differe

nza dei concetti di parousia (verità)e corismo(separazione), essa permette di mantenere il legame tra idee e tra idee e sensibili nei termini della differenza. C’è certamente un carattere asimmetrico tra i due, tuttavia “le idee hanno bisogno del sensibile per portare a termine il loro compito”: in questo sta la “natura generativa e trasformativa del bene” e la “pratica dell’ideale” (p.74). Tale pratica è svolta dalle figure di mediazione: il Demiurgo, il Bene, ma anche il filosofo dialettico. Essa è pratica spirituale (p.75), un lavoro dell’anima (p.79) e al filosofo spetta proprio il compito di cogliere l’unità della differenza e la differenza dell’unità. A tal proposito è decisivo il Sofista, dove Platone propone una visione dello heteron come espressione del metaxy(che sta in mezzo tra bellezza e bruttezza): la relazione connette attraverso la negazione invece di isolare nella separatezza.

Altro dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito metafisico contemporaneo.

Altro dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito metafisico contemporaneo-

— in modo da conservare solo il sostantivo “molteplicità”

Gilles Deleuze: Ma quello è un falso monismo.

La magica operazione che consiste nel proibire l’impiego degli aggettivi “uno” e

“multiplo”, in modo da conservare solo il sostantivo “molteplicità” … Tale

operazione rende conto dell’identità di monismo e pluralismo, e correla la vera fonte

del dualismo alla dualità stabilità tra i due aggettivi: uno e multiplo. Il terreno del

dualismo è sempre stato: ci sono cose che sono uno. Qui si torna sempre a Cartesio, perché oggi parliamo di Cartesio, cioè di Lacan. Dunque ci sono cose che sono

divisibili. Il dualismo non è definito dal due, ma dall’impiego dell’uno e del multiplo

come aggettivi. Ciò è vero già in Duns Scotus.

Così che, invece di usare l’uno e il multiplo come aggettivi, sostituiamo il sostantivo

“molteplicità”, nella forma: non c’è niente che sia uno, niente che sia multiplo, tutto è

molteplicità. In questo momento, si vede bene la forte identità di monismo e

pluralismo nella forma di un processo di immanenza che non può essere né

interessato – ed è ciò che i cinesi ci dicono nella loro saggezza sessuale – né

esasperato. Il processo di immanenza è anch’esso, cioè, una molteplicità che designa

un campo di immanenza popolato da una molteplicità.

Penso a questo libro sulla vita sessuale nell’antica Cina. Racconta una strana storia, in

fondo siamo tutti cinesi: nel Taoismo – varia a seconda delle età, ma in ogni caso – il

lettore è impressionato dalla gloria dell’uomo e della donna in esso … Ma questo non

è ciò che fa la differenza col pensiero occidentale, perché dal lato del pensiero

occidentale non funziona più intensamente; la differenza è altrove.

Ciò che fa la differenza è il modo in cui il desiderio è vissuto, totalmente differente:

non è correlato ad alcuna trascendenza, a nessuna mancanza, non è misurato da

nessun piacere e nemmeno è trasceso da alcun godimento, nella forma o nel mito di

un impossibile. Il desiderio si pone come puro processo. Concretamente, significa che

esso non è affatto l’orgasmo: il loro problema non è affatto quello occidentale, ossia

come emancipare la sessualità dalla genitalità. La questione dei cinesi è come estrarre

la sessualità dall’orgasmo. Così, a grandi linee, essi dicono: capite che, piacere o

orgasmo, questo non è il compimento del processo ma la sua interruzione oppure la

sua esasperazione, oppure le due assieme, il che è completamente deplorevole! Senza

dubbio, occorre che si arrivi, ma allora occorre percepire questi momenti di

sospensione come autentiche sospensioni che permettono al processo di ripartire.

Hanno una teoria dell’energia femminile e maschile, che consiste nel dire, grosso

modo: l’energia femminile è inesauribile, l’energia maschile è più fastidiosa perché è

esauribile. Il problema, in ogni caso, è che l’uomo prende qualcosa dall’energia

femminile inesauribile, o entrambi prendono qualcosa dall’altro. Come può

succedere?

I flussi dovranno … si tratta infatti di un pensiero in termini di flussi – il flusso

femminile, seguendo traiettorie ben determinate, sorge seguendo le linee del flusso

maschile, lungo la colonna vertebrale per arrivare al cervello, ed ecco il desiderio

nella sua immanenza come processo.

Si prende in prestito un flusso, si assorbe un

flusso, si definisce un puro campo di immanenza del desiderio, in relazione a cui

piacere, orgasmo, godimento si definiscono come sospensioni reali o interruzioni.

Vale a dire, nient’affatto come una soddisfazione del desiderio, ma al contrario

un’esasperazione del processo che fa uscire il desiderio dalla sua stessa immanenza,

dalla sua proprio produttività.

Tutto ciò ci interessa nella misura in cui, in tale

pensiero, il desiderio perde simultaneamente qualsiasi legame con la mancanza, col

piacere, l’orgasmo, col godimento. Il desiderio è concepito come produzione di un

flusso, esso definisce un campo d’immanenza, e un campo d’immanenza significa

una molteplicità in cui, effettivamente, qualunque divisione del soggetto in soggetto

d’enunciato e soggetto d’enunciazione risulta impossibile, laddove nella nostra

macchina girevole la cosa era molto semplice: il soggetto dell’enunciazione era il

soggetto del godimento impossibile, il soggetto dell’enunciato era il soggetto del

piacere e della ricerca del piacere, e il desiderio-mancanza era la divisione dei due.

Ciò vi dice fino a che punto, da Cartesio a Lacan, questo pensiero ripugnante del

cogito non è solo metafisica.

L’intera storia del desiderio – e ancora, è alla stessa maniera che Reich fallisce, nel

correlare il desiderio a un al di là, che sia quello della mancanza, del piacere, del

godimento, e nel porre il dualismo tra soggetto dell’enunciazione e soggetto

dell’enunciato. E non è un caso che sia la stessa operazione compiuta oggi da alcuni, i

lacaniani, ossia riportare qualunque enunciato al soggetto, che conseguentemente e

retroattivamente diventa il soggetto diviso in soggetto d’enunciazione e soggetto

d’enunciato. Ciò che è inscritto è il soggetto dell’enunciazione, che collega il

desiderio al godimento impossibile; il soggetto dell’enunciato, che collega il

desiderio al piacere; la divisione tra i due soggetti, che collega il desiderio alla

mancanza o castrazione. Sul piano della teoria, la produzione di enunciati riveste

perfettamente questa  corrotta teoria del desiderio, parola per parola.

È in tal senso che sostengo che pensare significa essere monisti, nella piena

apprensione dell’identità tra pensiero e processo: desiderio come costitutivo del

proprio campo di immanenza, vale a dire come costitutivo di molteplicità che lo

popolano. Ma tutto ciò può risultare oscuro, un campo monistico è certamente un campo abitato da molteplicità.

TRANS-POETICA

La poesia dell’impoetico “Trasumanar” di Pierpaolo Pasolini

Nota di Lucio Marini

Tra i libri di poesie “civile” del ‘900, Trasumanar e Organizzar è, a mio avviso, il più significativo, non tanto per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la straordinaria carica innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in questa raccolta.

Un luogo comune della critica è che le ultime poesie di Pasolini, e dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi, quasi di identità e di ruolo, del poeta.  E si indica in questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota  a firma R.G. dell’edizione Garzanti del 1976), una delle caratteristiche principali, dal punto di vista stilistico, dell’intera opera.  Tanto da vederla come un anticipo dei “modi e dello spirito provocatorio dei successivi interventi polemici” (si riferisce, credo, ai successivi saggi Lettere luterane e Scritti corsari) e quasi a latere di più importanti lavori in altri settori (il cinema ad esempio).  Peraltro, anche nella nota sopra citata, si conviene oltre, in verità senza molto entusiasmo, che il libro è indiscutibilmente un libro di poesia, nonostante la sua tentazione, per così dire, verso la prosa.  Ma non ci viene però spiegato perché e come, questo libro sia – e senza mezzi termini – un grande libro di poesia.

Se è vero che la poesia di Trasumanar segna una rottura, sia con le avanguardie, sia con l’iniziale terzina pasoliniana, è perché tale frattura è il risvolto di una frattura interiore fra il poeta e il suo tempo storico, che viene da lui avvertita e puntualmente tradotta in un verso adatto ad esprimerla.  Ne Le ceneri di Gramsci o L’usignolo della Chiesa Cattolica siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la tradizione (sia stilistica che culturale e concettuale) e benché in forte dialettica con essa, cerca una nuova poesia capace di esprimere un sogno civile.  Il verso dunque, pur lontano dal formalismo tradizionale, sta dentro la tradizione anche nella forma, perché evidentemente il poeta la ritiene adatta ad esprimere un rinnovamento sia artistico che civile.

In Trasumanar le cose sono diverse.  Ed è vero che la cocente delusione politica e civile di Pasolini (espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in volume – Il caos, 1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non abbandona la tradizione e che, anzi, Trasumanar è forse il suo libro più vicino alla tradizione.  E per far questo egli abbandona, nella poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che si esprimono nel verso fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua sostanza, l’afflato, le sue ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di disincrostamento da tutte quelle ragioni che poco hanno a che fare con essa.  Che cos’è il verso, infatti, se non convenzione?  qualcosa che si è sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili trasformismi, si è imposta essa stessa come essenza della poesia?  E se il verso è convenzione, cosa impedisce al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con c’entra nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla a un ruolo mimetico della realtà).  La poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di libertà che si impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e pertanto non può essere costretta dentro un canone.  La poesia è, per l’uomo, il respiro del suo profondo, il luogo della sua verità che rifiuta qualsiasi collocazione o convenzione.  Ed è in questo luogo soltanto che è possibile riscattarsi dalla massificazione.  Siamo quindi di fronte, civilmente, alla rivolta individuale del poeta contro il sistema – in questo caso letteraria -, pur senza abbandonare – come in un certo senso fecero le avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema stesso.  Anche qui, dunque, siamo dentro una tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo massificante.  Ed è qui che viene messa a nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e nello stesso tempo si tenta in recupero delle sue radici autentiche.  Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le mistificazione dell’umano troppo umano.  E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci?  quel gusto di sondare i nodi più profondi e più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica?  Pasolini non fa altro che riscrivere quelle tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte.  Se infatti lo spirito della grecità e quello di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale, unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante, sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo.  Mentre la poesia greca costruisce la tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione anti-poetica.  L’impoetico, se mai, sta nel voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo).  E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa (ma quale poesia?).  Egli stesso infatti dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto, come respirare).  L’utilità ne sancirebbe dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.

Trasumanar e organizzar non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini esprime la sua crisi poetica.  E’ invece un libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual “grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non poteva essere scritto in altro modo che in quello.  Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere, senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che “poesia” e “identità” sono la stessa cosa.  Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere poesia come la scrisse in precedenza.  Troverei infatti singolare che l’autore de Il caos o degli Scritti corsari, avesse potuto scrivere L’enigma di Pio XII in terzine, magari a rima alternata e con metro dantesco (e, non dimentichiamolo, quello stile fu la rivoluzione ai tempi di Dante): ne sarebbe uscito un impaccio, una masturbazione intellettuale, una farsesca prostituzione di ogni suo convincimento umano e artistico.

 Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le molte questioni, una riflessione sul rapporto fra poesia e ideologia, forse non più così evidente oggi (non che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie, sono diventate più sfuggenti, più striscianti e per questo più insidiose).  Le poesie della raccolta infatti sono scritte, all’incirca, negli anni che corrono dal 1965 al 1971.  In quella temperie culturale, tutto veniva ideologizzato, e l’arte non fu risparmiata a questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene, anche se eravamo allora molto giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un cucchiaio di minestra assumeva un aspetto ideologico e doveva essere “spiegato” in riferimento a qualche massimo sistema).  Persino Pasolini stesso, anche se raramente, è stato tentato dall’ideologia (ho in mente alcune interviste rilasciate alla televisione) ma si vedeva che questo suo cedere all’ideologia era l’espediente di parlare a nuora perché suocera intenda, cioè di usare il linguaggio dell’ideologia per poter prendere a cornate coloro che così ragionavano (non ultimi i “big” del PCI): usava quindi il solo codice ad essi comprensibile, appunto per farsi capire.  Pasolini si difende dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come pochi intellettuali del suo tempo, la facoltà della critica, che è uno strumento del filosofo più che del poeta, anche se egli la esercitò ovviamente come artista (che non cerca i fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a pelle”, a differenza del filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale appoggiarsi).  Ed in questo ruolo di artista-critico o artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la coesione della sua identità.  Non dunque l’artista che sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre o che piange, ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non passivo.  Non è soltanto, il suo, un ribellarsi a parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non violento (i mass media infatti ci hanno indotto a temere questa parola, associandola tout court a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo valore ideologicamente attribuito– il contrario dell’eversione è infatti, è la conservazione, ma di quale “ordine”?).

Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto questo criticismo, che lo sente da poeta.  La poesia di Transumanar infatti, è un raro esempio di come il pensiero possa diventare poesia, quando la passione lo infiamma o quando l’ironia cambia il segno di ciò che, detto in altro modo, esprimerebbe solo enfasi, retorica, assolo di trombone.  Trasumanar  è prima di tutto un libro appassionato, che in questa passione tutto consuma, che il lei risucchia anche le sottigliezze del ragionamento, le riprese degli avvenimenti civili e politici, i commenti, ecc.  Per questo riesce ad essere un libro di poesia, laddove si rasenta (secondo una visione formalmente tradizionale della poesia) la prosa.  In questa passione che tutto risucchia e ritempra come il crogiolo di un altoforno, la fa da padrona la poesia, ossia la visione im-mediata del mondo che l’artista ci propone.

E non è vero che Pasolini, come è stato scritto, abbandona anche il “tono” della poesia.  C’è invece un tono, ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa prospettiva, di leggere con passione ciò che un linguaggio apparentemente prosastico grida con passione.  Ho scritto sopra che egli non poteva scrivere in altro modo che in quello: ed è proprio nel diverso “tono” di queste liriche che si giustifica l’affermazione.  Pasolini evita il tono nasale della lirica tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli sono congeniali, o non sono adatti al suo sentire.  Ma soprattutto non sono congeniali a una lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle ragioni, convincere, toccare nel segno.  Ecco allora il senso questo tono pacato, quasi dimesso e quotidiano, accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore in un dialogo che lo vuole parte attiva.  Per scrivere la sua poesia civile (o meglio: per salvare la sua poesia dall’insignificanza), l’artista ha inventato un nuovo artificio retorico, che è quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici.  Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua di accenti pacati e colloquianti che si insinua e scava una sua breccia nella sensibilità del lettore.  Possiamo dire che sia questa un’operazione anti-letteraria?  Dipende da cosa si intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i paradossi stanno nel termine stesso.  Dipende se per “letteratura” intendiamo solo quella canonica dei “professori” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e dunque anche non classificabile.  A me pare che Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della seconda metà del secolo; ma non certo un “professore”.

E qui bisogna stare attenti anche a non dare troppo credito alle dichiarazioni di Pasolini stesso che, da gran narciso qual era, scriveva sornione: “e se qualche verso mi riesce passabilmente / è per semplice abitudine” (e ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a mio avviso essere collocate nella giusta prospettiva, di come si intende l’inutilità della poesia e che cosa davvero significhi “verso”).  Ecco dunque che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che “ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più profonde.  Il tradimento della poesia è infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in versi (gli zdanovisti) una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole “spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza dell’artista.

Trasumanar e organizzar è dunque un libro più che mai vivo e attuale, dopo trent’anni dalla sua prima apparizione (1971), un libro che non cessa di insegnare e che può essere un buon punto di partenza, anche contro le ideologie (anche in poesia, anche in poesia…), ora più di allora nascoste e difficili da smascherare.  E per la poesia, in qualunque forma si manifesti.

TRANS PREFISSO DI MOVIMENTO E DI TRANSITO

trans- [dal lat. trans, trans- «al di là, attraverso»; v. tra- e tras-]. – Prefisso che indica passaggio oltre un termine, attraversamento, mutamento da una condizione a un’altra, ecc.; in parole del linguaggio comune è ant., sostituito sempre nell’uso moderno da tras- (v.): transportare (= trasportare); transformare (= trasformare), ecc.; si conserva in alcune parole del linguaggio dotto, scient. o tecn., derivate dal lat., il cui secondo elemento comincia per vocale: transazione, transigere, trànsito, transizione, ecc. Serve anche a formare parole e nomi nuovi, soprattutto del linguaggio dotto, scient. o tecn.: in geografia, col sign. di «al di là», come in Transgiordania e in transdanubiano, o con quello di «attraverso», in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade, ferrovie, ecc.): transaustraliano, transatlantico, transiberiano, transpolare. In partic., nella terminologia scient., può indicare superamento di un termine (transfinito), attraversamento di un corpo,

scambio, spostamento; in medicina indica per lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale metilico per le transmetilasi. Talora è peraltro usato anche per la formazione di composti più effimeri; per es., nel linguaggio giornalistico, si parla spesso di schieramenti o movimenti transpartitici, i cui rappresentanti, di estrazione politica diversa, superando le normali divisioni fra partiti, si propongono come forza nuova e riformatrice. ◆ I rinvii da forme ant. con trans- a forme moderne con tras- si fanno soltanto in alcuni casi, quando le forme con trans- hanno qualche rilievo particolare.

transindividuale agg. Che attraversa l’individuo, superandolo. ◆ Per la filosofia cinese, al contrario, il soggetto non è né attivo né passivo: l’azione trasformativa passa attraverso di lui, è transindividuale. (Remo Bodei, Corriere della sera, 14 aprile 1999, p. 35, Terza pagina) • Una quantità sempre maggiore di contenuti di vita si spersonalizza e viene oggettivata, non solo perché detti contenuti si spogliano di valori soggettivi e vissuti psicologici, ma perché, nella forma oggettivata che assumono e nella relazione di scambio in cui si immettono, diventano «transindividuali», ed entrano in un mondo dove è possibile appropriarsene senza lotta e reciproca oppressione. (Umberto Galimberti, Repubblica, 11 giugno 2002, p. 41, Cultura).
Derivato dall’agg. individuale con l’aggiunta del prefisso trans-.
Già attestato nella Repubblica del 15 marzo 1992, p. 36, Cultura (Alfredo Giuliani).

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Prefissi

Prefisso Significato Esempi
tra- Attraverso trafiggere, tramontana, traforo
tra- al di trascrivere, traballare, traboccare
trans- oltre, al di , attraverso transcodifica, transalpino
… ⇒ tras- oltre, al di , attraverso traslocare, trasmettere, trasmodare, trasmutazione

Altre 97 righe

Definizioni del prefisso trans-

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prefisso di parole composte derivate dal latino o di formazione moderna, dal lat. tra¯ns ‘al di là, oltre; attraverso’; indica il passare oltre o attraverso qualcosa, quindi da un punto a un altro e, figurato, da una condizione a un’altra. e’ presente nella forma antica o antiquata di parole che nell’uso moderno presentano la variante tras- (transporto – trasporto), sempre quando il secondo elemento comincia per vocale (transatlantico, transalpino) e in molti composti della terminologia scientifica o dotta (transcodificazione, transfluenza) [Vedi >>> tra-].

transumare v. intr. [dal fr. transhumer, comp. di trans- «trans-» e lat. humus «terra»] (aus. avere o essere). – Spostarsi stagionalmente secondo le consuetudini della transumanza. ◆ Part. pres. transumante, anche come agg.: greggi transumanti.

Per informazioni su attività di Comunimappe – libera comune università pluriversità bolognina.

www. comunimappe.org

la poesia è un sogno fatto alla presenza della ragione”.

SIMPOSIO SULLE TRANS-EDUCAZIONI

IL BAMBINO SI EDUCA DA SE’ …..

A RIGOR DI LOGICA DA UN PUNTO DI VISTA SCIENTIFICO NON E’ POSSIBILR CHE QUALCUNO EDUCHI QUALCUN ALTRO …

CI SI PUO’ SOLO EDUCARE DA SE STESSI” <(Tratto dalla psicologia pedagogia e ripresa nella teoria delle emozioni di L.E.VYGOTSKJI)

DOMENICA 19 MAGGIO 2019

ALLA ZONA ORTIVA

VIA ERBOSA 17 –BOLOGNINA (per arrivare:scendere alla fermata autobus 11 c –arcoveggio- ippodromo poi proseguite su una traversa a sx – Fratelli Cervi, in fondo alla strada vi troverete di fronte alle Scuole Grosso Tasso, a questo punto da lì girate a dx, e dopo aver passato  sotto un ponte ferrovia e circa 200 mt dopo il campo Sinto ci siete …)

INIZIAMO ALLE ORE 10

ALLE 13 PAUSA PRANZO COMUNE

ALLE 14 RIPRESA ATTIVITA’ FINO ALLE 16

ACCORDA: PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE

RESPONDENS (INTERLOCUTORE):— DINO BUZZETTI -GIA’ DOCENTE UNI BO

RELAZIONI:                                              1 – EUROPEIZZAZIONE EDUCATIVA AL NEO-LIBERISMO  – ALESSANDRO PALMI, DOCENTE–CESP-COBAS

2- RINVENZIONI TRANSFEMMINISTI E DI GENERE – NELLA SOCIETA’ E NELLA SCUOLA ED IMPEGNO A TENERLE APERTE –RENATOBUSARELLO-SMASCHIERAMENTI E VALENTINA MILLOTTI  DOCENTE E RICERCATRICE –CESP-COBAS

3 – EDUCAZIONE DIFFUSA – DIMITRIS ARGIROPOULOS DOCENTE –RICERCATORE

4 – ESPERIENZE DI PEDAGOGIE DELLE DIFFERENZA NELLA COOPERAZIONE EDUCATIVA DEL NOVECENTO – PIERA STEFANINI – DOCENTE, FREELANCE- GIORNALISTA

5 – LA TRASAVANGUARDIA NELL’ARTE – RAFFAELE PETRONE – DOCENTE STORIA DELL’ARTE

6– EDUCARE ALLE DIFFERENZE PER CONTRASTARE STEREOTIPI DI GENERE ED IDENTITA CHIUSE’, VIOLENZA TRA PARI, MASCHILISMO E OMOFOBIA –  NELLE SCUOLE SECONDARIE DI SECONDO GRADO – MARIA AGNESMAIO- SOCIOLOGA CRTICA, FORMATRICE, ESPERTA EDUAZIONE AL GENERE ED INTERCULTURALE

7 – LA TRANSIDIVIDUALITA’ IN SIMONDON – ALFIO NERI – DOCENTE  DI FILOSOFIA

8 – TRANS-SAPERI: STORICO-CULTURALI E PSICOLOGICI                                                OLTRE IL DUALISMO CARTESIANO EMOZIONI – RAGIONI, ATTRAVERSO COMMENTI AD UN SAGGIO ‘L’ERRORE DI CARTESIO DEL NEUROSCIENZIATO DAMASIO ED UNA RICERCA SULLA ‘TEORIA DELLE EMOZIONI’ DEL PEDAGOGISTA VYGOTSKIJ.PINO DE MARCH -DOCENTE E RICERCATORE, RICERC-ATTIVISTA DI COMUNIMAPPE

TRANS-EDUCAZIONE-EUROPA-TRANSNAZIONALE

Con questo convivio trans-educazione vorremmo cominciare ad invertire la tendenza al ristagno fin qui praticata nelle istituzione educative, che si esplicitano con didattiche delle competenze (saper fare  ‘performativo e funzionale’ rapido e a-problematico ed irriflessivo a scapito del saper essere e pensare lento riflessivo e problematico ed esistenziale), sapere performativo e competizionale orientato al capitale umano e alla realtà delle cose o al post-umano(alla tecno-latria), verso uno sviluppo illuminista, umanista e progressivo dello sviluppo complesso dell’umano, con le sue ricercate auto-realizzazioni e orizzonti di senso trans-individuali, trans-culturali, e trans-femministi e  di ritrovati limiti e relazioni tra arte,scienze e tecniche ed universi umani per l’affermazione del vivente tutto (trans-umani).

Trans-educazioni da intendersi come trama complessa di relazioni che costituiscono ad un tempo:                                                                – un saper-essere (soggetto attivo e consapevole negli affetti e nelle relazioni – autonomo ed empatico, e non soggetto-oggetto, assoggettato, inerme, inconsapevole ridotto ad oggetto fra gli oggetti o vuoto profilo o performance),

  • un saper-pensare(per concetti critici, divergenti e problematici)
  •  un saper-fare(cooperazione, produzione – riproduzione di nuovi oggetti e percetti eco-sociali)

ove emerge il primato delle relazioni e della costitutività su ogni singolo elemento implicato  (per parafrasare Simondon nella sua complessa esplicazione della trans-individualità),

 che favorisca una nuova cooperazione educativa e sociale e dialogo tra pari, e pensieri incarnati.

Il prefisso trans-indica in primis un movimento e e nel contempo la possibilità di oltrepassare separazioni ed ostacoli posti da secolari dualismi filosofici (platonici-cartesiani), binarismi sessuali (patriarcali)e uni-dimensionalità capitalistiche utilitaristiche-mercantili (infatti ‘nell’uomo ad una dimensione’  il filosofo H.Marcuse denunciava anticipatamente una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà che ormai prevale nella civiltà industriale avanzata sotto il segno di un progresso tecnico e di relativi automatismi ) che ha colonizzato anche la conoscenza e la cultura; un’oltrepassare ad un terzo paradiso di molteplici espressioni, relazioni e conoscenze per riprendere l’artista Pistoletto.

-e secolari dualismi-filosofici(separazioni ed opposizione di matrice cartesiana smascherato in modo esemplare nel saggio – nell’errore di Cartesio -dal neuroscienziato portoghese Damasio ),

  • il binarismo sessuale (maschile-femminile, ben trattato nel piano educativo del movimento transfemminista –non una di meno).

Un verso poetico-musicale in questo cammino di tras-formazione c’accompagna, un verso che afferma non esserci ‘nessun grado di separazione’ tra molteplici culture e generi, tra mente e corpo, tra biologico e culturale, cognitivo ed emotivo, scienze naturali e scienze umane ecc.).

Attivarsi in maniera trans-umana o neo-umana per generare un terzo spazio tra umano, natura e tecnica (o terzo paradiso prefigurato dall’artista Michelangelo Pistoletto.)

 Nel 2003 Pistoletto scrive il manifesto del Terzo Paradiso e ne disegna il simbolo, costituito da una riconfigurazione del segno matematico d’infinito. Tra i due cerchi contigui, assunti a significato dei due poli opposti di natura e artificio, viene inserito un terzo cerchio centrale, a rappresentare il grembo generativo di una nuova umanità, ideale superamento del conflitto distruttivo in cui natura e artificio si ritrovano nell’attuale società.

“nel primo paradiso, gli esseri umani, considerati privi d’autonomia di pensiero e d’azione, si trovano in una condizione paradisiaca in quanto estranei alla sofferenza che deriva dal voler capire e dal dovere scegliere(condizione alienata in cui siamo precipitati ora di nuovo nell’era iper-consumista). Non essendo gli umani artefici di quell’Eden, esso è stato attribuito ad un Dio onnipotente ieri (e al Mercato oggi), il morso della mela rappresenta il primo momento d’autonomia dell’essere umano e segna inizio del secondo paradiso e del religioso senso di colpa. A quel punto l’essere umano prende possesso del mondo naturale, lo sfrutta fino a degradarlo, trasformandolo in mondo sempre più artificiale. Il religioso senso di colpa non è bastato ad arginare il crescente abuso del nostro pianeta, che pare davvero inarrestabile, destinandoci alla catastrofe finale. L’Arte,oggi, chiede(o con) la scienza di impegnarsi per creare un nuovo equilibrio fra artificio e natura (trans-umano). La mela morsicata,con il marchio dell’Apple, ha tramutato un simbolo della natura in un simbolo di puro artificio. La mela artificiale ha conquistato il mondo, rendendo attuale e globale l’immagine biblica. La scienza stessa, in questo passaggio che richiede una vera e propria metamorfosi della società umana, dovrà necessariamente adoperarsi per ricucire il rapporto fra artificio e natura. La mela reintegrata , che ho disegnato nel 2007, rappresenta tale cucitura. Il terzo paradiso è conseguente alla mela reintegrata. Esso rappresenta la società generata da questa cucitura. Con l’espressione terzo paradiso, nominiamo un possibile percorso per l’umanità. Cogliendo la funzione simbolica dell’art, ho deciso di proporre un simbolo con il quale rappresentare questo cammino. Tale simbolo è tratto dal segno matematico dell’infinito, costituito da una linea continua che incrociandosi forma due cerchi. Nel simbolo del Terzo Paradiso, la linea s’incrocia due volte, configurando tre cerchi consecutivi. I due cerchi esterni rappresentano tutti gli opposti(o i dualismi metafisici), fra questi la natura e l’artificio entrati in conflitto. Il cerchio centrale è il luogo ove tocca a noi congiungerli, affinché fecondino il grembo della nuova società. Se il primo paradiso è il tempo dell’inconsapevolezza e il secondo paradiso è l’età della conoscenza, il terzo paradiso ci introduce alla responsabilità”. Testo tratto dal manifesto per una rigenerazione della società di Michelagelo Pisotletto edizione chiarelettere 2017. (per approfondimenti vedi sito dell’artista – www.pisotoletto.it  )

Tommaso Ceva, letterato e matematico del Ducato di Mantova, vissuto tra ‘600 e ‘700, ha dato della poesia una celebre definizione: la poesia è un sogno fatto alla presenza della ragione”. La definizione è stata spesso citata, tra gli altri da Montale.

QUALE TRANS-EDUCAZIONE APERTA, CRITICA,LAICA E  PUBBLICA POSSIAMO IMMAGINARSI OGGI, mirante allo sviluppo umano e a differenti comprensioni del nostro attivo pensare, abitare, camminare, esplorare e con-vivere attraverso spazi-ecologie (naturale,umana, mentale, culturale e sociale)

e non il passivo dimorare e riprodursi condizionato e ridotto a capitale umano o a misere ‘risorse umane’ (prigioniere di una visione unidimensionale e post-umanista)nelle diffuse, ammutolite e omologate istituzione educative europee?

GLI INCANTESIMI NEO-LIBERISTI

“L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”(Margaret Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1 maggio 1981)

Di Altre Trans-educazioni abbiamo bisogno che riaprono alla conoscenza diffusa e ad una visione multi-dimensionale trans-individuale, trans-culturale, trans-umana, trans-femminista , trans-Specista, trans -avanguardista verso un ‘transumanar –organizzar -saperi critici e problematici e prassi di cooperazione sociale.

E che sappia denunciare e invertire al tendenza  nichilista-liberista dell’Europa e delle sue istituzioni nel legiferare e sostenere questo processo di svilimento della scuola e del sapere, ridotto ad un unidimensionale saper-fare che aumenta le competenze ma svilisce ed annienta le conoscenze.

Un trans-umanar ed organizzar, avvalendomi di Dante per andare oltre e non solo-verso il divino o il sublime, ma con Pasolini oltre la dimensione letteraria per l’impegno civile, oltre il sapere frammento e competenziale (o di unidimensionale umana che Il filosofo Marcuse denunciava e prefigurava criticamente già dagli anni sessanta – ‘un uomo ad una dimensione’);                                     tran-sitare verso una visione multi-dimensionale ed un sapere orientato all’impegno civile,alla cooperazione sociale e alla comprensione della condizione umana ‘precaria’ e alla terra ‘che brucia’, terra che ci ospita e cisostiene.

IN EUROPA NEGLI ULTIMI TRENT’ANNI SI E’ DETERMINATO UNA MUTAZIONE  COMPETIZIONALE  LIBERISTA-MERCANTILE  DEL SISTEMA EDUCATIVO (CHE FRAMMENTA  LA CONOSCENZA RIDUCENDOLA A MERA COMPETENZA ED  ESASPERANDONE LA FRAMMENTAZIONE  E  ACCRESCENDONE LA COMPETIZIONE TRA ESSSERI  INTELLIGENTI E COMPLESSI  RENDENDOLI  OGGETTI COMPARABILI  AD ALTRE RISORSE ) ,CHE GENERA  PLUS-VALORE (K-MARX) E PLUS-GODIMENTO (J.LACAN) IN UN’ESIGUA MINORANZA (dell’1%) E NELLE MOLTITUDINI (DEL RESTO 99%)UNA PERMANENTE  INQUIETUDINE ESISTENZIALE  ED UNA PRECARIETA’ MATERIALE E SOCIALE  IN UN CONTESTO DI  MUTATO CAPITALISMO DIGITALE POST-UMANO, OVE GLI ALGORITMI  DELLE PIATTAFORME  DOMINATI  OPERANO ASSOGGETTANDO OGNI POSSIBILE  RELAZIONE E ED ESISTENZA(CANIBALIZZANDO IL FUTURO DELLE NUOVE GENERAZIONI).    

MATERIALI

TRANS-EDUCAZIONE PER PRENDERSI CURA DI SE’ E DEGLI ALTRI-E

Di fronte ad una visione impoverita del mestiere di educare, è tempo di meditare le parole di Platone per uscire dai limiti di una visione mercantile dell’educazione e riportare al centro del/ad educare alla ricerca del sapere umano , l’obbligo ad apprendere l’arte di coltivare la mente attraverso pratiche di spiritualità [laica].

Si finisce spesso per confinare la vita in un orizzonte

limitato, che restringe le possibilità di fare esperienza viva e differente del

tempo; aprire lo spazio della domanda libera, che sporge sull’inedito significa

slargare lo spazio dell’esperire.

Molti sono gli inganni in cui può cadere, fino ad inabissarsi, la vita della

mente; uno di questi sta nel rinunciare a porre domande; si tratta per questo

di vigilare sulla forma che prende il proprio pensare, affinché non sia solo

ricettivo ma fondamentalmente esplorativo. Tuttavia, l’obbedire alla necessità

di porre domande di senso non salva dal rischio di scivolare in una diminuzione

di essere, perché può accadere di moderare le domande di senso, di cercare

poco: accontentarsi di poco senso dell’essere. Platone parla della necessità

Saggi 57

Conosce re se stessi per ave r cura di sé

di rigirare l’anima, dal mondo del divenire alle cose che sempre sono (Platone,

La repubblica, 518c); si può ridefinire il senso di questo rigirare radicale per

intenderlo come un sottrarre la mente dalla comoda posizione di accettare il

già detto e quel poco che si rende accessibile, per arrischiare l’inedito e l’ulteriore

rispetto al disponibile. Il rigirare la mente va intesa come l’arte (Platone,

La repubblica, 518d) del tornare a stare in ascolto dei desideri di esserci e lì,

nello slargo del desiderio, andare a pescare le domande di senso che guidano

la ricerca della misura essenziale del nostro esserci.

Platone ritiene che questa forma di educazione dell’anima vada iniziata a

partire dall’infanzia, lavorando ad alleggerirla di tutti quei «pesi di piombo»

che le impediscono di volar altro, e liberandola da tutte quelle cattive abitudini

che impoveriscono al forza autentica del pensiero (Platone, La repubblica,

519a-)

Tratto da ’‘AVER CURA DI SE’’ di Luigina Mortari – edizioni Raffaello Cortina-2019

MEDITAZIONI SULL’INGNORANZA E LA CONOSCENZA

«Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova con l’ignoranza»    

Queste parole non sono state pronunciate dall’ultimo arrivato, bensì da Derek Bok, rettore dell’università di Harvard. Bok è una delle tante voci autorevoli citate nel libro “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco, uscito da poco per Guanda.

Quest’espressione amara, ironica e di protesta è ritornata urlata e variata: :‘se la conoscenza costa allora proviamo con l’ignoranzanelle piazze tematiche e nei numerosi scioperi di docenti e di studenti; e coniata dentro le massive mobilitazioni bolognesi dell’inizio del secolo XXI, espressione che esplica in modo chiaro la regressione che stavamo attraversando.

Però non per riaffermare la visione elitaria e classista della conoscenza come accadeva nelle scuole di ogni parte d’Europa prima della rivoluzione culturale del’68 del secolo scorso. Come bene chiarisce in un recente saggio la filosofa Nicla Vassallo:”Non annegare. Meditazioni sulla conoscenza e sull’ignoranza. Ed. Mimesis mi-ud”

“Si può anche fare a meno della conoscenza in alcuni casi per la filosofa Nicla Vassallo, che lei distribuisce in tre casi – la conoscenza diretta,che si dà per contatto con qualcuno o qualcosa, la conoscenza competenziale che richiede capacità e conoscenza nel fare certe cose(navigare,governare o nuotare, il sapere utile per ‘non annegare’), infine la conoscenza proposizionale, quella che maggiormente caratterizza l’essere umano, relativa al patrimonio di dati, informazione, tecniche e saperi non diretti.

Date le caratteristiche della conoscenza, come si distingue la persona conoscente dall’ignorante? Per esempio,spiega Vassallo, in base alle tipologie che rendono giustificabili o ingiustificabili le azioni degli individui. Ragioni pragmatiche o prudenziali, legate all’utile, all’opportunismo e alla convivenza basteranno all’ignorante;                                             gli esseri conoscenti avranno invece bisogno di giustificazioni epistemiche fondate sulla ragione e sui dati scientifici. La questione non concerne ovviamente le persone la cui  conoscenza sia stata per varie ragioni negata, ma quelli che dell’ignoranza godono e  alla conoscenza non non aspirano, forse perché faticosa. Faticoso è anche il dubbio scettico, il dubbio che attanaglia Descartes(e se ci fosse un genio ingannatore? E se stessi sognando?);ma è anche privilegio di chi ama e segue la conoscenza, mentre l’ignorante fiero di esserlo il dubbio nemmeno conosce. ‘Conoscere porta sì travaglio e inquietudine assevera Nicla Vassallo (filosofa teoretica, è nota per aver portato contributi innovativi alla riflessione critica riguarda a problemi di epistemologia,filosofia della conoscenza,gender studies ), ciò nonostante ‘conduce pure alla felicità, e a tratti a straordinarie felicità.’Tratto da non annegare, meditazione sulla conoscenza  e sull’ignoranza. Edizioni Mimesis, Mi-Ud

Però come intellettualità inquieta, critica e moltitudinaria non abbiamo da rimproverarci nulla:                                                

CHI HA PAURA NON PUÒ EDUCARE» TANTO MENO PRENDERSI CURA DELLA SFERA PUBBLICA.

Non abbiamo assistito passivamente a quanto stava accadendo sotto i nostri occhi sempre più increduli ma attivamente resistito, giorno dopo giorno, all’indifferenza dei governati (sia della dx (berlusconiana)che della sx liberista(terza via blairiana-renziana)a questa lenta regressione culturale di stampo neo-liberista, amplificata dall’espansione dei media commerciali e della loro immiserita neolingua (la Fininvest berlusconiana con ben 4 canali televisivi presenti in tutto il territorio nazionale ha preparato l’avvento orwelliano del Grande Papi Berlusconi), che portavano a termine quel genocidio culturale intravvisto da Pasolini una decina d’anni prima coll’affermarsi della tossicità consumistica e dell’edonismo reganiano;

queste vuote ed inondanti narrazioni televisive (da Milano da bere o da acefali paninari) trovano solo sparute acide note di contrasto di una minorità culturale in  zone temporaneamente autonome antagoniste, di punk(punk-animazione) e di cyberpunk e di ormai sfinite radio comunitarie o ‘libere’.

Ai canali mainstream della ‘buona educazione narcisista’ aggiungersi come aggravante le politiche ‘educative’ sostenute da più direttive o note della Commissione Europea a partire dagli ’90 del secolo scorso, che hanno costretto le istituzione culturali ed educative die paesi europei dentro ad un vicolo senza via d’uscita, ottuso o poco lungimiranti, con l’emergere di predefinite’ didattiche ‘delle competenze’ e  e di condizionanti‘sistemi di valutazione’ , che hanno via via marginalizzato una prassi della conoscenza aperta con didattiche interattive e trans-disciplinari, e soprattutto critiche dell’esistente(che nonostante la loro poca adesione alla realtà produttiva pre-esistente hanno determinato la nascita di nuovi sistemi produttivi post-fordisti e l’avvento del post-industriale e della new economy o economia dei servizi e della conoscenza).

 Le scuola e le università che si erano auto-riformate durante gli anni della contestazione studentesca erano da ritenere e possiamo ancora ritenere, malgrado tutte le pressioni ‘liberiste o le proposte buone scuole’ come luoghi di eccellente formazione culturale e tecnico-scientifica. Tali direttive hanno cercato e cercano d’orientar le nuove generazioni docenti e discenti ad intraprendere brevi e veloci cammini d’addestramento più che d’apprendimento uni-dimensionali; sloganisticamentepropagandate come scuole caratterizzate dalle tre i-i-i di gelminiana memoria(inglese, informatica ed impresa); scuole ed università d’orizzonti ristretti e  funzionali alla                                                                                                                                              produzione del capitale umano e alla più miserabile riproduzione delle risorse umane.

Nessun interesse o passione viene posta alla durata: ri-e-voluzioni planetarie necessarie dei neo-sapiens per uscire dalla crisi sistemica capitalista ispirata all’effimero e alla tossicità consumistica che sta divorando le risorse del pianeta sia naturali che umane;

la mancanza d’attenzione alle crisi investono le dimensioni esistenziali,umane,culturali, ecologiche e sociali; i cambiamenti climatici e le grandi migrazioni; le nuove tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale che vanno via via sussumendo il lavoro vivo e creando una fascia limitata di garantiti nell’occupazione come nel benessere(1%) con un’immensa miserabile moltitudine disperata, gettati nella precarietà esistenziale e sociale(99%), paralizzati dalla paura dell’Altro, e per questo malessere e mediatico isolamento (social) incapaci di cooperare affermativamente ed in comune nei differenti territori ed in questo unico pianeta A e non in uno B, e con questa unica A seppur variegata umanità.

Chi ha paura non può educare», affermava nel secolo scorso lo psicoanalista Erik Erickson. In questo senso, una «buona scuola» (il riferimento è alla successiva  riforma del governo Renzi, ndr.) che viene sottomessa al paradigma neo-liberista del capitale umano, segna il momento preciso in cui la paura è innalzata a cifra portante della prassi educativa. Lo sviluppo umano smette così di essere considerato il fine del principio educativo perché l’uomo stesso è concepito come un mezzo al servizio della produttività economica.

neoliberismo Indirizzo di pensiero economico che, in nome delle riconfermate premesse dell’economia classica, denuncia le sostanziali violazioni della concorrenza perpetrate da concentrazioni monopolistiche all’ombra del laissez faire e chiede pertanto misure atte a ripristinare la effettiva libertà di mercato e a garantire con ciò il rispetto anche delle libertà politiche. Gli economisti neoliberisti, come gli austriaci F.A. von Hayek e L. von Mises e il francese J.-L. Rueff, non insistono tuttavia più sugli ipotetici vantaggi della libera concorrenza, ma sugli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato, ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in costrizione.

Dizionario – Trecani

capitale umano Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente, le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e a qualificarla, influenzandone i risultati.

Capitale umano come patrimonio dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione) degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà, di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece oggetto di scambio sul mercato.

Evoluzione del concetto di capitale umano. Sebbene indicato con termini diversi, il concetto di c. u. è stato a lungo familiare agli economisti, ma è solo a partire dagli anni 1960 che è stato sviluppato e ha ricevuto notevole attenzione. Contributi di particolare rilievo si debbono a T.W. Schultz, G. Becker e J. Mincer. Il concetto è stato inserito in un’analisi generale del comportamento umano basata sui principi di fondo della razionalità economica. Negli anni 1980 e 1990, questo tema è oggetto di rinnovato interesse da parte dei teorici della crescita endogena che considerano il c. u. uno degli argomenti della funzione di produzione e sottolineano l’interdipendenza fra crescita economica e sviluppo del c. umano. In tal senso programmi di addestramento e riqualificazione contribuiscono all’aumento del c. u., favorendo così l’evoluzione del sistema nel suo complesso e le condizioni di reddito dei lavoratori. L’attuale dibattito nella letteratura economica individua soprattutto nella conoscenza e nelle competenze individuali gli elementi principali di cui si servono le imprese per mobilitare in maniera integrata risorse interne ed esterne, impegnando forza lavoro più qualificata e adeguata alle esigenze di un Paese a economia avanzata.

TRANS-LOCALE-PENSARE-EUROPA

Pensare ed abitare –l’Europa partendo dal proprio Sé( e dalla propria terra-matria) – per costruire pacificamente quel complesso costrutto geo-storico-culturale-politico di molteplici luoghi e pensieri.

 “Ci si è domandati spesso, fin da quando il modello-europa unita ha iniziato a vacillare per gli assalti dello scetticismo e della disaffezione, a quali valori far risalire un’idea di cultura europea comune. La via dei valori, si sa, non ha prodotto grandi risultati e anzi la strada che ha portato all’attuale congiuntura caratterizzata dalla riaffermazione nazionalista è stata lastricata appunto di “buoni valori”. Forse quell’idea di cultura comune può sorgere davvero da persone e luoghi invece che da valori astratti, perlomeno quanto viene a da credere leggendo Paolo Pagani- i luoghi del pensiero- dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo- ed. Neri Pozza. Giornalista con alle spalle studi di filosofia. P.Pagani fissa in questa collana – piccola biblioteca – un percorso in sette tappe attraverso il vecchio continente (con un – dirottamento oltreoceano)sulle orme degli uomini e delle donne rappresentativi che hanno plasmato la storia culturale. Si tratta soprattutto di filosofi, ma anche di economisti,naturalisti e scrittori. Siano essi atei razionalisti (Marx,Darwin)o i logici dell’anima mistica(Wittgstein), d’indole provinciale (Heidegger)o cosmopolita(Keynes,Arendt)… accomunati da ciò che l’autore chiam a -l’eresia intellettuale, la rottura con il passato, la discontinuità con la tradizione-. E tutti insegnano come il pensiero sia davvero fecondo solo quando è critico, quando fa crescere la salvezza là dove c’è il pericolo – per parafrasare le parole di Hoelderlin. Pagani tiene a sottolineare che il suo non è un libro di filosofia, anche se parla di filosofi: …. sono reportage letterari di viaggi al quale apaprtengono opere come le ‘anime baltiche’ di Jan Brokken. Libri che esplorano il groviglio inestricabile di geografia, storia e produzione intellettuale, ricordando come quest’ultima non sia mai sradicata ma si nutra sempre di una terra, in un circolo virtuoso in cui ‘pensare e abitare coincidano’.

……

Altrettanto abbagliante, e persino più esemplare ed emozionante, è riconoscere -l’intima inerenza- di ambiente e filosofia(e politica) nella teoria di umili stanze in cui visse e lavorò Spinoza tra Amsterdam, Leida e l’Aja….

…..

O ancora nel misero bilocale di Soho dove Marx lavorò al Capitale, in una Londra che era ‘un paesaggio piransiano di ciminiere, fabbriche sferraglianti, opifici malsani, vapori neri e mefitici.

….

E ciò che traspare qui è qualcosa di ancora più essenziale: il fatto che la vera filosofia è sempre un modo di stare al mondo, una maniera di vivere (e per far vivere cultura e politica). Se come ci ricorda Pagani ‘la casa è autobiografia’, il pensiero non può essere coerentemente allacciato con la vita che lo incarna. Ed è proprio agli individui (trans-comunanza di pensiero-luogo) capaci di  questa comunanza di vita ed ideale, oltre che alla facoltà laica dei grandi pensieri d tornare criticamente suoi – propri – luoghi, che bisognerebbe guardare quando si cercano le radici (meglio i rizomi deleuziani) della comune cultura europea.” Testo di F. Boccia – Quelle umili stanze ove visse Spinoza-tratto da Alias-il manifesto – 21.4-19.

Trans-educazione bio-politica

‘La conoscenza è un po’ come la libertà, un valore positivo per eccellenza.

L’abbiamo sentito evocare nel senso d’istruzione, nelle parole da brivido di MALALA YUSAFZAI, attivista pakistana nota per l’affermazione dei diritti civili e per il diritto all’istruzione, bandito da un editto dei talebani, delle donne della città di Mingora, nella valle dello Swat. Lei è la persona più giovane di sempre a ricevere il premio Nobel, quando avvolta nel suo sari rosa confetto e puntando il dito diceva davanti all’Onu:un bambino,un docente, un libro, una penna possono cambiare il mondo.’Francesca Rigotti

Il trans-individuale in Simondon

G. Simondon è stato un filosofo francese. La sua attività filosofica si svolge tra gli anni ‘50 e gli anni ’70 del XX sec., partendo dal problema dell’individuazione, tratta principalmente dell’essere umano come vivente e della centralità filosofica e politica del problema della tecnica. La sua ricerca filosofica è un originario intreccio tra la scuola fenomenologica, la tradizione epistemologica di G.Canguilhem, suo ‘directuer de thèse’, e la nascente cibernetica di Nobert Wiener. Sullo sfondo di una imponente cultura classica e scientifica di matrice bergsoniana e bachelardiana. G.Deleuze recensì le sue prime opere fin dagli anni ’60 (l’individuo e la genesi fisica e biologica- cfr. nell’isola deserta e altri scritti, in particolare nella ‘Logica del senso’ vi si riferisce ampiamente dimostrando quanto abbia influenzato il suo pensiero. ) Con la sua tesi di dottorato ‘del modo d’esistere degli oggetti tecnici -1958, riscoperta a partire dal 2000 da Stiegler in Francia e Paolo Virno in Italia, Simondon divenne noto al grande pubblico. La sua tesi di dottorato ‘l’individuazione alla luce della nozione di forma ed informazione è oggetto di grande interesse soprattutto per i concetti di :individuazione, metastabilità, trasduzionee transindividualel

Il trans-individuale è dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo l’individuazione psichica che quella collettiva.

E qui emerge il primato della relazione sugli elementi   o della costituitività o ciò che lo compone.

TRANS-INIVIDUALE PER ANDARE OLTRE IL DUALISMO

Le teorie tradizionali o metafisiche pongono l’accento sulla dualità della forma o della materia, ma Simondon un filosofo della scienza, ispirandosi alle scienze naturali bio-fisiche focalizza il limite di una tale visione, ma anche intravvede la soglia( di relazione).

.Non si tratta più di cercare di individuare una modelizzazione, cioè di plasmare l’ente (o quello che è) secondo un modello trascendente o ricercare una particolare identità pre-esistente (o ripetizione dell’identico o presunto tale), piuttosto di individuare una moduazione che non imprime ma cerca di variare o di attualizzare una differenza immanente.Il filosofo Deleuze parlerebbe di ripetizione e differenza. Ed inolte Simondon ci introduce alla individuazione attraverso la trasduzione ovvero alla tras-formazione di qualcosa da una forma, luogo o concetto ad un altro, in ambiente che non è nè stabile nè instabile ma meta-stabile. La metastabilità è la caratteristic propria di un sistema caotico o infinitamente complesso e diverso.

Trans-individuale

Per il filosofo Simondon che l’ha concepito, il transindividuale ci può aiutare ad attraversare criticamente il classico dualismo delle dottrine metafisiche dell’individualità d’interno ed esterno, di conoscenze a priori o a posteriori, di psciologismo o sociologismo (platonismi) o altre separazioni di tipo cartesiano. Il neuroscienziato Damasio con simpatie spinoziane, nel corso delle sue ricerche sul campo neuro-chirurgiche scopre che la classica separazione cartesiana tra res cogitans (la mente cosa che pensa) e res extensa (il corpo o quella cosa estesa che subisce) risulta essere priva di valore scientifico. Infatti un suo paziente che aveva subito in seguito ad un grave incidente sul lavoro con una netta recisione delle connenssioni tra la corteccia cerebrale (ritenuta ciò che pensa) e la sottocorteccia (che è ritenuta sfera emozionale), era in grado di fare buoni ragionamenti razionali ma poi quando doveva passare alla decisione non è in grado di portarla a termine. Quindi la parte emozionale o estesa ritenuta non necessaria per Cartesio,viene scoperta da Damasio essere parte del complesso fenomeno del ragionare-deecidere, per non rimanere  in quello stallo di paralisi  d’indecisione narrato in un racconto zen, di un millepiedi  che non sapendosi  decidersi con quale dei suoi mille doveva incominciare la giornata.

Le metafisiche classiche hanno sempre subordinato la comprensione dell’individuazione(ontogenesi) alla definizione dell’individuo come forma (idealmente) misurabile, mentre la fisica e la biologia (compreso alcune discipline come lo studio dei processi cognitivi,nei quali l’adattamento al cambiamento ambientale richiede l’emergere di nuove strutture)forniscono strumenti decisivi perprogettare un nuovo concetto generale di ontogensi…

Trans-individuale in Simondon è precisamente il nome del darsi ad un tempo dell’individuazione psichica e di quella collettiva.

Nè presistenza dell’individuo rispetto alla società nè presistenza della società rispetto all’individuo.

E’ da questa analisi complessa simondoniana che intendiamo partire per comprendere tutte le altre compesse combinazioni quali trans-femminismo, trans-.culture, trans-umano ecc

Per riassumere in estrema sintesi il percorso teorico attraverso cui Simondon giunge a definire la specificità, lo si può ridurre all’enunciazione di due tesi filosofiche di estrema importanza attraverso cui si porpone di tracciare una netta linea di demarcazione rispetto alla tradizione metafisica occidentale:

la tesi del processo d’individuazione sull’individuo è quello del primato delle relazioni sui termini della relazione.

Nell’individuazione psichica e collettiva Simondon si propone di fissare l’attenzione sui processi d’individuazione contro una tradizione che ha concesso un privilegio ontologico all’individuo già costituito.

  • Sia la tradizione sostanzialista

(sostanzialista agg. e s. m. e f.

[der. di sostanziale]

(pl. m. -i). – Relativo al sostanzialismo; come sost., seguace o sostenitore di una dottrina, o anche di un atteggiamento, che riconosca valido soltanto ciò che è veramente sostanziale, oltre ogni apparenza).

 ()che quella ile-morfica o ilo-morfica (ilemorfismo (o ilomorfismo) s. m. [comp. del gr. ὕλη «materia» e μορϕή «forma»]. – Nel linguaggio filos., la dottrina scolastica secondo la quale negli esseri contingenti vi è una composizione ontologica di materia e forma).

Sia la dottrina sostanzialista che quella ilo-morifica (sia pure in contrapposizione tra loro)infatti ipotizzano, secondo Simondon, l’esistenza di un principio d’individuazione anteriore alla individuazione stessa, in grado di spiegarla,provocarla e dirigerla.            

principio d’ individuazione,                           criterio o elemento della determinazione ontologica dell’ente singolo che rende ragione della sua unità e indivisibilità e quindi della differenziazione di due cose l’una eguale all’altra o – laddove la sostanza comune o universale sia intesa come ontologicamente prioritaria – di più individui esistenti in una stessa specie. È il principio della conoscibilità dell’ente singolo e richiama il grande problema logico e metafisico dell’identità e della differenza. Tale principio ha avuto diverse applicazioni a seconda delle epoche e dei contesti di volta in volta interessati.

L’individuo vivente per Simondon è un sistema d’individuazione:un sistema che individua ed un  sistema che si individua.

Il trans-individuale è dunque il nome della trama complessa di relazioni che costituisce ad un tempo l’individuazione psichica che quella collettiva.

E qui emerge il primato della relazione sugli elementi   o della costituitività o ciò che lo compone.

Tesi sostenute da Whitehead e Paci, in opere come tempo e relazione e esitenzialismo e relazionismo.                   

Il problema consiste in definitiva nell’abbandonare l’opposizione

tra materia e spirito presupposta dall’elaborazione brentaniana dell’intenzionalità,

e tale operazione può essere condotta se si approfondisce

lo spunto costituito dalla relazionalità come caratteristica

definitoria dei fenomeni intenzionali. In ambito più strettamente fenomenologico

questo programma è stato delineato da Francisco

Varela sulla scorta delle suggestioni provenienti dalla filosofia di

Maurice Merleau-Ponty. nella prospettiva di Varela, la natura è intesa

in modo molto differente rispetto alla descrizione cartesiana in

termini di materia inerte soggetta a rapporti meccanici. Insieme a

Humberto Maturana, Varela

ha proposto una concezione della natura

in termini di sistemi auto-poietici, ossia essenzialmente sistemi

biologici capaci di comportamenti cognitivi in quanto capaci di auto-

riprodursi. È a partire da tale spunto che la concezione dell’esperienza

propria della metafisica di Whitehead può essere più proficuamente

esaminata. La questione della natura dell’intenzionalità

può cioè essere affrontata a partire da una revisione della nozione di

natura che consenta di superare il dualismo cartesiano di brentano

senza tornare a una prospettiva spiritualistica relativamente alla

mente. Pertanto il passo preliminare da compiere è quello di indagare

la concezione della natura elaborata da Whitehead. Il che significa

che la discussione sulla natura dell’intenzionalità è un problema

squisitamente ontologico.

La relazione non è mai tra due termini presistenti, ma costituzione di termini messi in gioco dalla relazione.

Una relazione va  intesa come relazione nell’essere, relazione dell’essere e relazione del modo di essere.

Non già mero rapporto tra due termini che, disponendo di una preliminare esistenza separata, sono conoscibili adeguatamente per mezzo dei concetti.

Questa nuova logica non è più fondata sulla sostanza, ma sulla relazione, permette di pensare il rapporto individuo-società non in termini di primato di un elemento o dell’altro.

Il trans-individuale non è altro che la categoria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del sistema meta-stabile che dà luogo all’individuazione psichica e collettiva, tra di relazioni che attraversa e costituisce gli individui,e le società, interdicendo metodologicamente la sostanzializzazione degli uni e degli altra.

La società –scrive Simondon non è il prodotto della reciproca presenza di molti individui, ma non è neppure una realtà sostanziale da sovrapporre agli esseri individuali, quasi fosse indipendente da essi.

La società è l’operazione, è condizione operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso di quanto sia la presenza dell’essere individuale isolato.

Un modello di relazione esso stesso senza centro (complesso e stratificato).

Simondon conclude che non vi è qualcosa di psicologico o qualcosa di sociologico, ma solo l’umano che in rare situazioni limite, può sdoppiarsi in psicologico e sociologico.

Idividuazione attraverso la trasduzione,trasporto o trasformazione di qualcosa, da una forma, un luogo o concetto ad un altro.

La metastabilità

Simondon ricorre alla fisica  per comprendere quella situazione che non possono essere definite dall’alternativa: ‘o stabile o instabile’, cioè metastabile.

La metastabilità è la caratteristica propria di un sistema caotico, o infinitamente complesso, diverso

Manifesto dell’educazione diffusa                                                                “Mai più aule tra i muri e studenti che volgono lo sguardo teso alla fuga al di là dei vetri chiusi”

    (La Città educante. Manifesto della educazione diffusa, Asterios)

L’educazione diffusa è un’alternativa radicale all’istituzione scolastica attuale. È tempo di rimettere bambini e bambine, ragazzi e ragazze in circolazione nella società che, a sua volta, deve assumere in maniera diffusa il suo ruolo educativo e formativo.

La scuola dove ridursi a una base, un portale ove organizzare attività che devono poi realizzarsi nei mondi aperti del reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi e bambini stessi.

All’apprendimento chiuso e iperprotettivo della scuola, privo di motivazione e connessione con le realtà si sostituisce progressivamente un apprendimento realizzato con esperienze concrete da rielaborare e condividere. Non più insegnanti di discipline ma educatori, méntori, guide, conduttori capaci di agevolare i percorsi di interconnessione e indurre sempre maggior autonomia e autorganizzazione. I ragazzi e i bambini nel mondo costituiranno una nuova linfa da troppo tempo emarginata e costringeranno la società e il lavoro a ripensarsi, a rallentare e a interrogarsi.

È un atto politico portare questo modello nella società. È un impegno, una scommessa e una prospettiva di vita sensata che chiediamo di sottoscrivere impegnandosi a divulgare l’idea e il progetto per trasformarlo in esperienze diffuse nel territorio.

L’educazione diffusa pone al centro della vita educativa l’esperienza autentica, quella che mobilita tutti i sensi ma soprattutto la forza che li accende, la passione.

L’educazione diffusa ribalta l’idea che la mente possa imparare separatamente dal corpo, è attraverso il corpo, i suoi sensi, il suo impegno, che si verifica un vero apprendimento duraturo.

L’educazione diffusa libera i bambini e i ragazzi, le bambine e le ragazze, dal giogo della prigionia scolastica: li aiuta a trovare nel quartiere, nel territorio e nella città i luoghi, le opportunità, le attività nelle quali partecipare attivamente per offrire il proprio contributo alla società.

L’educazione diffusa è un reticolo in continua espansione di focolai di attività reali nelle quali i più giovani, al di fuori della scuola, esplorano, osservano, contribuiscono, si cimentano, danno vita a situazioni inedite, aiutano, si esprimono e imparano da tutti e da tutte, così come insegnano a tutti e a tutte.

L’educazione diffusa sradica la malapianta delle valutazioni insensate per mezzo di attività reali delle quali correggere sul campo eventuali cadute, imperfezioni, fallimenti e delle quali solo il raggiungimento e il processo valgono come documenti vivi per poter stabilire se ciò che si è fatto è valido e ripetibile o da rivedere e correggibile

L’educazione diffusa vede gli insegnanti mutare in mèntori, educatori, accompagnatori, guide indiane, sostenitori, trainer, organizzatori di campi d’esperienza nel mondo reale e non nel chiuso di aule panottiche dove l’apprendimento marcisce e i corpi avvizziscono.

L’educazione diffusa chiama tutto il corpo sociale a rendersi disponibile per insegnare qualcosa ai suoi più piccoli e giovani: ognuno dovrebbe poter regalare con piacere un poco della sua esperienza, condividendo finalmente la vita con chi sta crescendo e imparando da loro a riguardare il mondo come non è più capace di fare.

L’educazione diffusa trasforma il territorio in una grande risorsa di apprendimento, di scambio, di legame, di cimento, di invenzione societaria, di sperimentazione, al di fuori di ogni logica di mercato, di adattamento passivo, di competizione o di guadagno monetario.

Nell’educazione diffusa si assiste alla costruzione di un tessuto sociale solidale, responsabile, finalmente attento a ciò che vi accade a partire dal ruolo inedito che bambini e adolescenti tornano a svolgervi come attori a pieno titolo, come soggetti portatori di un’inconfondibile identità planetaria.

Per iniziare a sperimentare l’educazione diffusa occorrono un gruppo di genitori motivati, di insegnanti appassionati e possibilmente un dirigente didattico coraggioso che abbiano voglia di vedere di nuovo allievi vivi che gioiscono dell’imparare e di essere riconosciuti come soggetti a pieno titolo nel mondo.

Con l’educazione diffusa ognuno viene riconosciuto come persona umana nelle sue caratteristiche costitutive di unicità, irripetibilità, inesauribilità e reciprocità. L’educazione non deve fabbricare individui conformisti, ma risvegliare persone capaci di vivere ed impegnarsi: deve essere totale non totalitaria, vincendo una falsa idea di neutralità scolastica, indifferenza educativa, e disimpegno. L’educazione diffusa promuove l’apprendistato della libertà contro ogni monopolio (statale, scolastico, familiare, religioso, aziendale).

Il Manifesto tradotto in ucraino (presto la versione in altre lingue)

Azioni di educazione diffusa

 Costruire la rete di Educazione Diffusa e Comunità Educante che sottoscrive il Manifesto dell’educazione diffusa. La rete può essere costituita da almeno un istituto scolastico (“campo base”), comitato di genitori, enti locali ed enti pubblici, parchi e aree protette, botteghe, mercati comunali, teatri, biblioteche, librerie, musei, sedi di associazioni e cooperative, centri sociali, centri sportivi, università e altri spazi sociali  e culturali, professionisti, singoli cittadini, etc. etc. (consapevoli che dal punto di vista normativo si tratta di attività realizzabili nell’ambito dell’autonomia scolastica, coerenti con le Indicazioni nazionali – Linee guida per tutti gli ordini e gradi di istruzione).

    Avviare incontri di auto-formazione tra scuola, realtà sociali e culturali, fautori di buone pratiche nel territorio circostante – anche con il supporto dei primi firmatari del Manifesto della educazione diffusa – per definire nel dettaglio il percorso di sperimentazione che lavori agli obiettivi, i tempi, le modalità e i parametri da misurare.

    Elaborare, come gruppo di supporto della sperimentazione, progetti volontari di architettura per trasformare gli spazi individuati della città educante (edifici storici, botteghe, teatri, biblioteche, musei, piazze, parchi…) in luoghi di apprendimento (privilegiando l’autocostruzione e il coinvolgimento dei territori), sia in relazione con gli enti locali che in quanto cittadini autorganizzati. Dirottare le risorse dedicate alla obsoleta edilizia scolastica verso esperimenti di progettazione e costruzione di “portali” e di recupero e trasformazione di spazi e luoghi della città in educanti.

    Avviare la sperimentazione includendo anche una parte sempre crescente di attività come “scuola aperta”, per cominciare ad abitare in modo diverso gli edifici scolastici sia durante il tradizionale orario scolastico che oltre, quando sia possibile cogestire gli spazi con associazioni di genitori e realtà sociali locali.

    Monitorare il percorso sperimentale attraverso incontri e ricercare e partecipare a bandi pubblici locali, regionali, nazionali ed europei e di fondazioni private per rafforzare le azioni di educazione diffusa.

    Stimolare e promuovere politiche dettagliate di cittadinanza dei bambini e bambine, ragazzi e ragazze in ogni settore politico: trasporti, urbanistica, cultura, ambiente, servizi sociali, sport, sviluppo economico, pubblica amministrazione, sanità, sicurezza fino a definire nei bilanci degli enti la quota dedicata a tali obiettivi.

    Dedicare parte dei percorsi di educazione diffusa alle emozioni, alle relazioni, all’introspezione e ad esercizi di dialogo interno attraverso elaborazioni teatrali, festival delle emozioni ed ogni altra iniziativa che promuova l’emersione dei sentimenti profondi degli individui, solitamente rimossi dalla vita scolastica, per un confronto vivo all’interno della comunità educante.

    Realizzare passeggiate cognitive alla scoperta di quartieri, strade, luoghi naturali, luoghi abbandonati, luoghi dimenticati per ripensare e riprogettare il territorio e per tornare a prendersene cura a partire dalle osservazioni e le analisi di bambini e bambine, ragazzi e ragazze.

    Strutturare in dettaglio i processi di partecipazione e decisione dei bambini e ragazzi nella definizione dei percorsi di educazione diffusa in modo da rispondere ad una parte dei loro bisogni e dei loro quesiti desiderosi di risposte.

    Documentare il percorso con tutti gli strumenti possibili: studi scientifici, comunità virtuali, prodotti audiovisivi in modo che siano consultabili da altre scuole e città.

Appunti per un Progetto di educazione diffusa

Primi firmatari:

Paolo Mottana, Giuseppe Campagnoli, Francesca Martino, Dimitris Argiropoulos, Anna Sicilia, Luigi Gallo, Ester Manitto, Mariagrazia Marcarini, Alice Massano, Francesca Pennati, redazione di Comune

MANIFESTO E PROPOSTA TRATTO da comune-info

Per aderire al Manifesto scrivete nome, cognome, città di residenza inviando via email: info@comune-info.net

Condividendone sperimentazione desidero portare a conosocenza i frequentatori del blog e delle nostre attività tale matifesto e proposta

Pino de March x comunimappe    

trans-umanesimo

Il significato del termine “transumanesimo” fu delineato in modo sistematico da Julian Huxley nel 1957, nel testo “In New Bottles for New Wine”, dopo averlo a sua volta mutuato dall’amico Pierre Teilhard de Chardin che aveva coniato il termine già nel 1949[1]. Nell’originaria accezione di Huxley, transumanesimo indica «l’uomo che rimane umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana», collocandolo in uno scenario di emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima assume consapevolmente il compito di guidare il generale processo evolutivo.[2]

Il filosofo ebreo-tedesco Walter Benjamin nella città della tecnica cioè Parigi capitale del XIX sec., sostiene che ‘la macchine da presa riesce ad adattarsi meglio alle nuove condizione della visione meglio di quanto non riesca a fare l’occhio umano’.

Tecnica che accompagna il sapiens nel corso della sua stessa evoluzione, dall’uso di quella prima scheggia-utensile, che lo ha reso umano, in quanto costrutto stesso della sua stessa mani-polazione, che  da un lato lo trascende dalla natura ma dall’altro rende possibile l’altro potenziale, che emana o emerge da essa (o ciò che immanente al vivente).

Queste considerazioni sulle relazioni sempre più implicanti tra macchina ed umano non vanno intese in senso perturbante pessimistico-alienato(o post-umanista),cioè di delega della visione o del senso dell’occhio alle macchine ma piuttosto di quella nuova articolazione-protesi che dilata la nostra visione e la ricombina tecno-umanamente in modo da ridarci un altro sguardo aumentato però non meno umano dell’altro che ne è privo. E la fotografia come la pellicola cinematografica che l’equivale in quanto scandisce l’immagine seppur in movimento-in fotogrammi distinti-  a detta di un altro critico e visionario della comunicazione-tecnica Mc Luhan, che riflette l’emergenza-media e spettatore e ne misura la temperatura, cioè la nostra partecipazione ad essi; i fotogrammi sono da considerarsi un media caldo in quanto mono-sensoriale, in quanto ci restituiscono una realtà nuova e più dettagliata, e che ci restituisce una condizione di percezione  che ci richiede meno partecipazione-elaborazione -di dati -integrazione sensoriale; i media freddi invece sono quelli che operano integrando più funzioni sensoriali come per esempio la televisione che cattura anzi con-gela la nostra attenzione-emozione-percezione e per questo ci richiede più partecipazione nell’elaborazione di lontano-vedere-ascoltare.

Media caldi e media freddi


Una ulteriore tessera del mosaico intellettuale di McLuhan è rappresentata dal concetto di “temperatura dei media”. Sulla base di questa nozione lo studioso canadese divideva i media in due categorie: media caldi e media freddi.

Come molte altre nozioni del pensiero mcluhaniano, anche questa è stata al centro di polemiche e di interpretazioni contrastanti. In generale possiamo dire che il concetto di “temperatura” è legato al grado di partecipazione che un media richiede in chi lo utilizza o ne fruisce. In questo senso i media “caldi” sono quelli che non esigono da parte di chi li utilizza una grande partecipazione, e media “freddi” sono invece quelli che richiedono al fruitore maggiore partecipazione e coinvolgimento.

Ma da cosa viene determinato questo livello di partecipazione? Analizzando i vari passi in cui lo studioso canadese si occupa di questo tema, emergono due elementi fondamentali che caratterizzano la temperatura di un medium: il numero di canali sensoriali che sono impegnati durante il suo uso e il livello di definizione o di “intensità” con cui sono costruiti i messaggi.

Un medium è caldo, e dunque meno partecipativo, se impegna un solo senso con messaggi ad alta definizione. In questo caso, infatti, la comunicazione fornisce una grande quantità di dati estremamente dettagliati, che non richiedono al fruitore nessuna operazione di integrazione del messaggio durante la percezione. Un esempio di medium caldo è la fotografia: su tratta infatti di un medium esclusivamente visivo le cui immagini sono dotate di un elevato grado di dettaglio. Ma anche la radio e la scrittura sono considerati da McLuhan media caldi.

Al contrario, i media freddi coinvolgono molteplici canali sensoriali, inviando però un messaggio a “bassa definizione”. Essi di conseguenza lasciano spazio al fruitore, gli chiedono anzi di completare la loro portata informativa con una partecipazione attiva. I media freddi, insomma, coinvolgono il fruitore proprio perché lo stimolano con maggiore efficienza sia dal punto di vista sensoriale che da quello percettivo. Non stupisce dunque che McLuhan, oltre al telefono, indicava come esempio massimo di media freddo la televisione: «La TV è un medium freddo, partecipazionale … La radio, invece, è un medium caldo e funziona meglio se se ne accentua l’intensità. Non richiede a chi ne fa uso lo stesso livello di partecipazione. Può servire come rumore di fondo… La TV non può essere uno sfondo, ci impegna, ci assorbe».

Insomma, anche nel caso della distinzione tra caldo e freddo, McLuhan mette in evidenza come l’effetto dei media non dipenda solo dal contenuto, ma soprattutto dal tipo di relazione percettiva che uno strumento instaura con i processi percettivi e cognitivi del fruitore. Da questo punto di vista ci sembra esemplare il modo in cui un importante studioso italiano del pensiero di McLuhan, nonché insigne studioso di arte e letteratura, Renato Barilli, ha riassunto la distinzione tra media caldi e freddi:

«Sono “freddi” i media che procurano uno sviluppo armonico e globale della superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia consentito un esercizio fondamentalmente sinestetico. Sviluppo, quindi, ben proporzionato dei vari canali percettivi; partita aperta tra il dare e l’avere, tra il dentro e il fuori, tra attività e recettività. Sono “caldi” invece i media che portano all’ipertrofia di qualche canale percettivo a spese di altri, interrompendo la continuità sinestetica, portando a un eccesso di sviluppo e di specializzazione qualche area della superficie di contatto a scapito di altre».

Da mediamente.rai.it

postumano (post-umano), s. m. e agg. Progressiva alterazione delle caratteristiche dell’essere umano; che tende a modificare o a perdere le caratteristiche umane. ◆ Se – scrive [George] Steiner – siamo alla fine e stanno già sparecchiando, non credo che ciò avvenga, come egli dice a causa della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, del computer capace di creare il Museo di Bilbao di una bellezza estetica degna del Partenone. È piuttosto con la manipolazione genetica che sta avvenendo una vera mutazione antropologica, prevista da Nietzsche, forse preludio all’avvento di una nuova specie, post-umana. (Claudio Magris, Corriere della sera, 6 aprile 2003, p. 33, Terza pagina) • [tit.] Tra chip e sensori arriva il post-umano [testo] Dobbiamo cominciare ad abituarci ad una parola nuova, e inquietante – post-umano –. […] Siamo alla vigilia di un cambiamento della natura stessa del corpo che, modificato tecnologicamente, diverrebbe per ciò post-umano? (Stefano Rodotà, Repubblica, 6 dicembre 2004, p. 1, Prima pagina) • L’Uomo, inteso tanto come singolo quanto come genere umano, ha imparato a guardare a se stesso non più come un fatto, ma come un da fare. La consapevolezza di questo cambiamento in atto, ha indotto un numero sempre maggiore di filosofi ad introdurre nel dibattito contemporaneo un nuovo ambito di riflessione ed a coniare un nuovo termine, un neologismo, per definirlo. Tale termine è: postumano. Ma cos’è il postumano? Sulla base delle posizioni più comuni, una prima risposta approssimativa potrebbe essere la seguente: «Il postumano è il nome col quale si è divenuti soliti definire gli estremi di una nuova filosofia per la quale la natura biologica del corpo dell’uomo, ivi compreso il cervello, non costituisce il limite delle possibilità dell’essere umano. Anzi, per questa filosofia, tale natura può e dev’essere superata attraverso l’implementazione sul “corpo biologico” di protesi tecnologiche». (Cosimo Pacciolla, Gazzetta del Mezzogiorno, 10 gennaio 2006, La Gazzetta di Lecce, p. 7).
Derivato dall’agg. umano con l’aggiunta del prefisso post-.
Già attestato nel Corriere della sera del 19 giugno 1994, p. 15 (Carlo Formenti).

TRANS-EDUCARE RELAZIONALE E CIRCOLARE CONTRO LA FREDDA TIRANNIA DELLE

VALUTAZIONI E DELLECOMPETENZE

L’avvento della meritocrazia

“Nel 1958 Michael Young pubblicava a Londra il profetico libro – The Rise of Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962), una distopia in cui si delinea l’avvento al potere su scala mondiale di una Meritocrazia. I nuovi padroni governeranno in base ad una selezione fondata non sulla nascita, né sulla ricchezza, ma sull’intelligenza misurata scientificamente. La nuova classe dirigente arriverà al potere grazie ad una serie di riforme scolastiche e socio-economiche ispirate al principio d’eguaglianza delle opportunità. Le classi inferiori, lavoratori e lavoratrici hanno finora perso tutti i loro saperi e il loro ingegno, con il loro consenso – democraticamente –  ottenuto, autodichiarandosi e riconoscendosi come esseri inferiori. Nell’anno 2034, però, le masse di esseri sottoposti si rivolteranno mettendo in discussione l’intero sistema ‘non meritocratico’. Nel manifesto che descrive l’intenzione dei rivoltosi si può leggere:’la società senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo una pluralità di valori. Giacché se noi valutassimo le persone non solo per la loro intelligenza e cultura, la loro occupazione o attività svolte e il loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per la loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità, le classi non potrebbero più esistere […]. Ogni essere umano avrà quindi uguali opportunità non di salire nel mondo non alla luce di una qualche misura matematica, ma di sviluppare le sue particolari capacità per vivere una vita più ricca.’ Tratto da Michael Young – The Rise of Meritocracy’ (ed. comunità, Milano 1962)

‘ Non esiste oggi esponente politico di dx o di sx, manager di aziende pubbliche o private, economista o opinionista televisivo e della carta stampata (tranne poche eccezioni) che non metta al primo posto dei suoi obiettivi , nell’indicare la soluzioni ai guasti di queste nostre società, proprio la mancanza della selezione sociale fondata sul merito ’. Roger Abravanel , Meritocrazia, Garzanti, Milano 2008.

Certamente in una società che premia il demerito appare del tutto evidente che invocare e aspirare ad una società meritocratica non può non essere un obiettivo facilmente condivisibile. Il problema come già M.Young aveva intuito, è che valorizzare le attitudini personali, i singoli talenti e la specifica sensibilità è una cosa, il merito è un altro, la meritocrazia un’altra cosa ancora. Innanzitutto è palese la difficoltà(l’impossibilità ) di definire in modo assoluto il merito, poi è evidente quanto arbitrario, possa essere organizzare una comunità secondo la regola del premio all’individuo meritevole,infine sono facilmente intuibili i danni irreparabili che ne deriverebbero. Il merito è una variabile che dipende da numerosi fattori e da diversi parametri:                                       tempi in cui si verifica                                                           spazio in cui avviene                                                                  contesto che permette all’individuo di dimostrarsi meritevole.                          Il merito è una variante altamente aleatoria, mai una costante, pertanto premiare il merito (in senso assoluto) è impossibile.

La meritocrazia è di conseguenza impraticabile perché considera il merito un valore assoluto(e non relativo)e costante (anziché variabile). Possiamo dunque dire che la meritocrazia è la negazione del merito stesso.                          Tratto da – il feticcio della Meritocrazia, Manifesto libri, Roma 2013.

Eppure la Meritocrazia è la parola chiave, il concetto per eccellenza, che ispira tutti coloro che si propongono come i veri riformatori di questa nostra società.

Un altro mantra è la valutazione.                               Valutare vuole dire dare valore quindi pesare, quantificare, attribuire un peso spendibile nel mercato a qualcosa.                                                      Valutare contiene il verbo valere, avere forza, potenza, autorità,comprende valenza, valevole(utile, valido, efficace), ma soprattutto richiama il sostantivo valore (avere valore di, con valore di, valore di scambio, valore d’uso, valore nominale, valorizzare, valoroso, valuta nel senso di moneta). La valutazione è l’atto effettivo di valutare e il suo significato (nella molteplicità di derivati e di sensi che le si attribuiscono)è preminentemente legato al concetto di valore o stima, alla determinazione del prezzo, trasformandosi così in un potente strumento di potere (nel senso di ‘potere fare’ o ‘non fare’.)

Come ben sottolinea Angélique del Rey in questo suo lavoro (la tirannia della valutazione, ed. Eléutera, Milano 2018), la valutazione è lo strumento centrale della flessibilizzazione contemporanea del lavoro, che produce inevitabilmente una precarizzazione psicologica dell’essere umano. Si caratterizza come controllo a posteriori attraverso la performance, con una pretesa di oggettività(una semplice informazione diviene discorso di verità), il significato che la società (post)moderna attribuisce all’oggettività implica l’equivalenza tra le cose e gli esseri umani:la valutazione oggi oggettivizza i soggetti e li sradica da se stessi, cioè dalla loro interiorità e specificità. In sostanza ciu suggerisce ancora Angélique del Rey, il razionalismo valutatore, vera tirannia del visibile e del esplicito, sviluppa e realizza una deterritorializzazione della misura e del giudizio presente nella valutazione. Pertanto è l’intero soggetto che, nel momento in cui viene valutato, è sradicato dalla propria reale condizione. Ancora di più, chi valuta pensa ad un soggetto che è divenuto e si conferma come oggetto medio, così ipotizzato da parametri generali e generici,completamente senza storia, senza presente e con un fututro che sta per essere determinato dal suo esterno. L’ideologia di fondo di questa società ossessionata dal valutare tutto, sempre, comunque, è propria di una nuova economia che potremo definire ‘cognitiva’, nella quale l’impresa(nel senso più ampio del termine)investe nel ‘capitale umano ’ (vero orrore espressivo), secondo equazioni come – ricchezza e sviluppo nazionale = innovazione-. In altre parole l’individuo è chiamato a forza ad aumentare le sue competenze per rendersi più competitivo. Una nuova logica bio-politica e totalitaria del dominio enuncia e persegue il passaggio dal saper fare al saper-essere(in senso performativo e non d’unicità o singolarità). Col pretesto dell’efficienza, in realtà si valuta solo la capacità d’adattamento al sistema complesso e globale di valutazione, ai suoi tempi,luoghi, modi, relazioni,incitando ad una competizione esclusivamente finalizzata al raggiungimento del risultato(a qualsiasi costo), promuovendo questo nuovo oggetto-soggetto (essere assoggettato) dal cervello ‘aumentato’ (Miguel Benasayag, il cervello aumentato, l’uomo diminuito, ed. Erikson,Trento 2016), piegando l’espressione libera e spontanea del proprio specifico sé alle esigenze delle batterie valutative appositamente confezionate. In nome della performance, sottolinea Angélique del Rey, abbiamo creato una misura che misura solo la capacità di conformarsi alla misura stessa. Adattarsi alle richieste significa adattarsi alla norma:le valutazioni disciplinari scolpiscono ognuno all’interno, a partire da un modello dato e interiorizzato.

L’esito è il riconoscersi come soggetti –(oggetti)proprio in quanto si è valutati:VALUTATI DUNQUE SONO (VALUTATO ERGO SUM di cartesiana memoria.

Insomma, l’idea dominante è che ogni individuo, attraverso la valutazione, si possa ritenere soddisfatto del posto che occupa nella piramide sociale perché è quello che si è meritato.

…..

DALL’ISTRUZIONE OBBLIGATORIA ALLA FORMAZIONE OBBLIGATORIA

Un esempio significativo di tutto questo lo possiamo rilevare nei sistemi scolastici. La logica meritocratica si propone di trasformare i giovani da soggetti ad oggetti, e la funzione dei sistemi scolastici è innanzitutto quello di fornire al mercato del lavoro globalizzato e fluido soggetti-oggetti malleabili (assoggettati) e utilizzabili(spendibili)in contesti diversi, privi di contenuti problematizzati, ma ricchi di capacità di adattamento psicologico e professionale (imparare ad imparare).

Abbiamo ormai consumato il passaggio strategico dall’idea d’istruzione obbligatoria, a quello di formazione obbligatoria, ll’uomo produttore a quello di consumatore.

DALL’ACQUISIZIONE DI CONOSCENZE ALL’ACQUISIZIONE DI COMPETENZE

Ecco perché in passato l’attenzione era rivolta all’acquisizione di competenze mentre adesso è rivolata all’acquisizione delle competenze. Il sistema scolastico è transitato dall’essere al servizio dell’economia all’essere al servizio di uno dei settori strategici dell’economia. La sua mission è infatti quella di formare adeguatamente i lavoratori alle esigenze della logica del capitalistica-finanziaria, di educare a stimolare il consumatore, di aprire le scuole stesse alle strategie pervasive dei mercati(Nico Hirtt,L’École prostitutée,Edition Labor, Bruxelles 2001).

Il futuro del lavoratore (fin da studente) deve essere flessibile,adattabile, competitivo, animato da spirito d’impresa e soprattutto responsabile generale (Con quello delle classi dominati).

LA PEDAGOGIA DELLE COMPETENZE

La pedagogia delle competenze, così come è delineata nelle otto competenze-chiave contenute nelle ‘Raccomandazioni del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa  del 18 dicembre 2006, ha colonizzato l’insieme dei sistemi educativi del globo, oltrepassando le frontiere del vecchio continente e governando il sistema d’istruzione degli U.S.A., Canada,Australia, Argentina, Algeria, Togo ecc.

Il Consiglio d’Unione Europea adotta una nuova raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente (22 maggio 2018)

OTTO COMPETENZE CHIAVE

  • COMUNICAZIONE NELLA MADRELINGUA
  • COMUNICAZIONE NELLE LINGUE STRANIERE
  • COMPETENZA MATEMATICA E COMPETENZE DI BASE IN SCIENZA E TECNOLOGIA
  • COMPETENZA DIGITALE
  • IMPARARE AD IMPARARE (partecipare attivamente alle attività portando il proprio contributo personale. Reperire, organizzare, utilizzare informazioni da fonti diverse per assolvere un determinato compito;organizzare il proprio apprendimento;acquisire abilità di studio)
  • COMPETENZE SOCIALI E CIVICHE
  • SPIRITO D’INIZIATIVA ED IMPRENDITORIALITA’(Risolvere i problemi che s’incontrano nella vitae nel lavoro e proporre soluzioni;valutare rischi ed opportunità;scegliere da opzioni diverse;prendere decisioni;agire con flessibilità;progettare e pianificare;conoscere l’ambiente in cui si opera anche in relazione alle proprie risorse.)
  • CONSAPEVOLEZZA ED ESPRESSIONE CULTURALE

L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI SISTEMI VALUTATIVI 

Tutto ciò si imposto se che governi nazionali, sindacati tradizionali e forze politiche abbiamo speso una parola di condanna o abbiamo allertato i loro iscritti rispetto alle conseguenze che questo fenomeno trasversale e internazionale sta producendo( raramente e solo movimenti di base degli studenti attraverso le assemblee e sindacati di base dei docenti – attraverso i comitati di base – hanno attivato i loro associati e aperto conflitti e discussioni nel merito di quanto stava accadendo). L’internazionalizzazione dei sistemi valutativi risponde in pieno ad un modello educativo che è divenuto irrimediabilmente ‘formativo’ e che ha trasformato la Scuola in un Fabbrica di allievi performanti, in una fabbrica di ‘risorse umane’.

Si è così imposta una valutazione che poggia su una filosofia comune caratterizzata da una misurazione standardizzata e da un approccio quantitativo, una valutazione del tutto estranea al contesto quotidiano della dinamica apprendimento/insegnamento/apprendimento. Le tecnologie e gli strumenti valutativi(definiti dal Pisa, Programme for International Student Assessment dell’OCSE, ed in Italia tradotti dall’INVALSI) stanno trasformando l’intero sistema d’istruzione,diventando ormai il presupposto e non la conseguenza delle pratiche quotidiane che si fanno a scuola.

Questi sistemi pretendono di misurare ciò che non è misurabile, cioè si propongono di dare un valore quantitativo ad una qualità. La competenza è quella capacità tutta personale di tradurre concretamente in un contesto specifico le proprie abilità e conoscenze.

Pertanto non può essere misurata quantitativamente ma solo qualitativamente, poiché dipende da un’insieme di fattori che esigono continue verifiche nella pratica. La competenza dunque definisce la capacità di portare a termine una funzione, un insieme di compiti. Tradizionalmente è vista come il risultato di una padronanza o signoria delle conoscenze acquisite, del saper-fare, dei comportamenti adeguati e delle esperienze pratiche.

Ma dalla fine del XX secolo, questo buon senso ha lasciato il posto ad una nuova interpretazione del termine ‘competenza’, che ora non significa più solo una somma di saperi efficaci, ma rimanda sempre più ad una capacità astratta di mobilitare le proprie conoscenze (qualunque esse siano).

Ciò che caratterizza l’approccio a queste nuove competenze, predominate a partire dagli anni Novanta, è che gli obiettivi educativi, più che a trasferire contenuti, mirano a conseguire una capacità d’azione. Una competenza non è riducibile a specifici saperi, né a specifici saper-fare o comportamenti. Questi sono solo risorse che l’allievo non deve necessariamente possedere,ma che deve essere in grado di mobilitare, in un modo o nell’altro, per la realizzazione di un compito particolare. Queste nuove modalità valutative inducono perciò ad insegnare solo ciò che è misurabile o che si ritiene tale.

Quindi non solo condizionano le modalità d’insegnamento e le didattiche che ne conseguono, ma soprattutto plasmano e rendono validi solo alcuni dei modi d’apprendere. Con un’operazione arbitraria e pericolosa la qualità viene fatta coincidere con la quantità senza considerare realmente che l’essere vivente non è mai uguale a se stesso(cambia, s’evolve) e soprattutto non è mai uguale ad un altro,neanche nel modo, nello stile e nei tempi del suo apprendimento.

QUESTO FENOMENO STA PRODUCENDO L’INSEGNAMENTO DELL’IGNORANZA (Jean Claude Michéa,l’enseignement de l’ignorance, Edition Climats,Castelnau-le-lez,1999 ), depauperando i saperi, abbassando i livelli, svuotando di criticità i contenuti. Quello che ormai divenuto una sorte di supermarket dell’istruzione, l’istituto scolastico, dà spazio ad una didattica che produce segmentazione e mecanizzazione dell’apprendimento, attraverso una pratica valutativa standardizzata che si basa sul rispondere a domande(test) e che ha ormai rinunciato a stimolare la proposizione di domande e a mantenere acceso un pensiero critico e divergente.

 La filosofia dell’utilitarismo governa il processo di trasmissione del sapere e plasma le metodologie di insegnamento, producendo nei fatti ‘un uomo senza qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )

La valutazione per competenza si propone di ‘valutare l’attitudine dei giovani quindicenni a cavarsela nella vita reale. Vita reale? Appare chiaro che nello scenario definito dalla valutazione la nozione di competenza impone una visione normativa della vita e della sua riuscita. Di ciò che la vita reale è, e di ciò che non è. Di ciò che significa riuscire nella vita reale, e di ciò che significa fallire. qualità’(Angélique del Rey, A L’École des compoetences. De l’éducation a la fabrique de l’éleve performant, La Decouverte, Paris 2013. )

TUTTO CIÒ SIGNIFICA FORSE CHE IL VALUTARE DEV’ESSERE BANDITO DA OGNI FORMA DI RELAZIONE E DI ORGANIZZAZIONE SOCIALE? OVVIAMENTE NO! NEANCHE ALL’INTERNO DELLE SCUOLE.

MA OCCORRE RIPRENDERE SIGNIFICATI PIÙ AUTENTICI, PIÙ CONSONI A RELAZIONI UMANE ISPIRATE AI VALORI DELLA COOPERAZIONE PIUTTOSTO CHE ALLA COMPETIZIONE.

Ciò che va dunque respinto è quel dispositivo di potere che assume le caratteristiche di un controllo totale funzionale alla diffusione ‘di un essere senza qualità’, funzionale al mercato del lavoro globale ,un dispositivo prodotto da un sistema scolastico fondato sulla cultura dell’utilitarismo e organizzato sui tempi ‘spesi bene’(dove per bene s’intende qualcosa di specifico e predefinito.)

CIÒ CHE OCCORRE MODIFICARE PER ANGÉLIQUE DEL REY È PROPRIO IL PARADIGMA DI FONDO: ACCETTARE LA COMPLESSITÀ, L’INCERTEZZA, L’IMPREVEDIBILITÀ,LA SPECIFICITÀ, LA SINGOLARITÀ, LA CONTESTUALIZZAZIONE, RIMPIAZZANDOLA LINEARITÀ E IL RIDUZIONISMO SISTEMATICO.

ECCO DUNQUE CHE, IN AMBITO VALUTATIVO PREVARRÀ L’OSSERVAZIONE E AL REGISTRAZIONE SUL GIUDIZIO, L’ATTENZIONE AL PROCESSO PIÙ CHE AL PRODOTTO.

In questo ambito si recupera tutta una tradizione libertaria fatta di innumerevoli esperienze concrete, realizzate anche nell’attualità, che hanno privilegiate queste modalità alternative e fortemente anti-autoritarie (dialogo e circolarità). Modalità che spingono per intervenire il meno possibile nella relazione educativa(secondo l’insegnamento di Tolstoj e della Montessori), per ritenere strategico il fatto di valutare anche l’intervento dell’adulto, per considerare l’errore uno strumento e un’occasione irrinunciabile di crescita (e non una condanna), per mettere in pratica confronto tra pari, il tutto partendo dalla convinzione che l’apprendimento è una costruzione sociale e non esclusivamente individuale. La vantazione pertanto risulterà funzionale al lavoro che si sta svolgendo e perderà ogni valenza assimilabile ad un rito da tribunale(Ferrer). Valutare è funzionale ad imparare :all’opposto nella scuola istituzionalizzata gli errori si nascondono all’insegnate perché si vogliono evitare i giudizi. Questo è un punto d’inizio per un’analisi radicale di come, attraverso queste ossessioni valutative, si sta imponendo un tipo di essere umano privo d’autonomia, servile ed ignorante, ma fortemente , perché ne ha interiorizzato i fondamenti, ad essere consumatore passivo in modo assolutamente a-critico.

Questo testo sopra riportato con alcune mie note  per una riflessione e critica comune è la prefazione di Francesco Codello al saggio di Angelique de Rey , la tirannia della valutazione, edizione Eleutera.

MANIFESTO TRANSFEMMINISTA CONTRO IL BINARISMO SESSUALE

Pubblicato il 13 luglio 2018 da feminoska    

Emi Koyama.

Ultima edizione, 26 Luglio 2001

Testo originale qui. Illustrazione per gentile concessione di Florent Manelli.

Introduzione

La seconda metà del ventesimo secolo è stata testimone di una crescita senza precedenti del movimento femminista americano, grazie alla partecipazione di diversi gruppi di donne. Ogni volta che un gruppo di donne, precedentemente messo a tacere dal movimento femminista ufficiale, rompeva il silenzio reclamando il posto che gli spettava di diritto all’interno del movimento, subito veniva accusato di frammentare il femminismo con problemi di poco conto, e solo successivamente finiva per essere accettato e accolto come un elemento prezioso del pensiero femminista. Siamo diventat* sempre più consapevoli del fatto che la diversità è la nostra forza, non la nostra debolezza. In ultima istanza, nessuna frammentazione o polarizzazione temporanea è così grave da annichilire i benefici delle politiche inclusive dell’alleanza.

Ogni volta che alcune donne (precedentemente ridotte al silenzio) prendono parola, sfidano le altre femministe a riconsiderare la propria idea di chi rappresentano e degli ideali per i quali lottano. Anche se questo processo, talvolta, porta alla dolorosa realizzazione dei propri pregiudizi e delle oppressioni interiorizzate in quanto femministe, esso si rivela vantaggioso per il movimento, perché allarga le nostre prospettive e la nostra cerchia. È con questa idea in mente che dichiariamo che è giunto il momento che le donne trans partecipino alla rivoluzione femminista, espandendo ulteriormente la portata del movimento.

“Trans” è spesso utilizzato come un termine inclusivo, che raggruppa una gran quantità di violazioni delle norme di genere, accomunate da una qualche discontinuità fra il genere assegnato alla nascita e l’identità e/o l’espressione di genere di una persona. Ai fini di questo manifesto, tuttavia, il termine “donne trans” verrà spesso utilizzato per descrivere quelle persone che si identificano, presentano o vivono più o meno come donne, anche se il sesso che è stato assegnato loro alla nascita è l’opposto. Allo stesso modo, “uomini trans” è utilizzato per descrivere coloro che si identificano, presentano o vivono come uomini a discapito del fatto che alla nascita siano stati percepiti in altro modo. Anche se questa distinzione metodologica esclude le molte persone trans che non si conformano alla dicotomia maschile/femminile, o le persone che vivono il loro essere trans in maniera differente, speriamo che riconoscano un numero sufficiente di punti in comune tra i problemi che noi tutt* affrontiamo, e trovino la nostra analisi in qualche modo utile per le loro lotte.

Il transfemminismo è prima di tutto un movimento fatto da e per le donne trans che riconoscono che la propria liberazione è intrinsecamente legata alla liberazione di tutte le altre donne, e delle altre soggettività. È, infatti, un movimento aperto alle persone queer, intersex, agli uomini trans, alle donne non-trans, agli uomini non-trans e a tutt* coloro che siano solidal* nei confronti dei bisogni delle donne trans, e che considerino l’alleanza con le donne trans come una parte essenziale della loro stessa liberazione. Storicamente, gli uomini trans hanno dato un contributo maggiore al femminismo rispetto alle donne trans. Crediamo sia imperativo che più donne trans inizino a partecipare al movimento femminista a fianco di tutt* le/gli altr*, per realizzare la nostra liberazione.

Il transfemminismo non è un tentativo di impadronirsi delle attuali istituzioni femministe. Al contrario, allarga il campo e fa progredire il femminismo stesso attraverso la nostra liberazione e attraverso l’alleanza con tutt* le/gli altr*. Si schiera, in egual misura, per la liberazione delle donne trans e non-trans, e chiede alla donne non-trans di battersi per le donne trans. Il transfemminismo incarna le politiche dell’alleanza femminista attraverso le quali donne con storie diverse si sostengono a vicenda, perché se non ci sosteniamo a vicenda, nessun altro si prenderà la briga di farlo.

Principi fondamentali

I principi fondamentali del transfemminismo sono semplici. Primo, è nostra convinzione che ogni individuo abbia il diritto di definire la propria identità e di aspettarsi che la società la rispetti. Questo aspetto include anche il diritto di esprimere il nostro genere senza timore di discriminazioni o violenze. Secondo, riteniamo di avere diritto esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi facciamo.

Tuttavia, nessun* è completamente liber* dalle dinamiche sociali e culturali esistenti all’interno del sistema di genere istituzionalizzato. Quando prendiamo decisioni riguardo alla nostra identità o espressione di genere, non possiamo sfuggire al fatto che lo facciamo nel contesto di un sistema di genere binario e patriarcale. Le donne trans, in particolare, sono incoraggiate, e a volte obbligate, ad adottare la tradizionale definizione di femminilità per essere accettate e legittimate dalla comunità medica, che si è autoproclamata arbitro di chi è veramente donna e chi no. Le donne trans si trovano spesso a dover “dimostrare” la propria femminilità, interiorizzando gli stereotipi di genere per essere riconosciute come donne o per sottoporsi ad interventi ormonali e chirurgici. Questa pratica è oppressiva nei confronti di ogni donna, trans o meno, in quanto nega l’unicità di ogni donna.

Il transfemminismo ritiene che nessun* debba sentirsi costrett* a prendere decisioni personali riguardanti la propria identità o espressione di genere per essere una “vera” donna o un “vero” uomo. Crediamo inoltre che nessun* debba essere costrett* a prendere simili decisioni personali per qualificarsi come una “vera” femminista. Come donne trans, abbiamo imparato che la nostra sicurezza spesso dipende da quanto brave siamo a “passare” per donne “normali”; come transfemministe, ci troviamo a dover negoziare costantemente il nostro bisogno di sicurezza e tranquillità con i nostri principi femministi. Il transfemminismo esorta tutte le donne, comprese le donne trans, a esaminare i modi nei quali interiorizziamo tutti i comandamenti di genere eterosessisti e patriarcali e quali implicazioni globali comportano le nostre azioni; allo stesso tempo, chiariamo che non è responsabilità di una femminista sbarazzarsi di ogni somiglianza con la definizione patriarcale della femminilità.

Le donne non dovrebbero essere accusate di rafforzare stereotipi di genere nel fare le proprie scelte, anche se queste scelte sembrano obbedire a determinati ruoli di genere; una simile prova di purezza svaluta le donne, perché nega il nostro libero arbitrio, e avrà come unica conseguenza l’alienazione della maggioranza delle donne, trans o meno, dal movimento femminista. Il transfemminismo crede nell’idea che ci siano tanti modi di essere donna quante sono le donne, che dovremmo essere libere di prendere le nostre decisioni senza sensi di colpa. A tale scopo, il transfemminismo si confronta con istituzioni sociali e politiche che inibiscono o riducono le nostre scelte individuali, rifiutando allo stesso tempo di incolpare le singole donne per le loro decisioni personali. Non è necessario – al contrario, è oppressivo – imporre alle donne di abbandonare la propria libertà di compiere scelte personali per essere considerate vere femministe, poiché ciò avrà l’unica conseguenza di sostituire il rigido costrutto patriarcale della femminilità ideale con una versione femminista leggermente modificata ma altrettanto rigida. Il transfemminismo crede nella promozione di un contesto in cui le scelte individuali delle donne siano rispettate, mentre al contempo critica e sfida le istituzioni che limitano la gamma di scelte a loro disposizione.

La questione del privilegio maschile

Alcune femministe, specialmente le cosiddette femministe lesbiche radicali, accusano le donne e gli uomini trans di godere del privilegio maschile. Queste femministe sostengono che le transessuali MtF (N.d.T. MtF [Male to Female] indica una persona transessuale il cui sesso biologico/genetico assegnato alla nascita è maschile, che decide di operare una transizione verso il sesso femminile) crescano socializzate da maschi, e dunque beneficino del privilegio maschile. D’altro canto, invece, i transessuali FtM (N.d.T. FtM [Female to Male] indica una persona transessuale il cui sesso biologico/genetico assegnato alla nascita è femminile, che decide di operare una transizione verso il sesso maschile) sono visti come traditori che hanno abbandonato le loro sorelle in un patetico tentativo di acquisire il privilegio maschile. Il transfemminismo deve rispondere a queste critiche, che sono state usate per giustificare la discriminazione contro le donne e gli uomini trans all’interno di alcuni ambienti femministi.

Di fronte a questa argomentazione, la prima reazione delle donne trans è di negare di aver mai goduto di un qualsivoglia privilegio maschile nelle loro vite. È comprensibile pensare che il fatto di essere state assegnate al genere maschile alla nascita abbia rappresentato per loro più un peso che un privilegio: molte di loro, crescendo, hanno odiato i propri corpi maschili e il fatto di essere trattate da maschi. Ricordano, per esempio, quanto le mettesse a disagio subire la pressione di doversi comportare da uomini duri e virili. Molte sono state vittime di bullismo e sono state ridicolizzate da altri ragazzi per il loro comportamento non “propriamente” maschile. Sono state spesso indotte a vergognarsi e hanno sofferto di depressione. Anche da adulte vivono con la paura costante di venire scoperte ed esposte, cosa che metterebbe a repentaglio il loro lavoro, le loro relazioni famigliari e di amicizia e la loro sicurezza.

Tuttavia, come transfemministe dobbiamo rifuggire questa reazione semplicistica. Per quanto sia vero che il privilegio maschile investe alcuni uomini molto più di altri, è anche difficile immaginare che le donne trans assegnate uomini alla nascita, non ne abbiano mai beneficiato. La maggior parte delle donne trans sono state percepite e trattate da uomini (seppure effeminati) almeno per un certo periodo della loro vita, e hanno dunque goduto di un trattamento preferenziale a scuola e sul lavoro, indipendentemente dal fatto che fossero felici di essere percepite come uomini. Sono state educate ad essere decise e sicure di sé, e alcune donne trans mantengono queste caratteristiche “mascoline”, spesso a loro vantaggio, dopo la transizione.

Questo dimostra che spesso confondiamo l’oppressione che abbiamo subito per il fatto di non conformarci ai dettami del binarismo di genere, con l’assenza di privilegio maschile. Invece di affermare che non abbiamo mai beneficiato dei vantaggi derivanti dalla supremazia maschile, dovremmo piuttosto sostenere che le nostre esperienze sono il risultato di un’interazione dinamica tra privilegio maschile e svantaggi derivanti dall’essere trans.

Chiunque abbia un’identità di genere e/o un’inclinazione verso un’espressione di genere che corrisponde al sesso assegnatogli/le alla nascita ha il privilegio di non essere trans. Questo privilegio, come tanti altri, risulta invisibile a chi lo possiede. E, come per tutti gli altri privilegi, coloro che non ne beneficiano percepiscono intuitivamente quanta sofferenza è causata dalla sua assenza. Una donna trans può avere accesso limitato al privilegio maschile a seconda dell’età in cui ha fatto la transizione e di quanto pienamente viva da donna, ma allo stesso tempo subisce enormi svantaggi sul piano emotivo, sociale ed economico per il fatto di essere trans. L’assunto che le donne trans siano intrinsecamente più privilegiate di altre donne è privo di fondamento, tanto quanto affermare che le coppie di uomini gay siano più privilegiate delle coppie eterosessuali perché entrambi i partner godono del privilegio maschile.

Spesso nascono tensioni quando le donne trans tentano di accedere a “spazi per donne”, che si suppongono essere rifugi sicuri dal patriarcato. L’origine di questi “spazi per donne”, può essere fatta risalire al primo femminismo lesbico degli anni ‘70, composto per la maggior parte da donne bianche di classe media che consideravano il sessismo come la più importante diseguaglianza sociale, trascurando però ampiamente il loro ruolo nella riproduzione di altre oppressioni come il razzismo e il classismo. Partendo dal presupposto che il sessismo influenzasse la vita delle donne più di ogni altro elemento sociale, davano per scontato che la loro esperienza di sessismo fosse la stessa per tutte le donne indipendentemente dall’etnia, dalla classe ecc. – intendendo, con la parola donne, tutte le donne non-trans. Critiche recenti al femminismo radicale degli anni ‘70 mettono in luce come l’opportunistica disattenzione nei confronti del razzismo e del classismo da parte di queste donne costituisse in realtà un modo per mantenere il proprio privilegio di donne bianche e di classe media.

A partire da questa consapevolezza, le transfemministe non dovrebbero rispondere alle accuse di privilegio maschile negandolo. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che le donne trans possono avere beneficiato del privilegio maschile – alcune ovviamente più di altre – nella stessa misura in cui quelle tra noi che sono bianche dovrebbero affrontare la questione del privilegio bianco. Il transfemminismo crede nell’importanza del rispetto di ciò che differenzia così come di ciò che accomuna le donne, vista l’ampia varietà di contesti sociali da cui le donne provengono. Le tranfemministe si confrontano con il proprio privilegio e si aspettano, allo stesso modo, che le donne non-trans riconoscano il proprio privilegio di donne non-trans.

Riconoscendo e affrontando i nostri privilegi, come donne trans possiamo sperare di costruire alleanze con altri gruppi di donne tradizionalmente ignorati e considerati non abbastanza “femminili” sulla scia di parametri di femminilità bianchi e di classe media. Quando ci chiamano degenerate e ci attaccano per la sola ragione di essere ciò che siamo, non c’è nulla da guadagnare nell’evitare la questione del privilegio.

Decostruire l’essenzialismo inverso

Sebbene la seconda ondata di femminismo abbia diffuso l’idea che il genere di ognun* sia distinto dal suo sesso fisiologico e sia frutto di una costruzione sociale e culturale, essa ha per lo più lasciato indiscussa la credenza che esista realmente un sesso biologico. La separazione del genere dal sesso ha rappresentato un potente strumento retorico utile ad abbattere i ruoli di genere imposti, ma ha permesso alle femministe di mettere in discussione solo una parte del problema, tralasciando la discussione sulla naturalità dei sessi, femminile e maschile, fino a tempi più recenti.

Il transfemminismo afferma che sesso e genere sono strutture sociali e che, per di più, la distinzione tra sesso e genere è costruita artificialmente per questioni di comodità. Sebbene il concetto di genere come costrutto sociale abbia mostrato di essere uno strumento potente nel decostruire la visione tradizionale delle capacità delle donne, ha lasciato comunque spazio alla giustificazione di certe politiche o strutture discriminatorie su base biologica. Esso ha fallito anche nell’affrontare la realtà delle esperienze trans, che vivono il proprio sesso biologico come più artificiale e modificabile rispetto alla percezione interiore che hanno di sé.

La costruzione sociale del sesso biologico è più di un’osservazione astratta: è una realtà fisica che molte persone intersessuali (N.d.T. L’intersessualità comprende diverse variazioni fisiche che riguardano elementi del corpo considerati “sessuati” come cromosomi, marker genetici, gonadi, ormoni, organi riproduttivi, genitali, e l’aspetto somatico del genere di una persona; le persone intersessuali sono nate con caratteri sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie del corpo maschile o femminile) devono affrontare. Poiché la società non mette in conto l’esistenza di persone le cui caratteristiche anatomiche non rientrano perfettamente in quelle di maschio o femmina, queste sono regolarmente mutilate da medici professionisti e costrette a vivere nel sesso che viene assegnato loro. Di solito alle persone intersex non viene data la possibilità di decidere per se stesse su come vogliano vivere e se vogliano o meno ricorrere a “correzioni” chirurgiche o ormonali. È terribile per molte persone intersex non poter dire la propria in merito ad una decisione così importante per la propria vita, sia nel caso in cui la loro identità di genere coincida col sesso assegnato, che nel caso in cui invece non vi coincida. Crediamo che la mutilazione genitale de* bambin* intersex sia intrinsecamente violenta, dal momento che viola immotivatamente l’integrità dei loro corpi senza alcun consenso. La questione non è neppure che il sesso assegnato a una persona coincida con la sua identità di genere o meno; ma se alle persone intersessuali venga data l’effettiva possibilità di scegliere sul proprio corpo.

Le persone trans sono scontente del sesso che viene loro assegnato, senza consenso, secondo parametri medici eccessivamente semplicistici. Esistono svariati modi di essere persone trans: alcune si identificano e vivono come persone di sesso differente da quello assegnato dalle autorità mediche, scegliendo o meno l’intervento medico, mentre altre si identificano con entrambi i sessi, maschile e femminile, o con nessuno dei due. La liberazione delle persone trans passa attraverso il diritto di definirsi a prescindere dalle autorità mediche, religiose e politiche. Il transfemminismo considera qualsiasi metodo di assegnazione del sesso un costrutto sociale e politico, e promuove un assetto sociale in cui ognun* possa liberamente assegnarsi il proprio sesso (o non-sesso, per l’appunto).

Dal momento che le persone trans cominciano ad organizzarsi politicamente, si è tentati di adottare la nozione essenzialista di identità di genere. Il cliché reso popolare dai mass media è quello per cui essere trans significa essere “donne intrappolate in corpi di uomini” o viceversa. L’attrattiva di una simile strategia è chiara, poiché l’opinione pubblica può supportarci più facilmente se la convinciamo di essere vittime di un errore biologico su cui non abbiamo alcun controllo. Questa visione è anche spesso in accordo con la propria percezione di se, che sentiamo come molto radicata in noi e fondante. Ciononostante, da transfemministe, resistiamo a queste tentazioni a causa delle loro implicazioni.

Le persone trans sono spesso state descritte come persone il cui sesso biologico non corrisponde col genere della loro mente o anima. Questa spiegazione può avere senso a livello intuitivo, ma è allo stesso tempo problematica per il transfemminismo. Sostenere che una persona abbia una mente o un’anima femminile significherebbe ammettere che esistono menti maschili e menti femminili, diverse tra loro in modo distinguibile, idea che si potrebbe usare per giustificare la discriminazione nei confronti delle donne. Essenzializzare la nostra identità di genere può essere tanto pericoloso quanto ricorrere all’essenzialismo biologico.

Il transfemminismo sostiene che la propria identità di genere si costruisce basandosi su ciò che ci appare genuino, coerente e che ci fa sentire a nostro agio nel modo in cui viviamo e ci relazioniamo ad altr*, nell’ambito dei vincoli socioculturali dati. Questo vale sia per coloro la cui identità di genere è in linea col sesso assegnato alla nascita, sia per le persone trans. La nostra richiesta di riconoscimento e rispetto non dovrebbe essere in alcun modo indebolita dall’accettazione di questo fatto. Invece di giustificare la nostra esistenza attraverso l’essenzialismo inverso, il transfemminismo smonta il preconcetto essenzialista secondo il quale la congruenza tra sesso e genere è la norma.

Immagine e consapevolezza del corpo come questione femminista

Noi, in quanto femministe, affermiamo di sentirci a nostro agio, sicure, forti nei nostri corpi; sfortunatamente, però, questo non è il sentire di molte donne, incluse quelle trans.

Per molte transfemministe, la questione dell’immagine del proprio corpo è il punto in cui  il nostro bisogno di benessere e sicurezza si scontra con la nostra politica femminista. Molte di noi si sentono così a disagio e provano così tanta vergogna per il proprio aspetto da scegliere di rimanere nascoste oppure di sottoporsi a elettrolisi, terapie ormonali, interventi chirurgici per modificare i propri corpi in modo congruo alla propria identità di donne. Queste procedure sono costose, dolorose, richiedono molto tempo e possono condurre alla perdita definitiva della fertilità e ad altre serie complicazioni quali l’aumento del rischio di tumori.

Perché qualcun* dovrebbe volersi sottoporre a procedure così disumane? Anche se ci piacerebbe credere che il bisogno che sentiamo di far corrispondere i nostri corpi alle nostre identità di genere sia innato o essenziale, non possiamo in tutta onestà negare che fattori sociali e politici influenzino le nostre decisioni personali.

Uno di questi aspetti consiste nel rinforzo sociale della dicotomia dei ruoli di genere. Siccome le nostre identità sono costruite all’interno del sistema sociale in cui siamo nate, si potrebbe a questo punto affermare che la discontinuità tra l’identità di genere di una persona e il suo sesso biologico sia problematica solo nel momento in cui la società stessa mantiene attivamente una dicotomia del sistema di genere. Se il genere di una persona fosse un fattore insignificante a livello sociale, il bisogno delle soggettività trans di modificare i propri corpi per essere conformi al binarismo dei generi potrebbe diminuire, anche se non scomparirebbe del tutto.

Tuttavia, questo ragionamento non dovrebbe essere usato per ostacolare le persone trans dal prendere decisioni sui propri corpi. Le donne trans sono estremamente vulnerabili alla violenza, all’abuso e alle discriminazioni per ciò che sono, e non si dovrebbe farle sentire in colpa quando fanno tutto il necessario per sentirsi al sicuro e a proprio agio. Il transfemminismo ci sfida a prendere in considerazione le modalità attraverso le quali i fattori sociali e politici influenzano le nostre decisioni ma, in ultima analisi, chiede che la società rispetti qualsiasi decisione ognun* di noi prenda sul proprio corpo e sulla propria identità di genere.

Non è contraddittorio lottare contro l’applicazione rigida dei ruoli di genere da parte delle istituzioni mentre, al contempo, si difende il diritto individuale di scegliere come vivere per sentirsi a proprio agio e al sicuro; non è contraddittorio neppure supportarsi tra pari, in modo da poter costruire una sana autostima e al contempo  sostenere la decisione altrui di modificare il proprio corpo, se così si è deciso. Ognuna di noi può sfidare gli arbitrari assunti di genere e sesso della società senza diventare dogmatica. Nessuna di noi dovrebbe sentirsi in dovere di rifiutare in un colpo solo tutti gli aspetti oppressivi della propria vita: finiremmo coll’essere esauste e diventare folli. La somma delle nostre piccole ribellioni combinate destabilizzerà il sistema normativo di genere così come lo conosciamo. Varie forme di femminismi, l’attivismo queer, il transfemminismo e altri movimenti progressisti attaccano tutti diversi aspetti del comune nemico: il patriarcato etero-sessista.

Violenza contro le donne

Le femministe hanno sostenuto fin dagli anni ’70 che la violenza contro le donne non consiste solo in una serie di eventi isolati, ma che è una funzione sistematica del patriarcato per mantenere soggiogate tutte le donne. Il transfemminismo richiama l’attenzione sul fatto che le donne trans, come altri gruppi di donne che subiscono molteplici oppressioni, sono particolarmente vulnerabili alla violenza rispetto alle donne che beneficiano di privilegi cis (N.d.T: cisgender o l’abbreviazione cis, indica le persone che si identificano nel proprio genere di nascita: nelle/i cisgender, identità di genere e sesso biologico corrispondono).

In primo luogo, le donne trans sono prese di mira perché vivono come donne. Essere una donna in questa società misogina è pericoloso, ma ci sono alcuni fattori che ci rendono molto più vulnerabili quando siamo sottoposte a violenze sessuali e domestiche. Ad esempio, quando un uomo attacca una donna trans, soprattutto se tenta di violentarla, può scoprire che la vittima ha o aveva un’anatomia “maschile”. Questa scoperta spesso porta ad un’aggressione ancora più violenta alimentata dall’omofobia e dalla transfobia. Le donne trans subiscono frequentemente aggressioni da parte di uomini quando viene fuori il loro essere trans. Gli omicidi delle donne trans, come quelli delle prostitute, sono raramente presi sul serio o in modo empatico dai media e dalle autorità, soprattutto se la vittima è una donna trans che lavora come prostituta.

Le donne trans sono anche più vulnerabili agli abusi emotivi e verbali dei propri partner a causa della loro sovente scarsa autostima e dell’immagine negativa che hanno del proprio corpo. È facile per un molestatore far vergognare una donna trans e farla sentire brutta, inutile e pazza perché questi sono gli stessi identici messaggi a cui l’intera società  l’ha sottoposta nel corso degli anni. Gli abusanti la fanno franca con la violenza domestica, portando via alle donne la capacità di definire la propria identità e le proprie esperienze, aspetti in cui le donne trans possono essere particolarmente vulnerabili, tanto per cominciare. Le donne trans hanno maggiori difficoltà a lasciare i propri abusanti perché è più difficile per loro trovare lavoro, e quasi certamente in caso di divorzio perderebbero la custodia dei figli a favore del proprio partner violento, quando ci sono bambini coinvolti.

Inoltre, le donne trans sono prese di mire per il fatto di essere queer. Gli omofobi tendono a non distinguere tra le persone gay e le persone trans quando commettono crimini d’odio, ma le persone trans sono molto più vulnerabili perché sono spesso più visibili delle persone gay. I terroristi omofobi non spiano le camere da letto delle persone quando escono per cacciare le persone gay; cercano indizi di genere nella loro preda che non corrispondano al sesso percepito, e di fatto prendono di mira chi è visibilmente deviante rispetto al genere assegnato. Per ogni uomo omosessuale o donna lesbica il cui omicidio diventa un titolo sulle testate nazionali, molte persone trans vengono uccise in tutto il paese, anche se ci sono molte più persone gay e lesbiche “dichiarate” che persone transessuali. Gli uomini trans vivono anche nella costante paura di venir scoperti mentre attraversano una società che perseguita gli uomini che fanno un passo al di fuori dei loro ruoli socialmente stabiliti. I crimini contro gli uomini trans sono commessi sia da estranei che da “amici” intimi, crimini che sono indubbiamente motivati da una combinazione di transfobia e misoginia, messi in atto come punizione per aver violato le norme di genere al fine di rimetterli al loro “posto da donna”.

A causa della situazione di pericolo in cui viviamo, il transfemminismo crede che la violenza contro le persone transessuali sia uno dei problemi più importanti su cui dobbiamo lavorare. Possiamo essere ferit* e restare  delus* dal fatto che in alcuni eventi riservati alle donne esista un rifiuto a farci entrare, ma è la violenza contro di noi che, da troppo tempo, ci uccide letteralmente o ci costringe al suicidio. Non abbiamo altra scelta che agire, immediatamente. In questo senso è essenziale la cooperazione con le tradizionali case-famiglia per la violenza domestica, con i centri antiviolenza e con i programmi di prevenzione dei crimini d’odio. Alcuni centri di accoglienza hanno già deciso di accettare pienamente le donne trans come tutte le altre donne, mentre altri esitano per varie ragioni. Dobbiamo organizzare ed istruire gli organi esistenti circa la necessità delle donne trans di essere aiutate. Dobbiamo sottolineare che la dinamica della violenza contro le donne trans non è dissimile da quella che subiscono le donne non-trans, salvo che siamo spesso più vulnerabili. E dovremmo anche chiedere servizi per gli uomini trans.

Come transfemministe, non dovremmo richiedere soltanto che le organizzazioni attuali ci forniscano servizi; dovremmo essere noi a unirci a loro. Dovremmo offrirci volontariamente per aiutarle a mettere a punto un efficace metodo di monitoraggio al fine di garantire loro la sicurezza mentre espandono il loro campo d’azione. Dovremmo metterci a disposizione come consulenti in caso di situazioni critiche e come responsabili per altre donne trans che hanno bisogno. Dovremmo anche aiutarle a finanziare laboratori di formazione specifici per il  personale. Dovremmo sviluppare corsi di autodifesa per le donne trans, modellate sui corsi di autodifesa femministi per donne, ma che prestino particolare attenzione alle nostre esperienze specifiche. Potrebbe non essere possibile adesso iniziare da zero a realizzare delle nostre case-famiglia, ma possiamo lavorare per l’eliminazione della violenza nei confronti delle persone trans in una vasta coalizione che miri all’eliminazione della violenza contro le donne e le minoranze sessuali.

Dobbiamo anche affrontare il problema della violenza economica. Le donne transessuali sono spesso in condizioni di povertà perché, in quanto donne, guadagniamo meno degli uomini, perché le discriminazioni palesi nei confronti delle persone trans che hanno un’occupazione sono dilaganti, e a causa del costo proibitivo della transizione. Ciò significa anche che i partner abusanti delle donne trans hanno più potere, e ci tengono intrappolate in relazioni abusanti. Il transfemminismo crede nella lotta contro la transfobia e il sessismo tanto in ambito economico quanto sociale e politico.

Salute e scelte riproduttive

Può sembrare ironico che le donne trans, le quali generalmente non possono procreare, abbiano interesse nel movimento per i diritti riproduttivi delle donne, ma il transfemminismo vede una connessione profonda tra la liberazione delle donne trans e il diritto delle donne a scegliere. Prima di tutto, la stigmatizzazione sociale dell’esistenza trans è in parte dovuta al fatto che interveniamo sui nostri organi riproduttivi. Le operazioni di chirurgia estetica non genitale vengono effettuate molto più spesso delle operazioni di riassegnazione sessuale, eppure non richiedono mesi di psicoterapia obbligatoria. Tanto meno le persone che si sottopongono a operazioni di chirurgia estetica vengono quotidianamente ridicolizzate e vilipese in talk show spazzatura trasmessi a livello nazionale. Una tale isteria riguardo alle nostre scelte personali è alimentata in parte dal tabù sociale contro l’autodeterminazione dei nostri organi riproduttivi: come per le donne che vogliono abortire, i nostri corpi sono diventati un territorio comune, un campo di battaglia.

Inoltre, gli ormoni che prendono molte donne trans sono simili per origine e composizione chimica a quelli che le donne non-trans prendono per il controllo delle nascite, per la contraccezione d’emergenza e per la terapia ormonale sostitutiva. Come donne trans, condividiamo le loro preoccupazioni sulla sicurezza, il costo e la disponibilità di queste pillole a base di estrogeni. Donne trans e non-trans devono essere unite nella battaglia contro le tattiche della destra che mirano a rendere inaccessibili, se non illegali, i mezzi e l’informazione per il controllo sui nostri corpi. Ovviamente, la scelta riproduttiva non riguarda soltanto l’accesso all’aborto o al controllo delle nascite: riguarda anche la resistenza alla sterilizzazione forzata e coercitiva o all’aborto per le donne meno privilegiate. Allo stesso modo, il transfemminismo si batte per il diritto a rifiutare interventi chirurgici e ormonali, inclusi quelli prescritti per le persone intersex, e aspetta ancora che la società rispetti il nostro senso di identità personale.

Durante gli anni ’80, le lesbiche vennero cacciate da alcune organizzazioni per la libertà di scelta riproduttiva perché considerate irrilevanti per la loro causa. Ma il diritto a scegliere non è esclusivamente una questione eterosessuale, così come non è solo -cis, siccome riguarda fondamentalmente il diritto delle donne a determinare che cosa vogliono fare con i loro stessi corpi. Il transfemminismo dovrebbe aderire alle organizzazioni per la scelta riproduttiva e manifestare per il diritto di scelta. Una società che non rispetta il diritto delle donne a scegliere sulla gravidanza, non sarà mai propensa a rispettare il nostro diritto di scelta degli interventi medici necessari per far sì che i nostri genitali siano coerenti con la nostra identità di genere. Se abbiamo paura di dover ottenere gli ormoni sottobanco o di dover viaggiare oltreoceano per un intervento di riassegnazione del sesso, dovremmo riuscire a identificarci con le donne che temono di dover tornare all’insicurezza degli aborti illegali.

Inoltre, il transfemminismo dovrebbe imparare dal movimento per la salute delle donne. La ricerca dedicata a questioni di salute di particolare interesse per le donne, come il cancro al seno, non è nata dal nulla. È stato attraverso un attivismo vigoroso e l’autoeducazione collettiva, che queste questioni sono arrivate ad essere prese seriamente. Prendendo atto del fatto che la comunità medica ha storicamente fallito nel far fronte in modo adeguato alle preoccupazioni delle donne sulla propria salute, il transfemminismo non può aspettarsi che le persone in posizione di potere prendano seriamente le preoccupazioni in termini di salute delle donne trans. Questo è il motivo per cui dobbiamo partecipare al movimento per la salute delle donne ed espanderlo.

Richiamare le analogie con il movimento per la salute delle donne risolve anche il dilemma strategico sulla patologizzazione dell’identità di genere. Per molti anni le persone trans hanno discusso tra di loro se fosse opportuno o meno richiedere la de-patologizzazione del disturbo dell’identità di genere, che è attualmente un prerequisito per alcuni trattamenti medici. È stata una questione che ci ha divise perché la patologizzazione del disturbo dell’identità di genere permette ad alcune di noi di sottoporsi a interventi medici, anche se, al tempo stesso, ci stigmatizza e nega la nostra autodeterminazione. Prima delle critiche femministe alla medicina moderna, i corpi femminili venivano considerati “anormali” dallo standard maschio-centrico del sistema medico che aveva come risultato la patologizzazione di esperienze femminili del tutto ordinarie come mestruazioni, gravidanza e menopausa; è stato il movimento per la salute delle donne che ha costretto la comunità medica ad accettare il fatto che sono parte delle comuni esperienze umane. Il transfemminismo insiste sul fatto che la transessualità non è una malattia o un disordine, ma fa parte dell’ampio spettro dell’esperienza umana comune, tanto quanto la gravidanza. Non è quindi contraddittorio chiedere che il trattamento medico per le persone trans sia reso più accessibile e, allo stesso tempo, de-patologizzare il “disturbo dell’identità di genere”.

È ora di agire

Nonostante abbiamo sperimentato il rifiuto più del dovuto sia all’interno che all’esterno delle comunità femministe, coloro che sono rimast* i/le nostr* miglior* alleat* sono comunque stat* femministe, lesbiche e altre soggettività queer. Il transfemminismo afferma che è inutile discutere, a livello intellettuale, su chi è e su chi non è inclus* nella categoria “donne”: dobbiamo agire, ora, e costruire alleanze.

Ogni giorno subiamo molestie, discriminazioni, aggressioni e abusi. Non conta quanto bene impariamo a passare per donne, l’invisibilità sociale dell’esistenza trans non ci proteggerà quando tutte le donne saranno sotto attacco. Non riusciremo mai a vincere se giochiamo secondo le regole sociali che normano come le donne dovrebbero comportarsi, abbiamo bisogno del femminismo tanto quanto le donne non-trans, se non di più. Come transfemministe siamo orgogliose della tradizione delle nostre antenate femministe e portiamo avanti la loro lotta nelle nostre vite.

Il transfemminismo è convinto che una società che rispetta le identità cross-gender coincida con una società che tratta equamente le persone di tutti i generi; la nostra esistenza, infatti, viene vista come un problema solo quando si dà una rigida gerarchia di genere. Con questa convinzione, è essenziale per la nostra sopravvivenza e dignità reclamare il nostro posto nel femminismo, non in maniera minacciosa o invasiva, ma in modi amichevoli e cooperativi. Il sospetto e il rifiuto iniziali da parte di alcune istituzioni femministe esistenti sono normali, soprattutto se si tiene conto che queste ultime sono state tradite tantissime volte da uomini auto definitisi “pro-femministe”. È attraverso la nostra perseveranza e impegno ad agire che il transfemminismo trasformerà la portata del femminismo in una visione del mondo più inclusiva.

Cogliere un’onda: rivendicare il femminismo nel ventunesimo secolo

Ho scritto il Manifesto Transfemminista nell’estate del 2000, soltanto un paio di mesi dopo essermi trasferita a Portland, aver incontrato comunità transgender e transessuali e iniziato a esplorare le intersezioni tra il femminismo e le esperienze trans. Suppongo di essere stat* ingenu*, ma inizialmente sono rimast* sorpres* quando ho scoperto che circolavano sentimenti anti-trans tra alcune femministe e sentimenti anti-femministi tra certe persone trans, perché le persone trans che avevo conosciuto erano il tipo di persone che rispetto sia come femministe che come attivist* trans. Ho scritto questo manifesto con l’obiettivo di elaborare una teoria femminista che fosse decisamente pro-trans e un discorso trans che fosse radicato nel femminismo. Penso di esserci riuscit*.

Tuttavia, questo manifesto presenta dei problemi che mi rendono in parte insoddisfatt*. Nelle varie revisioni che ho fatto nel corso degli ultimi due anni ho sistemato alcuni dei problemi minori, ma rimangono intatti problemi più grandi che non possono essere corretti senza riscrivere l’intero pezzo. Penso, però, sia importante spiegare quali siano questi problemi e perché si siano insinuati nel manifesto. Due di questi,  di più ampia portata, sono:

– L’attenzione eccessiva dedicata alle persone trans MtF a scapito dei trans FtM e di altre persone che si identificano come transgender o genderqueer (N.d.T. genderqueer indica una persona con un’identità di genere che non si riconosce nell’opposizione binaria maschio/femmina, ma ritiene che l’identità di genere sia l’espressione di uno spettro infinito di possibilità). Mi assumo la piena responsabilità del fatto che questo manifesto sia fortemente focalizzato su questioni che riguardano le persone transessuali MtF, mentre trascura difficoltà specifiche a cui vanno incontro le persone trans FtM o altre persone transgender e genderqueer. Al tempo in cui ho scritto questo articolo, avvertivo l’esigenza di limitare il focus del femminismo alle “donne” perché temevo che un’estensione del campo avrebbe permesso a uomini non-trans di sfruttare il femminismo per i loro interessi, come effettivamente fa qualche gruppo in favore dei cosiddetti diritti degli uomini. Anche se continuo a pensare che questa paura sia giustificata, adesso ho realizzato che privilegiare le questioni delle donne transessuali a spese delle altre persone trans e genderqueer è stato un errore.

– Un’analisi intersezionale insufficiente. Il manifesto si concentra prevalentemente sull’intersezione tra sessismo e oppressione delle persone trans, tuttavia non si occupa di come questi temi si intersechino con altre ingiustizie sociali. Per esempio, il manifesto fa riferimento alle critiche mosse dalle donne non bianche al razzismo delle donne bianche nel contesto del movimento femminista, ma non si sofferma su come le donne trans possano diventare alleate delle donne non bianche. Anche qui, ho esitato a spostare l’attenzione dal sessismo perché nel periodo in cui stavo scrivendo questo manifesto temevo di ricevere critiche da parte di altre femministe (non-trans). Ora, invece, concordo con l’idea che una teoria femminista che non fa i conti con il razzismo, il classismo, l’abilismo, ecc. che circolano tra le donne è incompleta e riconosco, quindi, che questo manifesto è incompleto.

Sebbene si tratti di critiche molto diverse tra loro, entrambe hanno la stessa origine: l’idea che le femministe debbano occuparsi principalmente – talvolta esclusivamente – dell’oppressione che ogni donna sperimenta. In questa concezione, problematiche come il razzismo e il classismo possono essere affrontate solamente quando farlo favorisce la battaglia contro il patriarcato – per esempio, parlando del razzismo degli uomini bianchi nei confronti delle donne non bianche – ma non quando farlo è visto come “divisivo” per il movimento delle donne, o piuttosto, quando ne svela le divisioni nascoste. Questo manifesto in larga misura si situa all’interno di tale traiettoria senza rimetterne in discussione le implicazioni razziste, classiste, ecc., e, per questo, merita di essere criticato. Ora mi sono res* conto che quando ho scritto il manifesto non mi sentivo sald* a sufficienza nelle mie stesse convinzioni per assemblare più questioni e ho ceduto alla paura di venire criticat* per aver annacquato il femminismo. È stato attraverso la solidarietà maturata negli ultimi due anni con altre potenti donne non bianche, donne della classe operaia e donne con disabilità, che ho potuto liberarmi da questo timore.

Ho pensato di scrivere un nuovo manifesto per affrontare queste e altre intuizioni che ho avuto dal 2000 ad oggi, con la sicurezza e la chiarezza che ho ora, ma per il momento lascio il compito ad altr*. Se ne scriverete uno, per favore mandatemelo.

Bonus: femminismo razzista alla National Women’s Studies Association

Emi Koyama

28 giugno 2008

A marzo mi è stato chiesto di intervenire al “tribute panel” dedicato al femminismo nero e in particolare alla vita e alle opere di Audre Lorde nell’ambito della National Women’s Studies Association. Mi sentivo onorata – e anche piuttosto intimorita – al pensiero di essere stata scelta per parlare dell’importanza delle opere di Audre Lorde nella mia vita e nel movimento femminista in generale. Erano state invitate a partecipare anche Kaila Adia Story (Università di Louisville) e Melinda L. de Jesus (California College of the Arts).

Sono entrata per la prima volta in contatto con i testi di Audre durante un corso di Women’s Studies al mio secondo anno di college. Per tutto un semestre, le/gli studenti dovevano leggere diversi articoli ogni settimana, per poi discuterne in classe e scrivere alcune riflessioni legate a tali letture. Ogni volta, settimana dopo settimana, la maggior parte del materiale assegnato era scritto da donne bianche, borghesi ed eterosessuali (se non, a volte, “lesbiche politiche”) e per me era difficile identificarmi nella gran parte delle questioni che venivano discusse. Continuavo a scrivere che non mi rivedevo nella lettura, ma non mi rendevo conto che questo avesse a che fare con la selezione del materiale. Mi sentivo in colpa per la mia reazione così “negativa” al femminismo e alle femministe.

Verso la fine del semestre una settimana venne dedicata alle opere di “donne di colore” [N.d.T. Utilizziamo qui ‘donne di colore’ perché riteniamo che il titolo originario della settimana fosse questo; nel testo, invece, abbiamo ritenuto di utilizzare ‘non bianche’ per definire, in modo non offensivo, le varie soggettività che non si rispecchiano nella bianchezza né nella dicotomia bianco/nero] (proprio così, un’intera settimana, evviva!). Se ricordo bene, si trattava di alcuni brani dall’antologia This Bridge Called My Back (la dichiarazione del Combahee River Collective e, credo, uno dei pezzi di Cherrie Moraga) e Sorella Outsider di Audre Lorde. Questi erano articoli con i quali, per la prima volta, riuscivo a entrare in connessione. Davano voce ai miei sentimenti di alienazione e frustrazione, che prima non riuscivo a inquadrare fino in fondo. E sebbene fosse solo una settimana, su un intero semestre, e si trattasse probabilmente della peggior forma di concessione esclusivamente simbolica all’interno della disciplina, questi articoli hanno fatto nascere la mia dedizione al femminismo e ai Women’s Studies, dedizione che dura tutt’oggi. Se non fosse stato per Sorella outsider, non so se oggi sarei una femminista.

Eppure una settimana non è stata sufficiente per acquisire la sicurezza e la forza che mi servivano per dire la mia quando mi ritrovavo circondata da femministe bianche e borghesi che sembravano ignorare quanto le loro azioni e le loro parole, razziste e classiste, causassero dolore e tristezza. Non era sufficiente leggere le opere di Audre e di altre come lei; quello di cui davvero avevo bisogno era costruirmi attorno un sistema di supporto, con persone di ogni etnia e genere che avessero a cuore la giustizia in ogni ambito della società e che si impegnassero a responsabilizzarsi a vicenda in modo empatico.

Nell’estate del 2000 mi sono trasferita a Portland, nell’Oregon (la prima metropoli in cui ho trascorso la mia vita adulta). Il giorno successivo al mio arrivo ho conosciuto Diana Courvant, una donna bianca transessuale che aveva fondato il Survivor Project per rispondere alle necessità delle persone trans e intersex sopravvissute a violenza domestica e sessuale. Essendo io stessa una sopravvissuta con una storia complessa per quanto riguarda genere e identità sessuali, mi sono unita subito al progetto.

Eppure mano a mano che conoscevo Diana, scoprivo che non tutte le femministe accettavano le persone trans. Al contrario, per un periodo lei stessa si era trovata in mezzo a una disputa da incubo all’interno della comunità lesbica femminista di Portland, di cui poi aveva parlato nel saggio “Speaking of Privilege” (in “This Bridge We Call Home”, curato da Gloria Anzaldua e AnaLouise Keating). Per farla breve: Diana era stata invitata a un ritiro femminista per sole donne nella foresta dell’Oregon, che, dopo che lei aveva accettato di partecipare, aveva istituito una politica che impediva l’accesso a persone dotate di pene, escludendo così le donne transessuali che non si erano sottoposte alla riassegnazione chirurgica del sesso. Diana aveva quindi declinato l’invito, organizzando però un workshop su tematiche trans appena fuori dal perimetro, con l’aiuto di alleate non trans. Il workshop aveva avuto successo, ma si era sparsa la voce che poco dopo lei si fosse introdotta nel perimetro del ritiro e si fosse denudata. La voce era ovviamente falsa, ma estremamente offensiva.

Proprio in reazione a questo clima generale scrissi il “Manifesto Transfemminista”, più tardi pubblicato nell’antologia Catching a Wave: Reclaiming Feminism for the 21st Century, curato da Rory Dicker e Alison Piepmeier. Il manifesto affrontava vari temi femministi, come la contraccezione, la salute sessuale e riproduttiva e la violenza contro le donne, e discute di come le donne transessuali condividano molte delle preoccupazioni delle altre donne. Volevo scrivere una teoria femminista che contrastasse l’argomentazione secondo la quale le donne transessuali sono così diverse dalle altre donne, che non c’è posto per loro nel movimento femminista (o che il femminismo sia inutile per le donne transessuali). Volevo fornire delle argomentazioni facili da ripetere, in modo che le femministe pro-trans potessero usarle per combattere l’ipocrisia e le falsità che si dispiegavano contro le donne transessuali. E in questo senso, penso che il “Manifesto” sia stato un successo.

Tuttavia, il Manifesto presentava degli aspetti disturbanti. Nello sforzo di creare un’alleanza fra donne transessuali e donne cisgender, il saggio trascurava le lotte degli uomini transessuali e delle altre persone transgender e genderqueer che non si identificano come “donne”, eccetto quei casi in cui era utile includerle. Il testo mancava anche di un’adeguata analisi intersezionale: ovvero, di come opinioni e oppressioni transfobiche si uniscano e complichino altre oppressioni oltre al sessismo – inclusi, soprattutto, razzismo e classismo. Tuttavia, di fatto, il saggio si ispirava alle opere di donne non bianche per argomentare determinate posizioni — come per esempio quella per cui la specificità delle esperienze delle donne transessuali non dovrebbe essere ragione di esclusione, in quanto questo presupporrebbe l’esistenza di un’unica esperienza femminile universale, cosa che chiaramente non esiste – senza però contribuire alla riflessione su come l’inclusione di soggettività trans aiuti a combattere il razzismo e altre forme di oppressione.

Il fatto è che, quando scrissi questo saggio, mi ero trasferita da soli tre mesi in una nuova città, e non ero ancora completamente consapevole del disagio che mi provocava il femminismo bianco che riempiva nove delle dieci settimane del corso Introduction to Women’s Studies. Al tempo stesso, non mi sentivo abbastanza sicura di me per mettere in discussione l’idea che il femminismo significasse semplicemente difendere i diritti delle donne e combattere il sessismo – e nient’altro. In breve, quella che scrissi era una versione del femminismo bianco, modificata quel tanto che bastava per includere le donne transessuali. Allora mi sembrava l’unico modo sicuro di elaborare una teoria femminista in grado di migliorare la posizione delle donne transessuali all’interno del femminismo. Gli anni seguenti li passai a incontrare sempre più persone che avevano come obiettivo comune la giustizia per tutte le soggettività, così come a sviluppare la consapevolezza necessaria a “trasformare il silenzio in linguaggio e azione”, utilizzando le famose parole di Audre. Nel paragrafo seguente parlerò proprio di uno di questi silenzi che è stato trasformato in linguaggio e azione.

L’invito a parlare durante il panel istituito per onorare l’eredità di Audre Lorde recitava: “La NWSA (National Women’s Studies Association ) ha il piacere di offrirle la partecipazione gratuita alla conferenza per ringraziarla per il suo tempo e la sua competenza. Sfortunatamente, tuttavia, l’associazione ha un budget limitato e non potrà coprire le sue spese di viaggio”. Io, però, non sono un’accademica, e senza un contratto stabile non posso permettermi di spendere centinaia di dollari solo per intervenire a una conferenza. Risposi spiegando la mia situazione e chiedendo un contributo per poter partecipare alla conferenza, ricevendo nuovamente in risposta dalla direttrice esecutiva: “La NWSA può pagarle la quota di iscrizione e registrazione; ovviamente ci piacerebbe poter fare di più”.

Cominciai a parlarne con alcune componenti del Direttivo dell’associazione, che conoscevo, e chiesi loro di farmi da portavoce; inviarono delle e-mail alla direttrice, ma la risposta fu identica. Inoltre venni a sapere che l’anno precedente la NWSA aveva invitato un’altra attivista che stimo moltissimo, impegnata da tempo sui temi della giustizia sociale per le persone queer, la quale dovette declinare l’invito a causa della indisponibilità dell’organizzazione di coprire le spese di viaggio.

Avrei potuto declinare anch’io l’invito, ma a quel punto la NWSA avrebbe continuato a tentare di sfruttare, di anno in anno, gli/le attiviste mentre fingeva di onorare e supportare il loro lavoro senza  nessuna contestazione. Decisi  di fare qualcosa di diverso: scrissi alla WMST-L (una mailing list internazionale di studi sulle donne con migliaia di iscritte), spiegando la situazione e chiedendo alle persone di scrivere alla NWSA per protestare contro questa prassi e donare un po’ di soldi affinché io potessi partecipare alla conferenza.

In pochi giorni ricevetti circa una dozzina di offerte di donazione e, a quanto pare, circa altrettante persone scrissero alla direttrice esecutiva della NSWA, anche persone del direttivo. Fra le più accanite sostenitrici c’erano la presidenta del Lesbian Caucus Lisa Burke, la co-presidenta del Women of Color Caucus Pat Washington e la rappresentante del Bisexual-Transgender Interest Group Joelle Ruby Ryan. A questo punto però la situazione divenne ridicola. A quanto pare, la direttrice esecutiva informò alcune delle mie sostenitrici che mi era già stata messa a disposizione una camera d’albergo a spese della NWSA, insinuando implicitamente che ero stata disonesta o che stavo architettando un piano per diffamare delle studiose femministe benintenzionate. Pensando che la direttrice avesse cambiato idea e avesse deciso di contribuire almeno a parte delle spese, ricontattai la NWSA solo per sentirmi rispondere che nulla era cambiato e che le spese erano ancora a mio carico (seppur con l’aiuto di molte sostenitrici).

Ricevetti donazioni sufficienti per coprire la maggior parte delle spese, quindi volai a Cincinnati per partecipare al tribute panel. Nel mio discorso parlai di come avevo scoperto l’opera di Audre Lorde, quanto fosse stata importante per me, ma anche di quanto non fosse sufficiente leggere i suoi libri per sentirsi davvero emancipate. Lessi la postfazione che scrissi per il “Manifesto transfemminista” e raccontai come quel pezzo riflettesse un momento della mia vita in cui stavo negoziando cautamente la mia posizione all’interno del femminismo. Parlai poi del panel stesso, e di quanto fossi profondamente combattuta sul partecipare o meno a una celebrazione di Audre Lorde e del suo lavoro, dal momento che la struttura stessa del forum tradiva la sua eredità.

Dissi che mi chiedevo, se Audre fosse stata ancora qui, se avrebbe accettato l’invito a parlare a questa conferenza a condizioni così umilianti. Audre non lo meritava, e questo tribute panel non era il modo più adatto di onorare e commemorare il suo contributo agli studi delle donne. Dissi anche che una delle ragioni per cui mi sentivo così indecisa se parlare in questa occasione, era dovuta alla paura che la mia presenza alla conferenza potesse contribuire a legittimare ciò che era fondamentalmente illegittimo.

Audre stessa affrontò circostanze simili nel 1979 quando fu invitata a parlare in occasione dell’“unico panel [della Seconda conferenza sul sesso, tenutasi  alla New York University] nel quale il contributo delle femministe e lesbiche nere fosse rappresentato” anche se accettò l’invito “mettendo in chiaro che avrebbe commentato articoli riguardanti il ruolo della differenza nella vita delle donne americane”, cosa che non sarebbe stata possibile “senza un contributo significativo da parte delle donne povere, delle donne nere e del Terzo Mondo e delle lesbiche”. Il suo discorso, intitolato “Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone”, incluso in Sister Outsider, è tanto famoso quanto poco compreso.

Quando Audre parlava degli “strumenti del padrone”, ciò a cui si riferiva era la riluttanza delle femministe bianche, etero e della classe media, a riconoscere le differenze esistenti tra le donne in base alle linee di razza, classe, sessualità, ecc. Poiché non riescono a cogliere la forza che può provenire dal riconoscimento delle differenze, non solo tra donne bianche e nere, ma anche tra donne nere – perché gli organizzatori non coinvolsero diverse donne non bianche, come se si aspettassero che Audre rappresentasse tutte le donne nere? – Lorde sostiene che molte femministe bianche siano complici del fatto che il patriarcato razzista e omofobico prosperi.

In un altro testo, anche questo parte di Sorella Outsider, Audre dichiarò che non avrebbe mai più parlato di razzismo alle donne bianche. Ovviamente non fu l’ultima volta che lo fece, ma non ho dubbi sul fatto che abbia combattuto spesso con la voglia di arrendersi. Parte della ragione per cui alla fine decisi di partecipare alla conferenza e di parlare al tributo è stata realizzare di trovarmi sulle spalle di Audre Lorde e delle sue contemporanee, molte delle quali sono ancora vive, anche se molte se ne sono andate. Il panel ha avuto grande successo e la discussione che ha coinvolto le relatrici e il pubblico è durata quasi tre ore, anche se inizialmente la durata prevista era di soli 75 minuti.

Nel corso dell’assemblea delle delegate il giorno successivo, Lisa Burke del Lesbian Caucus si fece avanti. La direttrice esecutiva le aveva promesso che si sarebbe “occupata” della mia situazione, il che significava che la NWSA mi avrebbe fornito almeno l’alloggio per la conferenza, cosa che in qualche modo non successe. La direttrice sostenne che l’NWSA in effetti aveva prenotato una stanza per me, pagata tramite il proprio conto, e accusò la sua assistente, una donna nera che non era presente nella stanza, del “problema di comunicazione”. Lisa protestò per questa ricerca di un capro espiatorio e chiese all’organizzazione di rimborsarmi le spese di alloggio e di presentare scuse ufficiali. Tutte le delegate votarono a favore della mozione. La risoluzione mi fee quasi sentire in colpa, in parte perché un’altra donna non bianca mi era stata messa contro ed era stata incolpata di tutto, e in parte perché il pensiero di una stanza da 170 dollari lasciata vuota per me era uno spreco enorme a cui non volevo pensare.

TRANS-FILOSOFIE DEI PASSAGGI E DEI FLUSSI

Filosofia dei passaggi e dei flussi verso un terzo spazio delle partecipate differenze e delle molteplicità o il terzo paradiso rappresentato da Pisotoletto

Dalle relazioni tra partecipate differenze (sottostanti  duali)della Candiotto  alle molteplicità deleuziane (apparentemente moniste)

 Un modo nuovo per intendere la “dualità” , la partecipazione tra idee e sensibili, la relazione di anima e corpo e la finalità della conoscenza filosofica. È di vitale importanza riuscire a pensare un oltrepassamento della concezione dualista che non si riduca a un monismo indifferenziato o a un immanentismo della presenza che nega ogni forma di trascendenza o trascendentale (linguaggi e visioni del mondo) : lo sforzo è cioè quello di pensare per questa filosofa la dualità senza dualismo.

Laura Candiotto (1981), dottore di ricerca, è assegnista di ricerca in Filosofi a Teoretica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con un progetto dedicato alla nozione di relazione.

 Studiosa di Platone e dell’ontologia greca, si occupa anche di metafisica ed epistemologia contemporanea, oltre che di pratiche filosofiche ispirate al metodo dialogico socratico. È autrice di Le vie della confutazione. I dialoghi socratici di Platone (Mimesis 2012) e di numerosi articoli scientifici rintracciabili in unive.academia.edu/LauraCandiotto

Con i contributi di: Beatriz Bossi, Luc Brisson, Laura Candiotto, Giovanni Casertano, Francesco Fronterotta, Salvatore Lavecchia, Arnaud Macé, Maurizio Migliori, Olivier Renaut, Emanuele Severino, Luigi Vero Tarca, Anca Vasiliu, Mario Vegetti.

Frammenti tratti da ‘senza dualismi’ di Laura Candiotto edizioni MIMESIS

‘Per superare il dualismo è necessario “aprire il cantiere della partecipazione” (p.129), soffermandosi sull’eidos matematico. O. Renaut porta in primo piano la funzione degli intermediari. A partire dal modello psicologico tripartito, lo studioso riprende il ruolo dello thymos, a metà tra desiderio e valutazione razionale: esso, mentre conferma il supposto dualismo, allo stesso tempo valorizza quanto è in posizione di collegamento. Questo tipo di posizione teorica apre il campo a uno studio della filosofia platonica come “filosofia dei passaggi” (p.143) che ponga attenzione allo sforzo di Platone di comporre il dualismi.

Sulla centralità della relazione punta l’attenzione L. Candiotto. Il superamento del dualismo può avvenire infatti solo riconoscendo come esso sia una forma di relazione tra differenti e non di separazione tra incomunicabili. In primo luogo Candiotto si sofferma sulla nozione di “partecipazione”: a differe

nza dei concetti di parousia (verità)e corismo(separazione), essa permette di mantenere il legame tra idee e tra idee e sensibili nei termini della differenza. C’è certamente un carattere asimmetrico tra i due, tuttavia “le idee hanno bisogno del sensibile per portare a termine il loro compito”: in questo sta la “natura generativa e trasformativa del bene” e la “pratica dell’ideale” (p.74). Tale pratica è svolta dalle figure di mediazione: il Demiurgo, il Bene, ma anche il filosofo dialettico. Essa è pratica spirituale (p.75), un lavoro dell’anima (p.79) e al filosofo spetta proprio il compito di cogliere l’unità della differenza e la differenza dell’unità. A tal proposito è decisivo il Sofista, dove Platone propone una visione dello heteron come espressione del metaxy(che sta in mezzo tra bellezza e bruttezza): la relazione connette attraverso la negazione invece di isolare nella separatezza.

Altro dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito metafisico contemporaneo.

Altro dialogo cardine è il Simposio, dove emerge il ruolo dell’eros. Queste figure platoniche dello “stare in mezzo” sono capaci di illuminare un’“ontologia ed epistemologia delle relazioni” (p.88) significativa anche per il dibattito metafisico contemporaneo-

— in modo da conservare solo il sostantivo “molteplicità”

Gilles Deleuze: Ma quello è un falso monismo.

La magica operazione che consiste nel proibire l’impiego degli aggettivi “uno” e

“multiplo”, in modo da conservare solo il sostantivo “molteplicità” … Tale

operazione rende conto dell’identità di monismo e pluralismo, e correla la vera fonte

del dualismo alla dualità stabilità tra i due aggettivi: uno e multiplo. Il terreno del

dualismo è sempre stato: ci sono cose che sono uno. Qui si torna sempre a Cartesio, perché oggi parliamo di Cartesio, cioè di Lacan. Dunque ci sono cose che sono

divisibili. Il dualismo non è definito dal due, ma dall’impiego dell’uno e del multiplo

come aggettivi. Ciò è vero già in Duns Scotus.

Così che, invece di usare l’uno e il multiplo come aggettivi, sostituiamo il sostantivo

“molteplicità”, nella forma: non c’è niente che sia uno, niente che sia multiplo, tutto è

molteplicità. In questo momento, si vede bene la forte identità di monismo e

pluralismo nella forma di un processo di immanenza che non può essere né

interessato – ed è ciò che i cinesi ci dicono nella loro saggezza sessuale – né

esasperato. Il processo di immanenza è anch’esso, cioè, una molteplicità che designa

un campo di immanenza popolato da una molteplicità.

Penso a questo libro sulla vita sessuale nell’antica Cina. Racconta una strana storia, in

fondo siamo tutti cinesi: nel Taoismo – varia a seconda delle età, ma in ogni caso – il

lettore è impressionato dalla gloria dell’uomo e della donna in esso … Ma questo non

è ciò che fa la differenza col pensiero occidentale, perché dal lato del pensiero

occidentale non funziona più intensamente; la differenza è altrove.

Ciò che fa la differenza è il modo in cui il desiderio è vissuto, totalmente differente:

non è correlato ad alcuna trascendenza, a nessuna mancanza, non è misurato da

nessun piacere e nemmeno è trasceso da alcun godimento, nella forma o nel mito di

un impossibile. Il desiderio si pone come puro processo. Concretamente, significa che

esso non è affatto l’orgasmo: il loro problema non è affatto quello occidentale, ossia

come emancipare la sessualità dalla genitalità. La questione dei cinesi è come estrarre

la sessualità dall’orgasmo. Così, a grandi linee, essi dicono: capite che, piacere o

orgasmo, questo non è il compimento del processo ma la sua interruzione oppure la

sua esasperazione, oppure le due assieme, il che è completamente deplorevole! Senza

dubbio, occorre che si arrivi, ma allora occorre percepire questi momenti di

sospensione come autentiche sospensioni che permettono al processo di ripartire.

Hanno una teoria dell’energia femminile e maschile, che consiste nel dire, grosso

modo: l’energia femminile è inesauribile, l’energia maschile è più fastidiosa perché è

esauribile. Il problema, in ogni caso, è che l’uomo prende qualcosa dall’energia

femminile inesauribile, o entrambi prendono qualcosa dall’altro. Come può

succedere?

I flussi dovranno … si tratta infatti di un pensiero in termini di flussi – il flusso

femminile, seguendo traiettorie ben determinate, sorge seguendo le linee del flusso

maschile, lungo la colonna vertebrale per arrivare al cervello, ed ecco il desiderio

nella sua immanenza come processo.

Si prende in prestito un flusso, si assorbe un

flusso, si definisce un puro campo di immanenza del desiderio, in relazione a cui

piacere, orgasmo, godimento si definiscono come sospensioni reali o interruzioni.

Vale a dire, nient’affatto come una soddisfazione del desiderio, ma al contrario

un’esasperazione del processo che fa uscire il desiderio dalla sua stessa immanenza,

dalla sua proprio produttività.

Tutto ciò ci interessa nella misura in cui, in tale

pensiero, il desiderio perde simultaneamente qualsiasi legame con la mancanza, col

piacere, l’orgasmo, col godimento. Il desiderio è concepito come produzione di un

flusso, esso definisce un campo d’immanenza, e un campo d’immanenza significa

una molteplicità in cui, effettivamente, qualunque divisione del soggetto in soggetto

d’enunciato e soggetto d’enunciazione risulta impossibile, laddove nella nostra

macchina girevole la cosa era molto semplice: il soggetto dell’enunciazione era il

soggetto del godimento impossibile, il soggetto dell’enunciato era il soggetto del

piacere e della ricerca del piacere, e il desiderio-mancanza era la divisione dei due.

Ciò vi dice fino a che punto, da Cartesio a Lacan, questo pensiero ripugnante del

cogito non è solo metafisica.

L’intera storia del desiderio – e ancora, è alla stessa maniera che Reich fallisce, nel

correlare il desiderio a un al di là, che sia quello della mancanza, del piacere, del

godimento, e nel porre il dualismo tra soggetto dell’enunciazione e soggetto

dell’enunciato. E non è un caso che sia la stessa operazione compiuta oggi da alcuni, i

lacaniani, ossia riportare qualunque enunciato al soggetto, che conseguentemente e

retroattivamente diventa il soggetto diviso in soggetto d’enunciazione e soggetto

d’enunciato. Ciò che è inscritto è il soggetto dell’enunciazione, che collega il

desiderio al godimento impossibile; il soggetto dell’enunciato, che collega il

desiderio al piacere; la divisione tra i due soggetti, che collega il desiderio alla

mancanza o castrazione. Sul piano della teoria, la produzione di enunciati riveste

perfettamente questa  corrotta teoria del desiderio, parola per parola.

È in tal senso che sostengo che pensare significa essere monisti, nella piena

apprensione dell’identità tra pensiero e processo: desiderio come costitutivo del

proprio campo di immanenza, vale a dire come costitutivo di molteplicità che lo

popolano. Ma tutto ciò può risultare oscuro, un campo monistico è certamente un campo abitato da molteplicità.

TRANS-POETICA

La poesia dell’impoetico “Trasumanar” di Pierpaolo Pasolini

Nota di Lucio Marini

Tra i libri di poesie “civile” del ‘900, Trasumanar e Organizzar è, a mio avviso, il più significativo, non tanto per (l’evidente) impegno “civile”, appunto, ma per la straordinaria carica innovativa, su più versanti, che Pasolini esprime in questa raccolta.

Un luogo comune della critica è che le ultime poesie di Pasolini, e dunque anche questa raccolta, siano segnati da una crisi, quasi di identità e di ruolo, del poeta.  E si indica in questa “fuga dalla letterarietà” (cito la nota  a firma R.G. dell’edizione Garzanti del 1976), una delle caratteristiche principali, dal punto di vista stilistico, dell’intera opera.  Tanto da vederla come un anticipo dei “modi e dello spirito provocatorio dei successivi interventi polemici” (si riferisce, credo, ai successivi saggi Lettere luterane e Scritti corsari) e quasi a latere di più importanti lavori in altri settori (il cinema ad esempio).  Peraltro, anche nella nota sopra citata, si conviene oltre, in verità senza molto entusiasmo, che il libro è indiscutibilmente un libro di poesia, nonostante la sua tentazione, per così dire, verso la prosa.  Ma non ci viene però spiegato perché e come, questo libro sia – e senza mezzi termini – un grande libro di poesia.

Se è vero che la poesia di Trasumanar segna una rottura, sia con le avanguardie, sia con l’iniziale terzina pasoliniana, è perché tale frattura è il risvolto di una frattura interiore fra il poeta e il suo tempo storico, che viene da lui avvertita e puntualmente tradotta in un verso adatto ad esprimerla.  Ne Le ceneri di Gramsci o L’usignolo della Chiesa Cattolica siamo di fronte a un Pasolini che, dentro la tradizione (sia stilistica che culturale e concettuale) e benché in forte dialettica con essa, cerca una nuova poesia capace di esprimere un sogno civile.  Il verso dunque, pur lontano dal formalismo tradizionale, sta dentro la tradizione anche nella forma, perché evidentemente il poeta la ritiene adatta ad esprimere un rinnovamento sia artistico che civile.

In Trasumanar le cose sono diverse.  Ed è vero che la cocente delusione politica e civile di Pasolini (espresse nei suoi corsivi sulla stampa, raccolti poi in volume – Il caos, 1979) segna il libro, ma è anche vero che Pasolini non abbandona la tradizione e che, anzi, Trasumanar è forse il suo libro più vicino alla tradizione.  E per far questo egli abbandona, nella poesia, soltanto le convenzioni tradizionali (quelle che si esprimono nel verso fonoprosodicamente “corretto”), ma non certo la sua sostanza, l’afflato, le sue ragioni più profonde, in una sorta di restauro, di disincrostamento da tutte quelle ragioni che poco hanno a che fare con essa.  Che cos’è il verso, infatti, se non convenzione?  qualcosa che si è sedimentato nel tempo ed ha assunto una forma che, con discutibili trasformismi, si è imposta essa stessa come essenza della poesia?  E se il verso è convenzione, cosa impedisce al poeta di esprimere un suo verso? La poesia, sembra dire Pasolini, con c’entra nulla con questa incursione dell’intellettualistico, dell’estetico, del calcolo, del gioco artigiano nell’ispirazione (la forma più banale della poiesis, quella che ha offerto il destro a Platone per negare alla poesia lo statuto di manifestazione originale di pensiero, o ad Aristotele per relegarla a un ruolo mimetico della realtà).  La poesia invece è segno dell’uomo, è un suo individuale atto di libertà che si impone sopra qualsiasi regola o convenzione: è atto di libertà e pertanto non può essere costretta dentro un canone.  La poesia è, per l’uomo, il respiro del suo profondo, il luogo della sua verità che rifiuta qualsiasi collocazione o convenzione.  Ed è in questo luogo soltanto che è possibile riscattarsi dalla massificazione.  Siamo quindi di fronte, civilmente, alla rivolta individuale del poeta contro il sistema – in questo caso letteraria -, pur senza abbandonare – come in un certo senso fecero le avanguardie – un dialogo serrato e critico con il sistema stesso.  Anche qui, dunque, siamo dentro una tradizione, che è la tradizione dell’umano minacciato dal meccanismo massificante.  Ed è qui che viene messa a nudo in tutta la sua paradossalità, la degenerazione della tradizione, e nello stesso tempo si tenta in recupero delle sue radici autentiche.  Pasolini rilancia le radici dell’umanesimo contro la degenerazione dell’umanesimo, così come Nietzsche smaschera le mistificazione dell’umano troppo umano.  E come non vedere, in questa luce, l’evidente parentela con la grande poesia – umanistica, appunto – degli epici e dei tragici greci?  quel gusto di sondare i nodi più profondi e più scomodi della convivenza e dell’esistenza stessa, che è la nota costante da Eschilo, o anche da Omero, sino alla fine della grande stagione tragica?  Pasolini non fa altro che riscrivere quelle tragedie e quei poemi, in un linguaggio che è figlio del suo tempo, raccontando la tragedia del non-senso, in dialettica con la degenerazione e la banalizzazione che il nostro tempo ha fatto dell’arte.  Se infatti lo spirito della grecità e quello di costruire, leggendo gli avvenimenti e i fatti, il significato della convivenza, anche attraverso un significato di ordine e regolarità espressa nel verso, Pasolini recupera questo ordine rapportandolo al respiro individuale, unico possibile (e originario) punto di partenza per ricostruire un mondo di senso, da quando questo ordine e questa regolarità, da simbolo o significante, sono diventati il significato stesso, privo di riferimenti con il mondo.  Mentre la poesia greca costruisce la tradizione poetica, Pasolini la decostruisce, ma non è questa un’operazione anti-poetica.  L’impoetico, se mai, sta nel voler riproporre in modo esasperato una poesia che non ha più nulla da dire, o una poesia che ha perduto il suo centro ed è diventata soltanto uno strumento, una disciplina che in qualche modo deve servire uno scopo o un’ideologia (ciò che egli chiama zdanovismo).  E in questo contesto posso essere d’accordo con chi sostiene che egli rifiuti, nell’ultima parte della sua vita, la poesia, e non creda più in essa (ma quale poesia?).  Egli stesso infatti dà adito a questo equivoco, quando scrive che la poesia è inutile (infatti, la vera poesia, non è utile a nessuno, perché non è un bene di produzione o di consumo, ma un bene e basta – è quindi uno stato, un essere, un fatto, un gesto, come respirare).  L’utilità ne sancirebbe dunque la natura impoetica, il suo asservimento, la sua metabolizzazione in un sistema, fatto per la massa e non per l’uomo libero.

Trasumanar e organizzar non è dunque un libro contro la poesia, un’opera nella quale Pasolini esprime la sua crisi poetica.  E’ invece un libro da rivisitare, per le giovani generazioni di poeti, non per una qual “grandezza” o anche originalità di stile, ma per il semplice fatto che non poteva essere scritto in altro modo che in quello.  Se Pasolini lo avesse fatto, avrebbe tradito se stesso e non solo la poesia, perché di lui (come di pochi) si può scrivere, senza timore di sbagliare, che vi è perfetta coincidenza fra vita e poesia, che “poesia” e “identità” sono la stessa cosa.  Una mente come la sua, non poteva più permettersi di scrivere poesia come la scrisse in precedenza.  Troverei infatti singolare che l’autore de Il caos o degli Scritti corsari, avesse potuto scrivere L’enigma di Pio XII in terzine, magari a rima alternata e con metro dantesco (e, non dimentichiamolo, quello stile fu la rivoluzione ai tempi di Dante): ne sarebbe uscito un impaccio, una masturbazione intellettuale, una farsesca prostituzione di ogni suo convincimento umano e artistico.

 Trasumanar e organizzar pone, nel contempo e tra le molte questioni, una riflessione sul rapporto fra poesia e ideologia, forse non più così evidente oggi (non che non lo sia: è che sono cambiate le ideologie, sono diventate più sfuggenti, più striscianti e per questo più insidiose).  Le poesie della raccolta infatti sono scritte, all’incirca, negli anni che corrono dal 1965 al 1971.  In quella temperie culturale, tutto veniva ideologizzato, e l’arte non fu risparmiata a questo scempio (ce ne ricordiamo molto bene, anche se eravamo allora molto giovani, noi sui 45 anni più o meno: anche un cucchiaio di minestra assumeva un aspetto ideologico e doveva essere “spiegato” in riferimento a qualche massimo sistema).  Persino Pasolini stesso, anche se raramente, è stato tentato dall’ideologia (ho in mente alcune interviste rilasciate alla televisione) ma si vedeva che questo suo cedere all’ideologia era l’espediente di parlare a nuora perché suocera intenda, cioè di usare il linguaggio dell’ideologia per poter prendere a cornate coloro che così ragionavano (non ultimi i “big” del PCI): usava quindi il solo codice ad essi comprensibile, appunto per farsi capire.  Pasolini si difende dall’ideologia esercitando in modo esasperato, come pochi intellettuali del suo tempo, la facoltà della critica, che è uno strumento del filosofo più che del poeta, anche se egli la esercitò ovviamente come artista (che non cerca i fondamenti delle sue convinzioni, ma le esprime “a pelle”, a differenza del filosofo che cerca una certa “evidenza” sulla quale appoggiarsi).  Ed in questo ruolo di artista-critico o artista-che-critica, egli costruisce la sua personalità, la coesione della sua identità.  Non dunque l’artista che sogna, l’artista che celebra, l’artista che denuncia o che soffre o che piange, ma l’artista che critica, con atteggiamento intrusivo e non passivo.  Non è soltanto, il suo, un ribellarsi a parole, ma un ribellarsi eversivo anche se, ovviamente, non violento (i mass media infatti ci hanno indotto a temere questa parola, associandola tout court a fatti criminali, mentre, in sé, non ha questo valore ideologicamente attribuito– il contrario dell’eversione è infatti, è la conservazione, ma di quale “ordine”?).

Pasolini vive in modo appassionato e a tal punto questo criticismo, che lo sente da poeta.  La poesia di Transumanar infatti, è un raro esempio di come il pensiero possa diventare poesia, quando la passione lo infiamma o quando l’ironia cambia il segno di ciò che, detto in altro modo, esprimerebbe solo enfasi, retorica, assolo di trombone.  Trasumanar  è prima di tutto un libro appassionato, che in questa passione tutto consuma, che il lei risucchia anche le sottigliezze del ragionamento, le riprese degli avvenimenti civili e politici, i commenti, ecc.  Per questo riesce ad essere un libro di poesia, laddove si rasenta (secondo una visione formalmente tradizionale della poesia) la prosa.  In questa passione che tutto risucchia e ritempra come il crogiolo di un altoforno, la fa da padrona la poesia, ossia la visione im-mediata del mondo che l’artista ci propone.

E non è vero che Pasolini, come è stato scritto, abbandona anche il “tono” della poesia.  C’è invece un tono, ed è evidentissimo, soltanto se ci si metta in questa prospettiva, di leggere con passione ciò che un linguaggio apparentemente prosastico grida con passione.  Ho scritto sopra che egli non poteva scrivere in altro modo che in quello: ed è proprio nel diverso “tono” di queste liriche che si giustifica l’affermazione.  Pasolini evita il tono nasale della lirica tradizionale, evita i falsetti o gli scarponi di certi sperimentalismi o avanguardismi, evita retoriche o contro-retoriche, semplicemente perché non gli sono congeniali, o non sono adatti al suo sentire.  Ma soprattutto non sono congeniali a una lirica che intende fortemente cercare il “Tu” del colloquio per esporre delle ragioni, convincere, toccare nel segno.  Ecco allora il senso questo tono pacato, quasi dimesso e quotidiano, accuratamente lontano da ogni artificio retorico codificato; “democratico”, per così dire, nel senso che ha per obiettivo il coinvolgimento del lettore in un dialogo che lo vuole parte attiva.  Per scrivere la sua poesia civile (o meglio: per salvare la sua poesia dall’insignificanza), l’artista ha inventato un nuovo artificio retorico, che è quello di evitare quanto più possibile gli artifici retorici.  Ed è proprio questo insistente rivolo d’acqua di accenti pacati e colloquianti che si insinua e scava una sua breccia nella sensibilità del lettore.  Possiamo dire che sia questa un’operazione anti-letteraria?  Dipende da cosa si intenda per “letteraria”: le ambivalenze e i paradossi stanno nel termine stesso.  Dipende se per “letteratura” intendiamo solo quella canonica dei “professori” o qualcosa di vivo, incontenibile e inafferrabile e dunque anche non classificabile.  A me pare che Pasolini, al di là di tutto questo, sia uno fra i poeti più “letterati” della seconda metà del secolo; ma non certo un “professore”.

E qui bisogna stare attenti anche a non dare troppo credito alle dichiarazioni di Pasolini stesso che, da gran narciso qual era, scriveva sornione: “e se qualche verso mi riesce passabilmente / è per semplice abitudine” (e ovviamente, questa ed altre provocazioni, devono a mio avviso essere collocate nella giusta prospettiva, di come si intende l’inutilità della poesia e che cosa davvero significhi “verso”).  Ecco dunque che il cerchio si chiude e, quasi paradossalmente, il Pasolini che “ricusa” la poesia diventa l’estremo difensore delle sue ragioni più profonde.  Il tradimento della poesia è infatti l’ideologia, l’operazione dubbia di tradurre in versi (gli zdanovisti) una visione ideologica o filosofica della realtà, un pensiero che vuole “spiegare” il mondo anziché viverlo, agirlo con l’innocenza e l’immediatezza dell’artista.

Trasumanar e organizzar è dunque un libro più che mai vivo e attuale, dopo trent’anni dalla sua prima apparizione (1971), un libro che non cessa di insegnare e che può essere un buon punto di partenza, anche contro le ideologie (anche in poesia, anche in poesia…), ora più di allora nascoste e difficili da smascherare.  E per la poesia, in qualunque forma si manifesti.

TRANS PREFISSO DI MOVIMENTO E DI TRANSITO

trans- [dal lat. trans, trans- «al di là, attraverso»; v. tra- e tras-]. – Prefisso che indica passaggio oltre un termine, attraversamento, mutamento da una condizione a un’altra, ecc.; in parole del linguaggio comune è ant., sostituito sempre nell’uso moderno da tras- (v.): transportare (= trasportare); transformare (= trasformare), ecc.; si conserva in alcune parole del linguaggio dotto, scient. o tecn., derivate dal lat., il cui secondo elemento comincia per vocale: transazione, transigere, trànsito, transizione, ecc. Serve anche a formare parole e nomi nuovi, soprattutto del linguaggio dotto, scient. o tecn.: in geografia, col sign. di «al di là», come in Transgiordania e in transdanubiano, o con quello di «attraverso», in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade, ferrovie, ecc.): transaustraliano, transatlantico, transiberiano, transpolare. In partic., nella terminologia scient., può indicare superamento di un termine (transfinito), attraversamento di un corpo,

scambio, spostamento; in medicina indica per lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale metilico per le transmetilasi. Talora è peraltro usato anche per la formazione di composti più effimeri; per es., nel linguaggio giornalistico, si parla spesso di schieramenti o movimenti transpartitici, i cui rappresentanti, di estrazione politica diversa, superando le normali divisioni fra partiti, si propongono come forza nuova e riformatrice. ◆ I rinvii da forme ant. con trans- a forme moderne con tras- si fanno soltanto in alcuni casi, quando le forme con trans- hanno qualche rilievo particolare.

transindividuale agg. Che attraversa l’individuo, superandolo. ◆ Per la filosofia cinese, al contrario, il soggetto non è né attivo né passivo: l’azione trasformativa passa attraverso di lui, è transindividuale. (Remo Bodei, Corriere della sera, 14 aprile 1999, p. 35, Terza pagina) • Una quantità sempre maggiore di contenuti di vita si spersonalizza e viene oggettivata, non solo perché detti contenuti si spogliano di valori soggettivi e vissuti psicologici, ma perché, nella forma oggettivata che assumono e nella relazione di scambio in cui si immettono, diventano «transindividuali», ed entrano in un mondo dove è possibile appropriarsene senza lotta e reciproca oppressione. (Umberto Galimberti, Repubblica, 11 giugno 2002, p. 41, Cultura).
Derivato dall’agg. individuale con l’aggiunta del prefisso trans-.
Già attestato nella Repubblica del 15 marzo 1992, p. 36, Cultura (Alfredo Giuliani).

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Prefissi

Prefisso Significato Esempi
tra- Attraverso trafiggere, tramontana, traforo
tra- al di trascrivere, traballare, traboccare
trans- oltre, al di , attraverso transcodifica, transalpino
… ⇒ tras- oltre, al di , attraverso traslocare, trasmettere, trasmodare, trasmutazione

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Definizioni del prefisso trans-

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prefisso di parole composte derivate dal latino o di formazione moderna, dal lat. tra¯ns ‘al di là, oltre; attraverso’; indica il passare oltre o attraverso qualcosa, quindi da un punto a un altro e, figurato, da una condizione a un’altra. e’ presente nella forma antica o antiquata di parole che nell’uso moderno presentano la variante tras- (transporto – trasporto), sempre quando il secondo elemento comincia per vocale (transatlantico, transalpino) e in molti composti della terminologia scientifica o dotta (transcodificazione, transfluenza) [Vedi >>> tra-].

transumare v. intr. [dal fr. transhumer, comp. di trans- «trans-» e lat. humus «terra»] (aus. avere o essere). – Spostarsi stagionalmente secondo le consuetudini della transumanza. ◆ Part. pres. transumante, anche come agg.: greggi transumanti.

Per informazioni su attività di Comunimappe – libera comune università pluriversità bolognina.

www. comunimappe.org

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