IL GIOCO DEL MONOPOLI E QUELLO DELLA REALTA’

                                                                       
Tutti conoscono il gioco del Monopoli, gioco ritenuto con qualche approssimazione ispirato alle regole del capitalismo. Ma definire cosa sia il capitalismo non è cosa semplice, forse è possibile sintetizzarlo nella formula denaro – merce – denaro, il che vuol dire che comprando una merce col mio denaro ne ricavo una quantità maggiore nel momento in cui rivendo quella merce. C’è però un’altra questione affine al capitalismo: il denaro che produce altro denaro, cioè la speculazione, cioè guadagnare il diritto di comprarsi da vivere senza lavorare (a meno che speculare venga considerato un lavoro). Ma di questo parleremo tra poco.

Tornando al gioco del Monopoli e alla sua relazione con il capitalismo salta subito agli occhi una considerazione,  la quale è di una ovvietà tale che assomiglia a quelle evidenze talmente plateali da non essere riconoscibili (come una mosca fatica a capire di essere sul dorso di un elefante quando si posa su di esso), l’evidenza è questa: vince a Monopoli chi manda in rovina tutti gli altri giocatori, vince chi possiede tutto. Ma nel momento che possiede tutto un solo giocatore finisce il gioco. Così è presumibile che il gioco del capitalismo finirà quando un solo mega super riccone, o una famiglia, o una corporazione manderà tutti gli altri in rovina avendo acquistato tutto. Bisogna però aggiungere che per attenuare questo fenomeno (che altrimenti si sarebbe forse già realizzato) chi ha vinto molto, per evitare la fine del gioco, presta il suo capitale in cambio di un interesse agli altri giocatori – denaro che produce altro denaro – rimandando la fine a un tempo indeterminato.
Il Monopoli sembra che abbia radici che prendono linfa da più sperimentazioni di singoli individui ma le basi del gioco si rifanno alla teoria economica di Henry George, il così detto georgismo. Questa teoria parte dalla considerazione che tutto quello che si trova in natura (terra e beni immobili creati nel tempo) appartiene all’intera umanità, mentre il frutto del lavoro individuale appartiene al lavoratore. Da qui l’idea che il prelievo fiscale dovrebbe avvenire su chi ha in uso o in comodato beni naturali, mentre il lavoro dovrebbe essere privo di tassazione. Infatti nel Monopoli si versa ad ogni giro una tassa su quanto posseduto.

Ma adesso lasciamo il gioco e affrontiamo la realtà, a partire da quella storica. Nei secoli i beni naturali sono stati oggetto di appropriazione, di accaparramento, di privatizzazione. E ad esse sono seguite guerre per difendere o appropriarsi di quanto altri avevano conquistato. Con la stabilizzazione della proprietà privata (epoca della borghesia) si è passati a ritenere quest’ultima come un dato naturale e la sua regolamentazione attraverso le leggi come la soluzione a tutti i mali. Anche la nascita degli stati nazionali segue la stessa logica, ed anche la costituzione dei catasti per avere una certezza sui possedimenti e sui possessori. 
Il capitalismo prende piede da questi processi, tra la razionalizzazione analitica dei processi produttivi (grazie anche alle scoperte tecnologiche), facendo evolvere il lavoro artigianale in lavoro operaio guidato da un imprenditore, e il loro utilizzo per generare ricchezza: l’economia reale ad uso della speculazione finanziaria.
Una domanda sempre valida è la seguente: a cosa serve la finanza e la speculazione? A cui si può rispondere in molti modi, astrusi se derivano da addetti ai lavori, semplici se ricercate nell’osservare le vicende e i fatti. Il mondo finanziario è nato con la costituzione delle assicurazioni, cioè la possibilità di assicurare un bene contro la sua perdita accidentale. Già i veneziani, per evitare le rovine che potevano avvenire dalla perdita di una nave carica di spezie provenienti da oriente, avevano inventato lo stratagemma di assicurare la nave. Conveniva a tutti i mercanti pagare una cifra per ogni carico e non rischiare la perdita di un intero carico anche una sola volta, evento che significava la rovina della propria impresa commerciale. Ugualmente gli artigiani che lavoravano i metalli preziosi (siamo sempre verso la fine del medioevo) si erano trasformati in depositari delle ricchezze di coloro che temevano a lasciarli incustoditi nelle loro abitazioni. In entrambe i casi abbiamo un accantonamento di risorse, un patrimonio che certamente dispiaceva lasciare inoperante e che smuoveva grossi appetiti. Lo stratagemma appena descritto era nato per garantire tutti senza distinzione, come la creazione dei magazzini per accantonare le scorte alimentari nelle società precedenti i Grandi Imperi, era utile per superare senza gravi conseguenze i periodi di carestia.
Questo è il solo utile scopo che giustifica l’esistenza del mondo della finanza. Ed è talmente prezioso che ha fatto gola a coloro che delle risorse finanziarie erano grandi detentori. Un tale sistema per la sua natura sociale dovrebbe essere controllato dal pubblico, poiché è l’equivalente di un potente strumento tecnologico, simile a una bomba atomica, che se dato in mano ai privati può essere usata contro l’umanità. Purtroppo da sempre in mano ai privati, lo strumento finanziario è il principe dei sistemi per sfruttare e governare in maniera assoggettante le popolazioni. Il controllo dei magazzini determinò la nascita di una casta di privilegiati e la figura del re/imperatore; il controllo della finanza e la speculazione, tramite grandi masse di ricchezza monetaria (compresa la moneta virtuale), ha creato la grande borghesia e le ristrette famiglie di potentissimi banchieri. 
La leva finanziaria ha la capacità di stimolare l’economia reale (come una sniffata di anfetamina) ma esagerando si cade nella dipendenza; il che vuol dire nella possibilità di fluttuare tra un up e un down, che è l’andamento tipico delle crisi a cui siamo abituati. Se la leva della finanza fosse sotto il controllo pubblico si potrebbe evitare questo alternarsi di alti e bassi dell’economia, poiché non ci sarebbe nessuna necessità di speculare. Infatti la speculazione serve per trasferire nei momenti “down” ingenti ricchezze dalle mani di tanti a quelle dei pochi speculatori. Ma il controllo pubblico non è di per se una panacea, specie se il pubblico poi equivale ad un controllo di gruppi ristretti e di massonerie che dietro le quinte muovono le pedine e gestiscono concretamente la macchina statale. Il pubblico significa bene supremo, in quanto appartiene a tutti, e perciò dovrebbe essere circondato da una considerazione sociale di altissimo profilo. Il pubblico non significa una cosa che, non essendo di nessuno nello specifico, è a disposizione del primo prepotente approfittatore. Il pubblico dovrebbe essere curato e gestito in maniera controllata e diretta dal basso, come la più sofisticata strategia democratica. Dovrebbe essere preservato da ogni appetito privato, coscienti che appartiene all’umanità nel suo insieme, passata, presente e futura, e non di volta in volta al rapace di turno. La gestione del pubblico è oggi la misura del grado di democrazia raggiunto e di quello che si vuole raggiungere. 

Non ci deve essere posto per il mercato quando si tratta dei beni comuni fondamentali alla vita di tutti, quando rappresenta la garanzia per la dignitosa sopravvivenza di una umanità sempre più in pericolo di estinzione o, nel caso migliore, a rischio di guerre e carestie per la pressante crisi ambientale dentro cui ci troviamo.

fonte foto:  http://www.oltrelacoltre.com/public/uploads/2013/05/borse-giu.jpg

Paolo Bosco

REFERENDUM SCUOLA BOLOGNA

Domenica 26 maggio si terrà a Bologna un referendum consultivo sul finanziamento pubblico alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata.

Banchetto in sostegno del quesito A al referendum sulla scuola a Bologna
17 maggio, venerdì, dalle 16
 nella piazzetta antistante il teatro Testoni – via Matteotti.
Informazioni sul referendum, interventi di esponenti della scuola, animazione e musica.
Laboratorio per bambini (metodo Bruno Munari) a cura di Zoo.

Alcune considerazioni generali:
– Questo il quesito a cui il referendum chiede di rispondere:
“Quale, fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata, ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia ?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private” 
Il quesito sottopone al corpo elettorale una scelta univoca tra le due seguenti opzioni di utilizzo delle suddette risorse: 
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali 
b) utilizzarle per le scuole paritarie private 
La scelta tra le due opzioni è in funzione di assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia.
La richiesta di referendum consultivo rispetta tutti i requisiti previsti dallo Statuto comunale e dal regolamento sui diritti di partecipazione dei cittadini. 
Il sindaco di Bologna, che ha indetto il referendum perché lo statuto lo prevede, ha il compito di permettere ai cittadini bolognesi di esprimere il proprio parere. Una chiara circostanza in cui si esercita il potere di esprimere in maniera libera e certificata l’opinione generale. Una forma di democrazia diretta riconosciuta dalla costituzione.
Come sempre però la realtà complica le cose. I fautori della scelta B hanno denunciato il rischio di chiusura delle scuole private, il sindaco da super partes si è schierato trasformando il referendum in uno strano oggetto politico in cui ci mette dentro pure le sorti del PD. 
Eppure dovrebbe essere chiaro che, come suggerisce in maniera non equivoca la costituzione, si tratta solo di far valere il principio della scuola pubblica (in quanto) la sola che ha il dovere di essere laica, inclusiva, per tutti. Mentre le scuole private hanno tutto il diritto di essere come meglio credono ma “senza oneri per lo stato”.

Ecco una lettera di una maestra in pensione indirizzata al sindaco Merola:
Lettera

Ecco le cifre del finanziamento pubblico alle scuole private attualmente:

COMUNE ACCADEMIA – DIPARTIMENTO DELLA TERRA


Nel costituire il Dipartimento della Terra abbiamo operato in piena sintonia con lo spirito dell’associazione Comunimappe. Nelle intenzioni sociali c’è al primo posto il voler intraprendere qualsiasi indirizzo del sapere umano in maniera critica. Numerosi sono gli ambiti che appartengono al sapere della terra. La terra è uno degli elementi fondamentali identificati fin dall’antichità per iniziare a fare ordine, a fare chiarezza nella nostra nebbia esistenziale. Partire dalla terra è dunque garanzia di scoperte utili in tutti i sensi, dalla naturale garanzia di sopravvivenza al benessere psico-fisico frutto della conoscenza degli organismi viventi nella loro complessità.

Dalla coltivazione di un orto non si ricavano solo ortaggi, vi si possono trovare in aggiunta alcune risposte a domande che per disabitudine non vengono più poste. Come ad esempio una riflessione sul tempo, oppure questo strano fenomeno del creare dal nulla (apparentemente) cioè vita dalla vita; ma la risposta più importante è quella che chiarisce il principio del ciclo chiuso, ovvero l’equilibrio che permette di ottenere un profitto senza intaccare il capitale basico: la terra appunto.

Per ogni operazione nell’orto c’è un tempo giusto. Un tempo dettato dalle stagioni e mediato dalla luna. Assomiglia ai mezzi di trasporto pubblico un tempo sì fatto, sapendo a che ora è la corsa si può partire senza problemi.

Da un semino minuscolo si ricavano pomodori a chili, come è possibile? Si direbbe una creazione dal nulla, una gran bella invenzione che fa ben sperare in un arricchimento facile. Molte le similitudini con la creazione di denaro dal nulla, una tecnica copiata dalla natura e stravolta dall’economia di rapina in cui siamo. Stampare banconote di carta è creare dal nulla, piantare un semino è in realtà avviare il ciclo della vita, dare la scintilla, inseminare la terra. I frutti ricavati (a differenza delle banconote o dei lingotti) vanno consumati, non possono essere nascosti per poi speculare sul loro valore.

Infine il ciclo chiuso è quello che vediamo in funzione nelle foreste vergini. Il terreno si fertilizza con la propria produzione, dentro la rotazione vita /morte. Un vero paradigma filosofico. La natura è il più attrezzato laboratorio chimico, una serie continua di combinazioni garantiscono che nessuno paghi per tutti e che tutti abbiano un vantaggio.

Come ogni Dipartimento che si rispetti anche quello della terra affianca a concetti teorici, filosofici, storici, antropologici, conoscenze pratiche scaturite dall’esperienza. Così finite le piogge invernali, con il primo sole, è stata risvegliata la terra. Cercando di non fare troppo rumore le abbiamo preparato un condotto digerente dove inserire gli scarti vegetali per mettere in pratica il ciclo del nutrimento reciproco. Abbiamo preso un fusto di plastica, lo abbiamo privato del fondo e lo abbiamo messo al centro dell’orto. Riempito di erbacce e scarti vegetali, inumidito e chiuso da un coperchio, il tubo digerente ha iniziato a chiamare gli agenti addetti alla decomposizione per indurli a dividere il tutto negli elementi costitutivi. Sono arrivati puntuali e lavorano incessantemente.
A partire da aprile ci si ritrova tutti i mercoledì e i sabato (dalle sedici in poi) nella zona ortiva di via Erbosa (vicino l’ippodromo). 
Non è richiesta la presenza costante, al nucleo che gestisce il progetto si può aderire in qualsiasi momento scrivendo a: 
comuneaccademia@gmail.com
(Nei post che seguiranno metteremo il programma dettagliato di ogni iniziativa, gli argomenti che porteremo all’attenzione dei soci e i progressi concreti dell’orto).
Nei tempi dei tempi abbiamo umanizzato la natura. Ci siamo distaccati, da lontano l’abbiamo osservato per meglio addomesticarla. Ci siamo liberati dal giogo delle sue energie studiando e ipotizzando formule. Ci siamo ribellati alle sue regole e ne abbiamo create delle nostre, di rimando imponendole anche a lei. Non è stato un processo rapido, anzi, quasi un conflitto tra generazioni, tra madri, padri, figli, popoli, etnie. Sono state fatte tante cose, come armonizzare i fianchi delle colline, prosciugare le acquitrinose pianure, penetrare e disboscare foreste nere; si è dato sfogo a quel bisogno che è laboriosità ma anche follia e iperattività.
Si chiama agricoltura si legge semina, fecondazione assistita, innesto di mucose vegetali, fertilità. Si declina in tutto ciò che produce buoni frutti. La terra chiama a viva voce, inesorabilmente con gravità ci riconduce sempre ad essa; a chi sa ascoltare concede cibo e quiete. Le sue forme sono collirio per gli occhi, i colori luce armonizzata; la qualità dell’aria rinnova i polmoni agevolando lo sforzo necessario. Coltivando la terra si finisce col parlare alle piante, scoprirsi a osservare il cielo e sollecitare piogge e sole. Non è mai uguale al giorno prima un campo; invisibili animaletti nottetempo dissolvono i propri antagonisti, e il vento sposta spore e foglie secche. Piantine d’ogni genere, dalla linfa che risale radici e fusto, traggono crescita.
Dip Ter

PATRIMONIO IMMOBILIARE PUBBLICO

La difficoltà abitativa dovuta alla precarietà e allo sperpero del patrimonio immoiliare pubblico, spesso abbandonato e destinato al degrado, rivela le due facce della stessa medaglia. Da una parte redditi sempre più esili e dall’altra edifici vuoti, palazzi chiusi perché invenduti o in attesa di un compratore che trovi i margini per speculare: La caserma Sani di via Ferrarese a Bologna ne è un esempio.

Le questioni dell’abitare, del consumo di suolo, delle devastazioni ambientali e della privatizzazione/valorizzazione del patrimonio pubblico, al tempo della crisi, si intrecciano tra loro 
in modo indissolubile. Il modello di sviluppo che ha un orizzonte basato sul cemento, sull’azzeramento del welfare e sulle produzioni nocive non può essere ancora tollerato. Una politica di riduzione del danno, semmai praticabile, sarebbe poca cosa nella realtà attuale. Serve una voce collettiva che amplifichi un sentire comune, che dia vigore alla resistenza, di fatto ampia ma frammentata, di coloro che dicono no alla svendita del patrimonio immobiliare comune, no alla speculazione privata quando costruisce fuori dai bisogni reali.