Memorie attive:lunghi silenzi sugli stermini dei rom e sinti e dei “non conformi e della vita non degna di essere vissuta” (glossario nazista) , ed analisi sullo sdoppiamento del Sè dei carnefici in tutti i campi di concentramento e sterminio nazi-fascisti in Europa(da Natzwiller-fr a Jasenovac-cz), e sulle mancate inclusione dei sopravvissuti nel dopo-Auschwitz.

Premessa

Ci sono due parole nella lingua romanes per indicare lo sterminio nazi-fascista delle genti romanì, intendo le numerose, disperse e marginali comunità linguistiche e culturali europee:Rom e Sinte.

Porrajmos: parola che può suonare ambivalente per gli impropri significati sessuali, di stupro e sevizie”ma pure “divoramento”;

L‘Altra parola è Samudaripen: Grande Morte e genocidio, parola appropriata ma che non approfondisce il dramma e la tragedia vissuta.

Però, nelle lingue si sa che il significante spesso è accompagnato da una molteplicità di significati tra loro contraddittori, e fortemente influenzati da situazioni ed esperienze di vita.

Per le esperienze tragiche che i Romanì hanno subito nello sterminio nazi-fascista (atroci esperimenti scientifici e medico chirurgici: sterilizzazioni, vivisezioni, smembramenti e sevizie sui/dei corpi, senza che mai i carnefici si preoccupassero del dolore arrecato e della dignità cancellata), mi sembra che Porrajmos sia la parola più qualificata.

Perché romanì e non zingari?

Perché ‘zingari’ è un eteronimo cioè un nome arbitrariamente attribuito dai gagè (o non romanì) che sottolinea più i caratteri negativi che positivi,

non è tra l’altro l’unico, ce ne sono molti altri gipsy, gitani ecc;

per secoli i Romanì sono stati considerati egiziani-pellegrini, appartenenti ad una tribù dispersa d’Israele, dei figli di Cush, della stirpe di Cam, uno dei figli di pelle nera di Noa, che per aver deriso il padre ubriaco, venne scacciato di casa e e costretto ad una perenne vita raminga.

Per affermare questo si sono avvalsi per secoli delle mappe antropologiche o delle bibliche tavole delle nazioni che dividevano l’umanità in Semiti, Camiti e i Giapetiti figli di Jafet.

Romanì o Rom e Sinti invece è un etnonimo o un nome proprio di un popolo

Secondo una cronaca viennese del 1776 (la Anzeigen aus sämmtlich-kaiserlich-königlichen Erbländern), fu l’illuminista slovacco Samuel Augustin ab Hortis il primo ad accostare le parlate dei romanì alle lingue indiane.

“Lingua da ritenere a tutti gli effetti neo-indiana, parlata in seguito non solo dagli errones o erranti egiziani, ma anche da tutte le genti rom. Dopo questo primo riconoscimento linguistico e culturale, altri ne seguirono, fino ad essere liberati di quella infamante accusa, che pesava come un macigno sulle loro vite, quello di essere figli maledetti ed erranti di Cush, uno dei figli generati da Cam”. (Materiali tratti dalla stirpe di Cus di Leonardo Piasere ed. CISU- 2016)

Stranieri interni e cittadinanza E’ importante ricordare i rari momenti di riconoscimento di una piena cittadinanza italiana ed europea e riconoscere apertamente che per secoli,i romanì e gli ebrei sono stati marginalizzati e considerati stranieri interni in Italia come in Europa.

Infatti, l’estate scorsa la Città di Bologna (con la sua Vice Sindaca Emily Clancy), le comunità urbane di Rom e Sinte della nostra Regione:Mirs- mediatori interculturali Rom-Sinti,Amici di Django, Thèm Romanò e l’associazione-movimento romanì: Ketane e Comunimappe- la libera comune università pluriversità Bolognina,

la mattina del 18 luglio 2022, hanno voluto ricordare, con una targa sotto l’arco di Porta Galliera, la presenza plurisecolare dei romanì in Italia e a Bologna e la nascita di un bambino-a a Campo Grande, oggi Piazza 8 Agosto, considerata la prima nascita romanì documentata in Europa; tutto questo rigorosamente documentato, nel lontano 18 luglio 1422, dalle cronache bolognesi: la Rampona e la Varignana, ben conservate come codici nella Biblioteca Universitaria di Bologna.(www.comunimappe.org)

La storia umana non ha mai conosciuto una storia così difficile raccontare (H.Arendt,1984,p.51), che non va enfatizzata e neppure relativizzata ((Richard Rechtman, le vite ordinarie dei carnefici,Einaudi ed.)

Oggi vorrei ricordare con voi: Il Porrajmos, lo sterminio delle comunità romanì(Rom e Sinti), quello dei bambini disabili, dei pazienti psichiatrici, degli asociali, degli Lgbtq e di molti/e ‘non conformi’ e ‘la vita indegna di essere vissuta’ (lebensunwertes Leben,dal glossario nazista), ed insieme impegnarsi per contrastare l’auto-distruttiva coazione a ripetere e a generare carnefici e capri espiatori, sdoppiamenti del sé personale e collettivo umanista ed ippocratico, e nel nostro caso specifico nel Sé di Auschwitz impersonale, irriflessivo, massificato, persecutorio’ che si è avvalso e si avvale di volta in volta di giustificazioni ideologiche, scientifiche, medico-antropologiche e di politiche morali, religiose e nazionaliste,

ma anche per analizzare insieme la vittimofilia o la pietà e la rabbia per le ingiuste morti, che rischiano però in molti casi d’oscurare nelle stanche ricorrenze e nei vuoti cerimoniali, il perpetuarsi nel presente di esclusioni sociali e culturali, le stesse che hanno provocato quelli stermini. Infine per contrastare questo”eterno ritorno ed eterno fascismo” si richiederebbe di accompagnare alla nostra giusta indignazione, azioni comuni d’inclusione sociale e culturale dei sopravvissuti, al fine di disattivare stigmi, pregiudizi, risentimenti e reattività rancorose che continuano ad affiorare nella storia.

Lo sterminio dei ‘non conformi’ e ‘della vita indegna di essere vissuta’ (glossario nazista)

“Lo sguardo medico-scientifico e quello sociale e politico-culturale diffuso avevano disumanizzato le vittime dello sterminio e del genocidio, con gli strumenti e la razionalità tecnica-scientifica e tecnico-burocratica di quello che chiamiamo oggi modernità.”(come sostiene Alain Goussot, docente di pedagogia speciale)

“Alla fine dell’Ottocento nasce la scienza eugenetica come studio del miglioramento della specie umana attraverso la selezione artificiale;
l’eugenismo diventa una vera e propria ideologia politica, nella misura in cui si diffonde la convinzione che si possa intervenire sul piano politico e socio-economico con misure eugenetiche di “miglioramento della razza”.

In fondo l’eugenetica è frutto (direi avvelenato) della cosiddetta modernità e della razionalità tecnica, che il regime nazista (non di meno quelli fascisti) per “bonificare” la società tedesca (ed europea) da possibili contaminazioni degenerative;

l’eliminazione dei soggetti disabili, in particolare mentali ed intellettivi (pazienti psichiatrici), delle minoranze etniche gli “zingari”(o romanì) e sessuali ” prostitute, omo-lesbo-trans-sessuali” ( lgbtqi), ma anche la sperimentazione su forme “anomale” della natura umana come ad esempio, i gemelli; tutto sarà la traduzione (continuazione) tecnico-culturale di un impianto scientifico che si era sviluppato 50 anni prima.

E furono la scienza medica ufficiale e quella psichiatrica (direi bio-medica ed organicista)in particolare a sostenere questa visione per dare base “scientifica” alla costruzione del capro espiatorio e a provocare quella dissociazione personale e collettiva dal Sé umanista ed ippocratico verso un Sè disumanizzato, impersonale e massificato di Auschwitz, come ipotizza lo psicologo Robert Jay Lifton.

Si trattava di una visione basata su principi di salute e purezza:tutto quello che sembrava inspiegabile, o che non rientrava nelle categorie nosografiche della scienza medica-psichiatrica, veniva visto con sospetto ed identificato come fonte di pericolo per la salute pubblica.

Da questo punto di vista si può affermare con Zyngmunt Bauman (1992), che il nazismo non fu solo un fenomeno abnorme ma sopratutto un’espressione di quello che oggi chiamiamo modernità (o razionalità tecnica-strumentale, direi funzionale all’esistente ma per nulla esistenziale).

Tuttavia occorre precisare che questa tesi non ha avuto buona fortuna poichè era più semplice pensare che l’orrore nazista fosse stato il risultato di un regime di individui psicopatici e perversi, anche se sappiamo degli studi compiuti sulla storia dei protagonisti di quella tragedia, che le cose furono estremamente diverse e che molti medici ed eminenti psichiatri tedeschi, brillanti accademici e ricercatori rigorosi, erano in realtà persone ‘normalissime’.

Si può anche affermare che la ‘normale disumanità’ del regime nazista, fu supportata dalla complicità e dall’indifferenza colpevole di tanta gente ‘perbene’, non faceva che riprodurre in modo amplificato ed esasperato lo sguardo sociale, culturale e scientifico dell’insieme della società sui soggetti stigmatizzati: disabili, sugli individui affetti da disturbi psichici e sulle minoranze etnico culturali e sessuali (come romanì ed Lgbtq).

Per rendersi conto della normalità della loro vita, basta leggere la biografia dei medici e degli scienziati che effettuarono uccisioni e sperimentazioni di vario genere su bambini e bambine disabili, (sui pazienti psichiatrici), rom e sinti, ebrei, sui bambini- ed adolescenti tedeschi considerati “devianti” ed “ineducabili” (senza scordarsi dei soggetti lgbtq e delle prostitute)

Molti conducevano vite assolutamente regolari, erano amorevolmente dediti alle loro famiglie, eppure fecero qualcosa di inconcepibile: torturare migliaia di bambini -e, disabili, e soggetti di minoranze etniche, culturali, sessuali col pretesto di far progredire la scienza tedesca.

Essi idearono i programmi di eliminazione Aktion T4 e T14 che posero fine all’esistenza di migliaia di individui disabili e pazienti psichiatrici.

Per riprendere il sociologo Z. Bauman si può dire che la razionalità tecnica e burocratica possono portare a questo tipo di ‘possibilità occulte’ in tutte le società moderne… Frammenti tratti dalla monografia “Nazismo, eugenetica er disabilità di Alain Goussot – docente di Psicologia speciale – Università degli studi di Bologna.

E dove non era presente questo tipo di razionalità tecnica-scientifica e la serialità industriale nazista si procedette allo sterminio come metodi artigianali crudeli, disumani e violenti di migliaia di persone romanì e di altre minoranze culturali, religiose e politiche come a Jasenovac in Croazia o alla Risiera di San Sabba a Trieste da parte di regimi complici clerico-fascista .) [….] Porrajmos o sterminio dei romanì : Rom e sinti “Nel corso degli anni Trenta, la popolazione internata nei lager nazisti subì notevoli mutamenti. A poco a poco, i politici divennero una minoranza, mentre il numero prevalente di prigionieri apparteneva alla categoria dei cosiddetti elementi antisociali, termine generico che comprendeva i delinquenti abituali, le prostitute, gli alcolizzati, i vagabondi senza fissa dimora e i renitenti al lavoro. Nel novero degli asociali vennero inseriti, ben presto, anche gli zingari ( o romanì), che già la legge bavarese del 16 luglio 1926 associava ai “senza lavoro” e ai “vagabondi”: considerati in blocco come un’unica vasta categoria di devianti, questi tre gruppi dovevano essere rigidamente controllati dalle forze dell’ordine e, al limite, potevano “essere internati dalle competenti autorità di polizia in campi di lavoro, per un periodo fino a due anni, per ragioni di pubblica sicurezza”.
Tuttavia, nel caso degli zingari(romanì), la persecuzione assunse subito anche spiccati caratteri razzisti, anche se, dal punto di vista linguistico, i Sinti e i Rom (cioè coloro che noi chiamiamo zingari o gitani) possono essere considerati indoeuropei.
L’origine indiana non venne negata dagliesperti razzialinazisti che si occuparono degli zingari (fra i quali va ricordato almeno Robert Ritter, principale responsabile delGruppo di ricerca d’igiene razziale e di biologia demograficadel Ministerio della Sanità, con sede a Berlino Dahlem)” Tratto dalla voce “asociali” dell’assemblea-cittadinanza – amministrazione regionale Emilia-Romagna.

L’ostacolo fu aggirato con pretese che non esistevano più romanì puri (o rarissimi tra loro, i lalleri)perché durante le numerose e continue migrazioni si erano contaminati con altre razze (c’era stata come si ripropone oggi una sostituzione etnica e razziale)

La persecuzione degli zingari (o romanì) ebbe inizio in modo sistematico nel 1936. Il 16 luglio, cogliendo come pretesto l’imminente inizio delle Olimpiadi, tutti i Sinti e i Rom che vivevano a Berlino e dintorni furono arrestati e condotti nell’improvvisato campo di Marzahn, che nel 1938 ospitava circa 850 persone.

Venne presa la decisione di concentrare tutti i Sinti e Rom nomadi in campi appositi allestiti nelle periferie delle città, per assicurare un miglior controllo della polizia.

Così stabiliva il decreto per la lotta contro la piaga zingara il 6/6/1936 di Heirich Himmler che ordinava che tutti/e i romanì fossero schedati e registrati.

Le donne e le bambine romanì furono oggetto fin dai primi anni di regime di sterilizzazione di massa con raggi x ed iniezioni intrauterine sia a Natzwiller (Fr) che a Ravensbruech.

I detenuti di Dachau(A) furono sottoposti ad esperimenti sulla potabilità dell’acqua marina; erano obbligati a bere acqua di mare o veniva iniettata loro una soluzione salina.

A Sachsenhausen(Francoforte sul Meno)ci furono esperimenti con i iprite, un gas tossico che veniva usato in guerra.

Gli internati di Buchenwald (D) furono infettati dal tifo o sottoposti ad esperimenti di congelamento rapido per studiare la resistenza al freddo.

Ad Auschwitz il famigerato medico Joseph Mengele compì atroci esperimenti su bambini e bambine romanì, su parti gemellari, sul nanismo ed il gigantismo, sulle sincronie oculari, sui tumori alla pelle, sulle malattie più disparate.

Tutte queste vite non degne di essere vissute si concludevano nelle camere a gas.

Lungo silenzio sullo sterminio dei romanì (di Luca Bravi,ricercatore su storia, formazione ed inter -cultura dell’Università di Firenze) intervista sul Porrajmos tratto dalla rivista della Regione Toscana.

Porrajmos: perché finora se n’è parlato troppo poco?

(Per Luca Bravi, docente di formazione ed interculture) “La causa del silenzio sul Porrajmos è da individuare soprattutto negli stereotipi di stampo razziale che si sono conservati dall’immediato dopoguerra e fino ad oggi in riferimento a quelli che continuiamo a chiamare “gli zingari” (e oggi romanì). Quest’ultimo un termine offensivo coniato per indicare un gruppo che consideriamo in toto composto da soggetti ladri, asociali e nomadi, perciò “geneticamente” (ma oggi si dice “culturalmente”) pericolosi. Gli stereotipi attivi determinano la tenuta a distanza di queste persone e la distanza provoca l’assenza di spazio e di disponibilità per la ricostruzione storica e soprattutto per la testimonianza. Non ci potrà essere testimonianza storica finché non si attiverà una reale inclusione a livello (culturale) e sociale. Ecco perché il Porrajmos parla di memoria storica, ma ha bisogno di costruire spazi d’inclusione nel presente; ed ecco perché il Porrajmos uno dei temi caldi rispetto alla costruzione di un tempo “post-Auschwitz”.

Qualcosa cambiato negli ultimi tempi, sia dal punto di vista della ricerca storia che della consapevolezza diffusa?

“A livello internazionale cambiato molto: oggi il Porrajmos è riconosciuto come persecuzione e sterminio avvenuto per motivazioni razziali, esattamente come la Shoah ebraica. Questo riconoscimento avvenuto è dovuto soprattutto a importanti testimonianze di ebrei ed oppositori politici che hanno raccontato la persecuzione subita da rom e sinti anche e non solo nel campo di Auschwitz-Birkenau. Queste testimonianze, insieme ai documenti rintracciati e studiati, hanno permesso di far sorgere a Berlino un Memoriale dedicato alle vittime del Porrajmos di fronte al Reichstag tedesco, a poca distanza dal memoriale ebraico. Credo che questa prossimità sia il simbolo più importante della direzione inclusiva che deve prendere la politica della memoria in ogni nazione. La consapevolezza diffusa invece ancora latita, soprattutto in Italia, dove non si pone ancora la necessaria attenzione. Il Porrajmos non è tuttora neppure menzionato all’interno della legge che ha istituito il “Giorno della Memoria”. Tuttavia anche da noi la ricerca storica ripartita. Oggi abbiamo due strumenti multimediali all’avanguardia rispetto al resto d’Europa: un museo virtuale (www.porrajmos.it) che ripercorre il Porrajmos in Italia tramite i documenti e la voce dei testimoni diretti ed il portale www.romsintimemory.it che narra le vicende dello sterminio nazista.

Ci sono responsabilità specifiche italiane, così come per la Shoah?

L’Italia fascista è stata un ingranaggio del sistema di persecuzione e deportazione di rom e sinti e quindi del Porrajmos. Questo attraverso almeno quattro fasi specifiche con un intervento sempre più radicalizzato: l’allontanamento ed il rimpatrio dei cosiddetti “zingari” (anche quelli di cittadinanza italiana), la pulizia etnica nelle zone di frontiera rispetto alla presenza di soggetti rom e sinti (con il confino obbligatorio in Sardegna), l’arresto e l’invio in “campi di concentramento riservati a zingari” sorti sul territorio italiano ad esempio ad Agnone (Molise) (www.porrajmos.it ripercorre le vicende a riguardo), la deportazione verso i lager oltre confine.

La memoria del Porrajmos serve se diventa la scintilla per avvicinarsi oggi ai rom ed ai sinti presenti nelle nostre città e scoprire che non sono quei “mostri” che la maggior parte delle persone immagina. Per scoprire, per esempio, che più della metà di rom e sinti nella nostra nazione sono di cittadinanza italiana e di antico insediamento. Sul Treno della Memoria della Regione Toscana gli studenti ed i professori avranno anche quest’opportunità: scoprire che le vicende di deportazione studiate hanno toccato anche le famiglie di rom e sinti che sono loro concittadini da tempo, ma che, a causa del pregiudizio diffuso, non è stato costruito uno spazio che permetta il racconto della storia e la costruzione di una memoria sociale. Basta un solo dato a chiarire definitivamente la linearità dell’esclusione e dell’odio tra passato e presente: durante il nazismo e il fascismo, i cosiddetti “zingari” furono perseguitati e sterminati perché indicati come portatori della “tara ereditaria” (dunque razziale) del “istinto al nomadismo”. Oggi la maggior parte degli Italiani crede ancora che rom e sinti siano “nomadi”; non è vero, non lo sono mai stati(O nella grande maggioranza tra loro non lo sono, cioè lo sono solo coloro che hanno ragioni di attività (circensi e spettacoli viaggianti che richiedono di spostarsi continuamente), o sono senza casa, anche per persecuzioni politiche e razziali, per cause di guerra anche di recente v. Rom dall’ex Jugoslavia e dall’est europeo).  Approfondire questo dato di fatto, magari a scuola, magari entrando in contatto con i rappresentanti rom e sinti delle associazioni presenti in Italia, apre un mondo e fa crollare il castello di carta del pregiudizio. Conoscere il Porrajmos può rappresentare quel soffio di vento in grado di scompigliare le carte e farci tornare a riflettere sul significato presente del fare storia e memoria”.

(Istinto al nomadismo ribadito pochi anni fa dall’attuale Presidente del Consiglio G. Meloni:’sono nomadi, allora devono nomadare’, quando si parlava di possibilità d’inclusione sociale ed abitativa nelle micro-aree o nelle case d’edilizia popolare)

Quanto serve recuperare questa memoria per combattere il pregiudizio oggi?

Sdoppiamento o dissociazione del sé di Auschwitz dal sé ippocratico ed umanista da Natzwiller (Fr) ad Auschwitz

Robert Jay Lifton psichiatra e saggista, è stato docente all’Harward IUniversity e al John Jay College of Criminal Justice di City University di New Jork. Autore di numerosi studi su Hiroshima, sul nazismo e sulla guerra del Vietnam, e le sue ricerche hanno riguardato soprattutto i rapporti tra la psicologia individuale e la storia.

“La mia ricerca su medici nazisti cominciò e finì con Josef Mengele. Era iniziata con lo studio su documenti legali su di lui e si compì nell’estate del 1985, proprio quando un gruppo di scienziati dichiarò che le ossa scoperte in una tomba brasiliana erano le sue.

Benché in origine avessi considerato la possibilità di costruire il mio studio attorno a Mengele, mi resi conto ben presto che, concentrando l’attenzione su di lui, avrei rischiato d’accentuare il culto della personalità demoniaca che già lo circondava, trascurando in tal modo il fenomeno nazista più generale dell’eccidio sotto l’egida della medicina. Non è che io intenda ridimensionare questo esemplare del male nazista:benché egli sia oscurato dalla sua mitologia diabolica, va detto che sotto molti aspetti essa è più che meritata. Piuttosto, il mio compito è quello di tentare di capire in che modo i suoi tratti psicologi individuali abbiano alimentato la visione bio-medica nazista, e se ne siano alimentati, e di apprendere che cosa egli abbia da dirci sull’eccidio compiuto sotto la copertura della medicina e sulla scienza medica corrotta . Il fatto che Mengele abbia trovato ad Auschwitz l’ambiente a lui favorevole ci dice molto non solo sull’uomo, ma ancor di più sulla psicologia dell’istituzione. Mengele non divenne (subito) una figura pubblica famosa – tristemente famosa – subito dopo la guerra. Egli era ovviamente ben noto ai sopravvissuti di Auschwitz, fu oggetto di testimonianze fornite nel 1945, e fu menzionato occasionalmente durante le indagini per il processo di Norimberga, ma non fu tra gli imputati in quel processo nè successivi processi a medici negli anni Quaranta.

Solo nel 1958, cominciò ad essere oggetto di pubblica infamia, grazie anche agli sforzi dello scrittore tedesco Ernest Schnabel, che venne a conoscenza delle attività di Mengele ad Auschwitz mentre compiva ricerche per un libro su Anna Franck. Superstiti di Auschwitz rifugiatisi in tutto il mondo cominciarono allora a far sentire la loro voce a fornire testimonianze per le indagini legali tedesche. E mentre Mengele si spostava da un luogo all’altro del Sudamerica er evitare la cattura e l’estradizione, le testimonianze dei sopravvissuti s’accumularono senza soste, anche se a volte con relazioni e affermazioni più dubbie da parte di persone meno qualificate a parlare. [….] Mengele si riflette nella dichiarazione di un uomo che sostenne di averlo visto regolarmente in Paraguay e che lodò gli sforzi da lui fatti ad Auschwitz “per liberarci degli storpi della società”, anche se in un modo che “non fece nulla di più che scalfire la superficie”: Senza dubbio nessun criminale di guerra nazista ha suscitato tante fantasticherie, e tanta letteratura. In un romanzo del 1976 trasformato in un film di grande successo, “i ragazzi venuti dal Brasile”, Mengele è ritratto come uno scienziato brillante, demoniaco (diabolico), impegnato nella produzione di numerosi cloni di Adolf Hitler. Un pò di un più di un decennio prima, in una esplorazione teatrale più seria del genocidio nazista, “Il vicario”, Rolf Hochhuth creò un personaggio simile a Mengele, noto come “il Dottore” che è “un’incarnazione della malvagità pura, molto più compiuta in questo senso di Hitler”. Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 459-461

I medici e gli scienziati nazisti ebbero un ruolo centrale nella selezione e nell’annientamento dei deportati nei vari campi di concentramento e soprattutto di sterminio, ma anche le maggioranze rumorose nelle piazze come quelle silenziose nelle case.Il giuramento ippocratico, pur essendo per il medico un impegno a praticare l’arte della guarigione ed evitare in ogni modo di uccidere o danneggiare le persone da lui/lei curati/e, fu quasi del tutto abbandonato da Natzwiller ad Auschwitz, come in tutti gli altri luoghi di concentramento, selezione, manipolazione genetica, atroci sperimentazioni mediche-scientifiche ed infine sterminio.”

Il dottor Auschwitz: Josef Mengele . L’ss uscito da Mein Kampf:molto retto e puritano. Un medico prigioniero di Auschwitz

“Era capace di essere gentile con i bambini(disabili,ebrei e zingari) da renderli molto affezionati a lui,da portare loro zucchero, da pensare a piccoli particolari della loro vita quotidiana e da far cose che noi ammiravamo genuinamente…E poi, subito dopo….il fumo dei crematori, e questi bambini, domani o dopo mezz’ora, li avrebbe mandati là. Ecco dov’era l’anomalia. ” Un medico prigioniero di Auschwitz

L’uomo doppio (l’homme double) Il doppio (le double) (e qui ci si riferisce al dott. Mengele, ma non solo a lui/lei a tutto il personale di servizio e non, che aveva partecipato allo sterminio.

La parola doppio fu effettivamente usata, infatti l’antropologa Magda V. (in qualità di prigioniera-collaboratrice) parlò di Mengele come di una “personalità scissa”. Essa conosceva le relazioni di altri sulla sua brutalità e non aveva “alcun dubbio” sul fatto che potesse essere capace ma, aggiunse, ciò non avvenne “mai in mia presenza”. Quando continuò chiedendosi se la sua presenza non potesse aver esercitato un “effetto umanizzante” su Mengele e su altri altri medici/mediche ss per il fatto che “io trattavo tutti [i prigionieri e medici ss] come esseri umani”, stava esprimendo un altro principio dello sdoppiamento: l’importanza per ciascuno di vedere il proprio sé confermato dagli altri. La parola “doppio” fu effettivamente usata dal dottor Alexander O. (medico prigioniero e collaboratore) nei suoi sforzi angosciosi per trovare un terreno d’intesa con Mengele: L’uomo doppio (l’homme double). Il doppio (le double): egli aveva tutti i moti affettivi, tutti i sentimenti umani, la pietà e via dicendo. Ma nella sua psiche c’era un cella chiusa ermeticamente, una cella impenetrabile, indistruttibile: l’obbedienza all’ordine ricevuto. Egli può gettarsi in acqua per salvare uno “zingaro”, tentare di guarirlo…e poi appena usciti dall’acqua, dirgli di salire su un autocarro per portarlo in gran fretta alla camera a gas.

Eva C (un’altra prigioniera collaboratrice) disse con considerevole sensibilità, che la propria esperienza psicologica di prigioniera l’aveva aiutata a capire Mengele. Essa sottolineò che anche i prigionieri cominciarono “a comportarsi così…come se fossimo dentro una sorta di corazza” e come lei stessa, vedendo nei blocchi delle malate donne grottescamente deboli che tendevano le braccia e supplicavano “Aiutatemi! Aiutatemi!, si sentisse “un pò imbarazzata”, poichè pensava:”Noi siamo qui per morire. Che cosa intendi dicendo: “Aiutatemi”?:

Poi poté aggiungere:”Il fatto che queste persone avessero in realtà conservato la loro salute mentale [chiedendo aiuto] e che fossi io a dare i numeri…non mi passò per la mente. Sa ero già toccata da quell’intera mentalità di [Auschwitz]”.

Eva C. continuò a spiegare che sia i medici ss sia i prigionieri erano presi in quell’ingranaggio: “Perciò potei capire Mengele”.

Auschwitz era “un pianeta diverso” le cui regole capovolgevano totalmente quelle della società comune: secondo le regole di Auschwitz, alcuni erano eravamo lì per morire e non per vivere e, per poter accettare ciò, dovevano passare ad un tipo di mentalità diversa, ad un diverto tipo d’atteggiamento”.

Anche i medici SS dovevano compiere una transizione simile, nel loro caso con l’aiuto della precedente immersione nell’ideologia nazista. “Essi erano ben preparati”. Essa (ella) riusci a capire qualcosa dello sdoppiamento omicida nei medici nazisti riconoscendo forme benigne di un processo affine in atto in sé stessa ed in altri prigionieri.

Benché tutti i medici nazisti abbiano subito uno sdoppiamento ad Auschwitz, Mengele fu speciale per l’incompatibilità apparentemente estrema delle due componenti del suo doppio sé… Il suo sdoppiamento fu accentuato da certi tratti psicologi: le sue tendenze schizoidi, la sua capacità straordinaria di di mettere a tacere la sua coscienza ed il suo impulso verso il sadismo e (il senso) d’onnipotenza (che risultano essere estremamente connessi tra loro).” Tratto da Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 510-512

Il paradosso dell’uccisione come terapia “L’immersione dei medici nazisti nel paradosso dell’uccisione come terapia fu cruciale nel dare il la allo sdoppiamento, poiché il Sé di Auschwitz doveva vivere in quel paradosso. Nella misura in cui si abbraccia la portata estrema della visione nazista di uccidere gli ebrei (e la totalità delle vite indegne di essere vissute) per guarire la razza nordica, il paradosso scompare. Il Sé di Auschwitz può vedere se stesso come fondato su un principio lodevole di “igiene razziale” e come operante verso una nobile visione di rinnovamento organico: la creazione di una vasta “comunità biotica tedesca” in cui si possono tracciare paralleli fra la missione tedesca di conquista del mondo e il più piccolo sistema fisiologico intracellulare.[….] Anche la guarigione conseguita per mezzo dello sterminio poteva diventare parte della visione mirante all’immortalità, del “diritto e ….obbligo umano più sacro”, che quello di “far sì “che il sangue venga preservato puro e, conservando l’umanità migliore, di creare le possibilità di sviluppo più nobile di questi esseri”(Himmler) tratto da Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 584-585

“Ai medici nazisti di Auschwitz si chiedeva di sdoppiarsi a beneficio della rivitalizzazione, che era un bene comune (con i medici nella funzione di mediatori razziali fra il capo-eroe e la comunità ariana più vasta) e sacro (rivendicando la sua funzione ultima dai morti della prima guerra mondiale). Hitler fu molto preciso su questo punto, dichiarando con “chiarezza cristallina” la sua dottrina della nullità …del singolo essere umano e della sua esistenza continuata nella visibile immortalità della nazione. Ed altrettanto chiaro fu Alfred Rosenberg nell’insistere con fermezza sulla tesi che la personalità umana viene conseguita solo quando si è integrati, spirito ed anima, in un successione organica di migliaia [di individui]della propria razza.

Si trova qui la possente lusinga della sostanza razziale-culturale che conferisce l’immortalità.

Nella risposta dei giovani medici a quella lusinga, l’entusiasmo per le conquiste pratiche del nazismo si fondeva con un senso comune di potere comune mitico.

L’ethos comunitario era così forte che, persino quando si era profondamente turbati dalla politica nazista, si esitava ad opporsi ad essa perché ciò avrebbe significato: “tu diventi un traditore e pugnali alle spalle il tuo popolo.”

O aderisci alla comunità sacra o si è visti (e si vede se stessi come traditori, assassini e codardi).

Le ss erano “la comunità [di élite] nella comunità; i loro appartenenti erano “legati da un giuramento”, colmi di “spirito di corpo, costanti nel loro misto di crudeltà e di coraggio. I medici nazisti che entravano nelle ss si impregnavano di una parte di questo ethos. Ognuno di loro pronunciava il giuramento delle ss: “Giuro a te, Adolf Hitler – come Fuehrer e Cancelliere del Reich- lealtà e valore. Prometto a te e ai miei superiori, da te designati, obbedienza sino alla morte, con l’aiuto di Dio”, e diventava in tal modo quello che un osservatore chiamò un “combattente ideologico”, portasse o no sulla fibra della propria cintura (come i comuni appartenenti alla ss) il motto delle ss: “il mio onore significa lealtà”. […] “Il giuramento ippocratico fu percepito come poco più di un rituale lontano e desueto praticato ai tempi dell’università e veniva prontamente rovesciato dal rituale di una bruciante immediatezza, delle selezioni, oltre che della serie delle pressioni e remunerazioni dirette verso il Sé di Auschwitz liberato dai residui ippocratici. In effetti con il giuramento a Hitler il medico escludeva essenzialmente gli ebrei ( i prigionieri e i deportati, e tutti/e i non conformi, le vite indegne di essere vissute) dalle proprie responsabilità ippocratiche”. Robert Jay Lifton, i medici nazisti pp. 589-590

Il paradigma vittimario del Novecento e l’incoscienza del carnefice (Richard Rechtman, le vite ordinarie dei carnefici,Einaudi ed.)

“Gli elementi d’interesse sono costituiti dall’attenzione che si è andata manifestando verso quei gruppi sociali, e quindi quelle persone che, travolti da eventi soverchianti, ne sono risultati annientati. Un indagine sui traumi che da ciò derivano, a partire dai sopravvissuti, così come dal vuoto che l’assenza delle vittime ingenera nella collettività di cui erano parte, non può essere esclusa dall’orizzonte analitico dello studioso. Non di meno, ciò rivendica la necessità di dotarsi di una strumentazione appropriata, per non lasciarsi indurre nella duplice tentazione di relativizzare o enfatizzare, dove la vittimofilia, ossia la passione e la pietà per le morti “ingiuste”, sembra sommergere, come una perenne onda in piena, la pluralità dei percorsi, processi e fenomeni che portarono alla distruzione delle vite così come anche al rifiuto politico (ed etico), laddove esso si manifestò,che ciò continuasse a succedere. Il rischio che la figura totalizzante della vittima oscuri quella dell’oppresso – e con essa la carica oppositiva di chi, invece,a tali derive ha opposto non solo la sua personale resistenza ma una più generale volontà di liberazione, attraverso un percorso alternativo di tutela dei diritti umani- è un paradosso che si innesca nella lettura dei processi storici quale essa viene schiacciata sull’esclusiva narrazione del passato come una sorta di Pantheon del terrore. In altre parole ancora, l’ipertrofia dell’immagine della vittima può produrre una sorta di eterogenesi dei risultati, incentivando un determinismo storico basata sull’ineluttabilità delle tragedie. L’indignazione che ne deriva non è in sé un antidoto, se a ciò non si accompagna un investimento nell’azione politica. Poiché se il panorama esclusivo è quello di una successione di rovine, l’immagine che ne viene trasmessa è quella dell’impotenza associata al dolore insensato. L’agire politico richiede invece dei significati condivisi,che superino la soglia della mera valutazione morale, in sé paralizzante, per trasformarsi semmai in motore d’opposizione. Si tratta di un effetto perverso della comunicazione sociale: partendo dalla premessa che la conoscenza di una tragedia costituisca di per sé un tassello fondamentale della pedagogia pubblica, la lettura della storia come un succedersi di catastrofi ne comprime quello che invece è anche soprattutto un tempo dove l’idea d’emancipazione prende corpo e assume sostanza, creando quindi coesione collettiva. [….] Richard Rechtman, nel suo testo ad indirizzo critico “le vite ordinarie dei carnefici”,benché non intenda fornire al lettore un testo onnipresente sul Novecento delle carneficine….., tuttavia indaga sulle modalità con le quali è necessario porsi dinanzi all’eredità degli omicidi di massa motivati fa una qualche ragione di stato (o ideologia politica o religiosa). L’autore antropologo e psichiatra, direttore di ricerca presso l’école des hautes études en sciences sociales di Parigi, su una vicenda poco o nulla studiata in Italia, con eccezione di Matilde Gallari Galli (con il suo volume su Pedagogia del totalitarismo, di oramai venticinque anni fa,ossia sul genocidio cambogiano. [….] Più che un libro sulla specificità di quell’evento, e sulla sua storia, si ha tuttavia a che fare con un testo che, partendo dalla contemporaneità di quei fatti, si muove verso la definizione di categorie interpretative che possono fungere anche nella comprensione di altre tragedie collettive. Tra di esse ad esempio, quelle che hanno attraversato il Kurdistan iracheno nell’ultimo decennio, con la presenza criminale dell’Isis. L’articolazione in cinque capitoli (cronache di carnefice, godimento e crudeltà del mostro, l’uomo ordinario e le sue patologie, amministrare al morte e l’ordinarietà del genocida) risponde quindi all’esigenza di fornire al lettore alcune chiavi di interpretazione applicabili anche in contesti tra loro differenti. […..] Non si tratta di disegnare delle maschere o dei costumi facilmente intercambiabili, nè di definire degli idealtipi negativi. Piuttosto, attenuando il convincimento ancora diffuso per cui sarebbe solo ed esclusivamente una qualche ideologia a fare la differenza tra i crimini e il suo rifiuto, per Rechtman fondamentale è invece l’insieme delle relazioni sociali che inducono più individui a commettere gesti estremi, creando una sorta di solidarietà e di reciprocità tra carnefici. Il vero fuoco d’indagine, quindi, non sono i costrutti morali e neanche le trame politiche bensì il tessuto socio-culturale che genera l’accettabilità delle catastrofi, in quanto esito plausibile dei grandi rivolgimenti, nel passato così nel presente. Lo scavo è quello antropologico (od etno-antropologico)cercando di sondare il rapporto tra le soggettività criminali, il substrato mentale che renda accettabile l’agire omicida, dispositivi culturali diffusi e condivisi nonché le condizioni oggettive, ovvero quei contesti storici nei quali qualsiasi idea di palingenesi, o di riforma della collettività, passa attraverso la pratica dell’eliminazione fisica, biologica, civile di una parte di esse. L’autore non offre letture ed interpretazioni del tutto inedite. Il solco che segue è, semmai, quello affermatosi da una ventina d’anni, dell’etno-antropologia adottando questo ampio spettro disciplinare come strumento per guardare ed indagare all’interno dell’incoscienza del carnefice.”

Frammenti analitici e critici tratti dall’articolo: “La Soah e il paradigma vittimario del Novecento”, di Claudio Vercelli, il Manifesto, culture, il 20.1.23)

Poetiche romanes

Gelem Gelem

Inno internazionale adottato al 1 Congresso mondiale dei Rom, anno 1971. Prima strofa dell’inno internazionale dei Romanì, composto dal musicista romanì Zarko Javanovic (1925-1985), musicista che subì una lunga carcerazione durante il Porrajmos (divoramento) o Samudaripen (grande morte o genocidio) (2)

Gelem, Gelem Inno internazionale nella lingua standard romanes

Ho camminato e camminato

Ho camminato, e camminato per lunghe strade,

ho incontrato rom fortunati (felici)

Ehilà, gente rom?

Da dove venite con le vostre tende e i vostri bambini affamati?

Oh, gente rom!

Oh, fratelli!

Anch’io avevo una grande famiglia, l’ha sterminata la Legione Nera.

Uomini e donne rom furono squartati, e tra di loro anche bimbi ancora piccini.

Oh, gente rom!)

(Oh,sorelle!)

Dio, apri le nere porte, affinché io possa vedere dov’è andato il mio popolo.

E tornerò a camminare per le strade,

e le percorrerò con fratelli e sorelle rom gioiosi.

Oh, gente rom!

Oh, fratelli!

Oh sorelle!

In piedi, rom!

Ora è il momento, venite con me,

rom di tutto il mondo con i vostri volti bruni e vostri occhi scuri tanto desiderabili come l’uva nera. Oh gente rom!

Oh, fratelli!

Oh, sorelle!

Piccoli cuori morivano

Erano gli anni della persecuzione, dei rastrellamenti quotidiani e del porrajmos. Allora, per sottrarsi a tutto questo orrore, le genti Romanì si nascondevano nei boschi; però là in quei nascondigli, sopravvivere non era così facile, di conseguenza questa povera gente per non farsi avvistare o catturare dalle continue perlustrazioni nazi-fascisti, non doveva accendere fuochi né di giorno né di notte, ed in queste condizioni estreme dettate da inverni rigidi e freddi, accadeva che bambini e anziani Rom morissero in gran numero per freddo e per fame.

Ratvalè jasvà (lacrime di sangue)

Nel bosco senz’acqua, senza fuoco – grande fame.

Dove dormiranno i bambini?

Non c’è una tenda.

Non si può accendere il fuoco durante la notte, di giorno il fumo dà l’allarme ai tedeschi (ai nazi). Come vivere con i bambini nel duro inverno?

I fiocchi di neve cadevano sulla terra, sulle mani come piccole perle.

Occhi neri gelavano

Piccoli cuori morivano.

Testo della poeta partigiana rom polacca Papusza

Jasenovac fu campo di lavori forzati e di sterminio in Croazia tra 1941-45, considerata assieme a Buchenwald , la terza Auschwitz, quella dei Balcani.

Qui sono stati sterminati 750.000 slavi del sud , 60.000 ebrei e 26.000 Rom dei Balcani, sono state esercitate e documentate atrocità inenarrabili, come uccidere 8.000 bambini, molti tra loro straziati sbattendo le loro teste contro le pietre o sgozzandoli con un coltello, regime clerico-fascista ideato da Ante Pavelic, il capo della Repubblica degli Ustasha.

Jasenovac fu un campo gestito dagli Ustasha, i fascisti croati , che agivano in stretta collaborazione con i francescani croati, che davano copertura ideologica a tale macchina artigianale della morte, ispirati dal cardinale Alojz Stepinac ex cappellano militare (beatificato da Wojtyla negli anni ‘90), che salutò l’esercito degli Ustasha “come i rappresentanti legittimi della Chiesa Divina’ e partecipò attivamente a propagare con loro l’odio razziale e religioso contro le minoranze locali e non cattoliche, incitando apertamente al loro sterminio”.

Nel 1942 il responsabile di Jasenovac riferiva direttamente a Pavelic: In un anno, soltanto a Jasenovac, abbiamo ammazzato più gente di quanta ne sia riuscita ad ammazzare l’impero turco-ottomano in tutta la permanenza dei turchi nell’Europa balcanica.”

Anche se Stepinac fu costretto in seguito alle informazioni che circolavano sulla ferocia perpetuata ad Jasenovac a fare tenue critiche a quel campo di sterminio che definì in alcune limitate prediche “una vergogna per il popolo croato”, ma non fece mai dichiarazioni pubbliche contro tale campo e i suoi efferati crimini.

E’ stato dimostrato in seguito che le gerarchie ecclesiastiche cattoliche e lo Stato del Vaticano erano a conoscenza di tale aperta complicità dei religiosi cattolici. Un silenzio assordante.

Hanno calpestato il violino zingaro

Cenere zingara è rimasta

fuoco e fumo salgono al cielo.

Hanno portato via gli zingari

I bambini divisi dalle madri le donne dagli uomini

hanno portato via gli zingari.

Jasenovac è piena di Zingari legati ai pilastri di cemento

pesanti catene ai piedi e alle mani

nel fango in ginocchio.

Sono rimaste a Jasenovac le loro ossa denuncia di disumanità.

Altre albe schiariscono il cielo e il sole continua a scaldare gli zingari.

Erano tre fratelli

Cresciuti insieme s’abbracciavano,

s’amavano ma non presentivano che cosa sarebbe avvenuto loro.

Un fratello di notte hanno portato nel campo di concentramento (Konzentrationsbereich)

Sono rimasti due fratelli

Speravano che tornasse.

Ed essi cantano la canzone della sua lontananza.

Tre fratelli uno dietro l’altro fusi in un essere solo divisi per sempre lontano l’uno dall’altro.

Sono rimasto in bilico ad Auschwitz

Sono rimasto in bilico

Sulla lama di un coltello

Sono rimasto gelato come la pietra.

Il mio cuore tremò sono caduto sul filo del coltello.

M’è rimasto la mano destra e l’occhio sinistro

ho versato lacrime ad Auschwitz dove sono rimasti gli zingari.

La lacrima è scesa

la mano ha preso la penna per scrivere parole qualunque

Testi poetici di Rasim Sejedic e di Papusza tradotti dal romanes dal glottologo Angelo Arlati

Non è accaduto ma può accadere ancora con quegli ossessivi e rancorosi messaggi che si rincorrono sui social e non solo, che risvegliano antichi fantasmi di purezza delle razze e delle nazioni (non più genetiche ma culturali)con quelle quelle ambigue espressioni sovraniste “prima gli italiani” o quelle altre che additano il pericolo che le nuove migrazioni possono provocare una “sostituzione etnica” , ma scordandosi che noi moderni europei siamo delle ibridazioni umane, culturali, linguistiche mediterranee, romano-barbariche e fatte e rifatte di molti altri geni e memi terrestri(Sapiens e non Demens). Infine per contrastare questo”eterno ritorno ed eterno fascismo” si richiederebbe di accompagnare alla nostra giusta indignazione, azioni comuni d’inclusione sociale e culturale dei sopravvissuti e delle affini nuove generazioni, al fine di disattivare stigmi, pregiudizi, risentimenti e reattività rancorose che continuano ad affiorare nella storia.

Testi poetici romanì tratti dall’antologia meglio atlante poetico per la presenza transnazionale dei romanì,auto-prodotta da Pino de March, cofondatore ed ricerc-attivista di Comunimappe, ed. Versitudine 2022

Testo: stermini dimenticati e lunghi silenzi su mancate inclusioni elaborato da Pino de March Pino de March: ricerc-attivista e docente di Comunimappe -libera comune università -pluriversità bolognina e membro onorario dal 01.01.2023 del Mirs -Mediatori culturali rom e sinti (dopo esserne stato vice-presidente fino al 31.01.2022)

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