QUARTA FESTA ZIGANA 2021

Una sera intorno al fuoco, bocche per parlare, indispensabili al mondo”. Joska Fontana,poeta sinto – romanì

Sabato 25 settembre 2012

dalle ore 18,30 alle 21,30

AL CENTRO SOCIALE DELLA PACE- VIA DEL PRATELLO 53 -BOLOGNA

MOSTRA FOTOGRAFICA -PORAJMOS, LO STERMINIO NAZI-FASCISTA DEI ROMANì IN EUROPA

(Testi: ricerca visiva e grafica di Raffaele Petrone, ricerca storica e didascalie di Matteo Vescovi)

Piccoli cuori morivano

“Nella foresta senz’acqua,

senza fuoco,

è la fame.

Dove dormiranno i bambini?

Non c’è un focolare!

Accendere il fuoco nella notte è impossibile.

La luce ed il fumo danno l’allarme ai nazi-fascisti.

Come possiamo vivere con i bambini nel duro inverno?

I fiocchi di neve cadono sulla terra, sulle mani come piccole perle.

Occhi neri si gelavano.

Piccoli cuori morivano. Papuzsa,una poeta partigiana romanì polacca.

Erano gli annni delle persecuzioni, dei rastrelallamenti, delle fucilazioni quotidiane e del Samudaripen (grande morte nella varante linguistica sinta-romanes) e Porajmos (grande divoramento nella variante lingustica rom-romanì), da parte delle truppe nazifasciste occupanti la Polonia. Allora, per sottrarsi a tutto questo orrore, le genti romanì si nascondevano nei boschi; però là in quei nascondgli, sopravvivere non era facile, e di con seguenza questa povera gente per non farsi avvistare o catturare dalle continue perlustrazioni nazi-fasciste, non dovevano accedere fuochi nè di giorno nè di notte, per ritrovarsi tutti e tutte a fine giorno attorno ad un fuoco, o per riscaldarsi in queste condizione estreme da inverni rigidi e freddi, accadeva che bambini ed anziani romanì morissero in gran numero per freddo e fame.

Attività di Cooperazione trans-culturale per la realizzazione dell’evento- Quarta festa zigana 2021:

Testo redatto da Pino de March, ricerc-a-t-tore poetica e psico-relazionale di Comunimappe e vice-presidente del Mirs- Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti

Testo grafico redatto da Raffaele Petrone, ricerc-a-t-tore visivo di Comunimappe e socio del Mirs-Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti

Francesca Vacanti ricerc-a-t-trice cucina creativa di Comunimappe e socia e segretaria del Mirs-Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti

Tomas Fulli, Mediatore per comunità urbana Sinta di Bologna e Presidente del Mirs- Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Aghiran, Mediatore per al Comunità urbana Rom di Bologna e socio del Mirs – Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Marina Cremaschi, ricer-a-t-trice intersezionale di Comunimappe e socia responsabile comunicazione del Mirs -Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Lucia Argentati, docente e attivista Cobas-Scuola e socia del Mirs – Mediator@ intercultural@ Rom e Sinti.

Basta elettroshock! Urlata per mezzo secolo scorso da Edelweiss Cotti e Giorgio Antonucci, e tuttora ignorata ed inascoltata da una certa ottusa e crudele psichiatria che si scherma dietro ad un’oggettività fredda e manualistica.

Edelweiss Cotti e Giorgio Antonucci in un sodalizio alterno hanno costruito “zone temporaneamente liberate” ove far emergere in contesti mutanti:

impensabili relazioni umane e sociali ed autentiche soggettività all’interno di istituzioni di totale assoggettamento e anichilimento di ogni esistenza umana )

Basta “terapie” mutilanti elettrocompulsive!

Voglio mettere attenzione o far aprire gli occhi,

ai miei ormai più virtuali che presenti amic* e conoscent* per via di una combinata sindemia

( di problemi di salute , ambientali e sistemici eco-antropo-socio-economici ecc.) prodotti dall’interazione sinergica tra più pandemie: virali, diseguaglianze sociali e territoriali, ecocidi, crisi climatiche planetarie e genocidi delle popolazioni native e non solo) che ci travolgono tutt* in queste ere geo-culturali congiunte antropo-capital-ceniche,

a cui s’aggiunge un fenomeno ricorrente, silente e nascosto ai molti,

di una persistente, ottusa e violenta pratica psichiatrica, quale l’elettroshock,

in rari casi con il consenso dei pazienti, ma nella generalità degli altri casi con il consenso strappato a familiari inesperti e frastornati da traumatici eventi occorsi ai loro parenti depressi o con rilevanti problematiche psichiche,esistenziali e sociali.

Si tratta di cosiddette “terapie elettrocompulsive” praticate quotidianamente in centinaia d’indistinte strutture sanitarie pubbliche e private, sparse per l’Italia, e su migliaia di pazienti “psichiatrici” di ogni genere,orientamento sessuale e generazione.

Per illustrare ai miei contatti questa arcaica ed atroce pratica psichiatrica come del resto accade per il Tso (trattamento sanitario obbligatorio),

vorrei avvalermi di una voce autorevole dell’antipsichiatria il dott. Edelweiss Cotti, intellettuale specifico in senso gramsciano, cioè determinato a conoscere, scavare, ricercare, nello stesso tempo impegnato a contrastare-trasformare con saperi e perizie mirate ogni forma di disumanità ed alienazione sociale e mentale presente nelle istituzioni psichiatriche e nella società del suo tempo , da ritenersi a tutti gli effetti l’antesignano di ogni forma di dissidenza attiva psichiatrica nel nostro paese.

Alla fine degli anni ’50 del secolo scorso scandalizzò e preoccupò molti degli amministratori politici e tecnici, dei colleghi con formazione professionale legata a visioni ed approcci tradizionalisti di medicina bio-medica o di psichiatria organica,

colleghi che s’attardavano ancora a ritenere il malessere psichico ed esistenziale ( o quella che nel senso comune viene chiamata “pazzia” o “follia”) come una forma di “malattia mentale”,

con un suo tentativo tralaltro riuscito,

ed è proprio a Bologna che il dott. Edelweiss Cotti, nell’ottobre del 1954, fidandosi di quella disconosciuta, diffidata, disperata, agitata umanità,osa l’impensabile come aprire le porte del reparto, togliere le contenzioni meccaniche psichiatriche che utilizzano mezzi fisici (lacci, catene,camice di forza),ridurre i mezzi chimici (psico-farmici), e sospendere definitivamente i mezzi elettro-chimici (elettroshock,ed insulina);

contenzioni fisiche le prime che immobilizzavano i pazienti ai letti, le altre come le elettroconvulsioni(elettroshock) e i mezzi chimici (psicofarmaci ed insulina) che agiscono in modo passeggero e sintomatico, ma non sulle presunte cause organiche della cosiddetta “malattia mentale”, anzi tali terapie bio-tecno-mediche inducono illusioni di guarigione, che si traducono alla lunga in delusioni, che portano i pazienti-degenti ad auto-convincersi che, se tali terapie non funzionano su di loro, vuole dire proprio che sono dei malati inguaribili e che per questo hanno bisogno di dosi sempre più crescenti di psicofarmaci e elettroshock, fino alla tossicità e paralisi psico-corporea ;

Cotti e la sua equipe socio-sanitaria dopo aver tolto definitivamente le contenzioni fisiche e le terapia shock elettrica ed insulinica, passeranno alla progett-azione di una rapida limitazione progressiva delle terapie chimiche(psicofarmaci), che devono portare ad una riduzione totale di esse,che saranno sostituite via via da terapie attive- situazionali-relazionali (dialoghi duali, terapie di gruppo, attività creative,attività quale il prendersi cura degli spazi dentro e fuori del reparto come giardinaggio, manutenzione, cucina ecc.)

nientemeno che ai pazienti del reparto IX dell’Ospedale Psichiatrico F. Roncati, proseguendone poi o ripetedendone negli anni successivi l’esperimento, prima al neuropsichiatrico maschile di Villa Olimpia sui colli bolognesi, e poi a Cividale del Friuli, con l’amico Giorgio Antonucci, in qualità di medico assistente volontario, il dott. Tesi,in qualità d’aiuto, ed Annalena Capadelli,in qualità di assistente sociale, e tre assistenti sanitarie Franca Cattarinuzzi,Andreina Bruni e Miranda Tusulin,alcune di loro lo avevano seguito da Bologna e altre dalla Gorizia di Basaglia, accompagnandolo in queste esperienze pilota, formavano un équipe che si era aggregata e consolidata nel corso del tempo con buon coefficente di trasversalità , ” i titoli non avevano alcuna importanza tra noi, ci ritenevamo e lavoravamo alla pari, con ruoli perfettamente interscambiabili” , racconterà il dotot. Cotti, senza il quale non avrebbero potuto avere quella determinazione ed impegno a tutti e tutte comuni, che era liberare quelli esseri umani prigionieri di giudizi, stigmi e pregiudizi non solo psichiatrici ma anche antropogici e sociali.

Il dott. Cotti come un antico argonauta e timoniere di una “nave di folli” più correttamente di naufraghi provenienti da tempeste esistenziali, e da condizioni di alienazione sociale e mentale del nostro dopoguerra, giovandosi di un piccolo equipaggio di infermieri/e, assistenti sociali e sanitari, osò attraversare quel mare malinteso, temuto e sconosciuto della “follia”, mare che pochi altri argonauti e timoniere avevano intrapreso di navigare e conoscerne le oscure dinamiche in altri paesi europei:

F. Tosquelles a Saint-Alban, Francia -tra il 1939 e il 1945, David Cooper con Roland Laing a Londra -nel 1967-, e Basaglia a Gorizia -nel 1961; Thomas Szasz a New York negli anni sessanta, Giorgio Antonucci a Cividale ed Imola negli anni 60-90, Gisella Frontini ad Imola negli anni settanta e poi altri ed altre.

“la psichiatria” italiana è stata arricchita incalcolabilmente da Giorgio Antonucci. E’ possibile considerarlo un bravo psichiatra (qualunque sia il significato della parola): ed è vero. E’ anche possibile considerarlo un bravo antipsichiatra (qualunque sia il significato della parola): e questo è altrettanto certo. Preferisco considerarlo una persona rispettabile che mette il rispetto per il cosiddetto “pazzo” al di sopra del rispetto della professione. (Il pregiudizio psichiatrico, Eleuthera – 1989)

Queste esperienze porteranno a nuove conoscenze e a nuove modalità di relazione con la sconosciuta sofferenza e fragilità esistenziale che riguarda tutti gli esseri umani quali:

il considerare il malessere psichico ed esistenziale non alla stregua di una malattia organica o mentale;

l’empatia e la socialità che nasce nei dialoghi duali e nelle assemblee e collettivi di personale e pazienti come mezzo maieutico (attraverso il dialogo di giungere a verità, ma nel nostro caso anche ad auto-analizzare condizionamenti e false coscienze che alienano socialmente e mentalmente);

avviare terapie attive di trasformazione di una società che aliena socialmente ed mentalmente, ed infine discrimina ed esclude;

ritrovare nel nuovo spazio terapeutico e di cittadinanza attiva nuove autentiche soggettivazioni e col nuovo approccio situazionale e relazionale sfidare lo stigma e la discriminazione dentro e fuori le mura dei manicomi;

il concetto di empowerment

(la consapevolezza di sè e del controllo sulle proprie scelte, decisioni ed azioni, sia nelle relazioni personali sia nella vita politica e sociale; ed indica anche un processo di crescita dell’individuo sia nel gruppo basato sull’incremento della stima di sè e dell’autodeterminazione per far emergere le potenzialità latenti per appropriarsi di esse), mediato dal mondo femminista, il quale dà rilevanza alle capacità di autogestirsi anche per i pazienti di maggiore gravità, ed incoraggiare le persone con problemi di sofferenza mentale e disagio esistenziale e sociale, ad impegnarsi in attività che assecondino le loro inclinazioni ed orientamenti esistenziali e culturali;

La sua fu una lotta non violenta attiva all’orrore alle miserabili ed indegne condizioni umane che aveva trovato da giovane assistente medico all’ospedale Roncati, e le sue attività orientate alla trasformazione e de-istituzionalizzazione dell’ambiente psichiatrico paralizzante, custodialista, repressivo ed alienante,attività comparabile a quella di altri/e intellettuali impegnati altrove ad organizzare in quelli stessi anni la disobbedienza civile su altre mission, per esempio

Danilo Dolci a Partinico periferia siciliana,si batterà per per garantire abitazioni degne e per

costringere il Comune attraverso uno sciopero alla rovescia ed ad oltranza di allestire infrastrutture, quali fognature pubbliche, che vadano a sanare rigagnoli di fogna che scorrevano a cielo aperto negli spazi di gioco e di vita dei bambini,ma anche di attivare forme di pedagogia e politica attiva;

per questo s’avvalerà della psicologia umanistica rogersiana e della maieutica socratica nell’educazione degli adulti come dei bambini e giovani, inventando ed immaginando una forma circolare di democrazia di base mirata alla formazione civile e sociale, e capace di generare nuove relazione umane e sociali.

E lo stesso fece lo psicologo dello sviluppo umano Gerarde Lutte,

che operò in queste nuove periferie ove erano confluiti in massa migranti interni del sud nella Borgata romana di Prato Rotondo a Roma;

Lutte agì con altri/e della comunità dissidenti cristiane di San Paolo fuori le mura dell’Abate Franzoni, e le organizzazione di base e di lotta della nuova sinistra,

tra quelle baracche improvvisate, impegnandosi con bambini e giovani di strada a dare loro educazione ed organizzare con gli adulti lotte per il diritto all’educazione, istruzione, casa e lavoro.

Le mie vacanze erano sempre impegnate come attivista politico-sociale, ricercatore curioso ed indignato socio-analista per la miseria materiale e culturale crescente che vedevo attorno a me;

Nell’inverno del 1972 arrivai a Roma con una ‘500 bianca guidata dall’Abate Franzoni che avevo conosciuto in una di quelle conferenze dei dissidenti cristiani di Com – Nuovi Tempi a Padova sull’agire delle comunità cristiane di base e dissidenti nei confronti di una chiesa romana più osteggio dei potenti immobiliaristi padroni delle città che al servizio delle nuove povertà urbane, dell’educazione, della ricerca attiva e delle lotte sociali a fianco dei diseredati e migranti interni confluiti in massa in quelli anni di rapida industrializzazione nelle borgate romane.

Nel l’estate del 1973, ebbi modo conoscere Gerarde Lutte, di passare delle giornate con lui tra i ragazzi/e di quella borgata ed accompagnarlo in quelle sue estenuanti – gioiose attività psico-socio-pedagogiche (doposcuola ed altre attività di sostegno psico-sociale verso quei nuovi nuclei affettivi e familiari che disperavano di ogni bene materiale ed esistenziale).

Anche se Danilo Dolci, Gerarde Lutte ed Edelweiss Cotti non si conoscevano, con

certezza avevano in comune l’impegno attivo, pacifico e disobbediente contro ingiustizie e stigmi sociali, condizionamenti alienanti e le false coscienze che colpivano duramente quelle miserabili esistenze.

Entrambi avevano attraversato la guerra e la resistenza antifascista, Danilo Dolci anche rifiutandosi d’indossarne la divisa nazi-fascista di Salò e di riparare esule tra i pastori e i i monti abruzzesi.

.

Ed a proposito dell’elettroshock Cotti così si espresse nelle sue memorie “contro la psichiatria” : ” Vorrei precisare le mie idee sull’elettroshock. Questa scossa elettrica applicata alle tempie produce, tutte le volte che ne viene somministrata, un eccesso convulsivo simile a quello di cui soffre l’epilettico e sul cervello provoca la comparsa di numerosissime microemorragie cerebrali.

Gli effetti dell’elettroshock sembra risultati negli stati depressivi, comunque provocano notevoli disturbi della memoria ed una notevole diminuzione della capacità ideativa.

Non si conosce il meccanismo per cui produce spesso i benefici effetti momentanei nelle depressive;

che non si conosca il meccanismo d’azione è dimostrato anche dalle troppe teorie al riguardo.

A mio vedere l’elettroshock è sempre è sempre pericoloso, prima di tutto a causa delle microemorragia che distruggendo sostanza cerebrale vengono a diminuire il patrimonio mnemonico del cervello, in secondo luogo perché consolidano nel paziente il concetto di malattia mentale anche quando s’ottengono degli apparenti, buoni risultati.

In terzo luogo perché forse il miglioramento avviene per il deficit della memoria che ne risulta e che è non tanto passeggero come sostengono i suoi fautori, quanto spesso, definitivo, tale comunque che facendo dimenticare: problemi o parte di essi, permette un momentaneo sollievo al prezzo di un terribile inganno.

Infatti i problemi non sono stati affrontati, anzi addirittura vengono ignorati;

per forza di cose al primo accenno di burrasca, ci si ricasca in condizione peggiori delle precedenti.

Eseguire l’elettroshock significa dunque diminuire consapevolmente la sostanza organica del cervello, in più di cent’anni di ricerche sistematiche eseguite con ogni mezzo, nessuno ha mai dimostrato che in questi casi esista, in esso una sofferenza.

Per un altro paragone, sarebbe come desiderare e pretendere da un cervello elettronico delle risposte che non è in condizione di dare a causa della sua costruzione e, dopo inutili sforzi, applicargli una sorgente di corrente elettrica ad alto voltaggio nella speranza che la situazione si modifichi in meglio.

Certamente la situazione si modificherà ma non certo nel senso desiderato: si avrà solo qualche valvola in meno bruciata perché bruciata dall’eccesso di corrente.

Fare l’elettroshock ha lo stesso senso.

Non c’è dubbio che il problema dell’elettroshock quale mezzo terapeutico di larghissimo consumo dovrebbe essere affrontato anche dal Ministero della Sanità, a tutela della salute pubblica, così come avviene per ogni altro mezzo terapeutico farmacologia.

Perfino il suo inventore, il Prof. Cerletti, negli ultimi anni della sua vita si rese conto dei pericoli insiti in tale tecnica, fino al punto che a Napoli, durante un congresso di psichiatria, sostenne che sarebbe stato molto più tranquillo se non l’avesse inserito fra i mezzi terapeutici, dato l’uso o l’abuso che se ne faceva.

Ho già detto che danni provocati dalle microemorrogie.

Ho già accennato ai disturbi della memoria, c’è da notare in proposito che non si tratta di disturbi lievi come affermano i sostenitori dell’elettroshock;

per i ricordi recenti si hanno delle amnesie imponenti e quasi sempre definitive, come dimostra il caso di un giovane che studiava tedesco da un anno e che dopo una serie di dodici elettroshock non fu più capace di ricordare una sola parola in tedesco.

E’ noto come per la neuropsichiatria infantile e la pediatria la comparsa di accessi convulsivi spontanei nel bambino sia da combattere e prevenire ad ogni costo appunto per evitare danni dell’accesso convulsivo sullo sviluppo psichico del bambino, che come tutti sanno viene danneggiato in misura proporzionale al numero di accessi subiti.

Non mi si risponda che nell’adulto l’accesso convulsivo dall’elettroshock ha degli effetti meno importanti, perché ricorderei che l’elettroshock, se somministrato a dosaggi due-tre-quattro volte superiori a quelli medi (come fanno coloro che desiderano ottenere, per i cosiddetti scopi terapeutici, l’annichilimento del paziente), riduce il soggetto a vivere una vita quasi esclusivamente vegetale.

Se con un dato numero n di elettroshock si ottiene la scomparsa pressoché totale di ogni attività psichica, l’annichilimento, con un numero pari a N/2, N/3, N/4 , si otterrà in proporzione la distruzione di una parte più o meno grande del patrimonio psichico.

Se questa mutilazione artificiale fosse sostenuta da spiegazioni convincenti circa la sua utilità la si potrebbe accettare (come si accetta per forza maggiore un intervento chirurgico mutilante, nel caso, per esempio, di un tumore) ma nella situazione esistenziale nella quale viene somministrato l’elettroshock non c’è bisogno dell’azione mutilante che apparentemente sana la situazione.

C’è bisogno invece di capire, di aiutare a superare e a rompere l’isolamento, c’è solo da modificare una situazione esistenziale.

Forse, per onorare degnamente la memoria di Cerletti e in sostanza seguirne il desiderio, è bene limitare l’uso dell’elettroshock all’uccisione dei porci, come si faceva ai tempi in cui egli cominciò a studiare l’effetto proprio sui maiali.”

Voce “elettroshock” tratta dalle memorie “contro la psichiatria” -1970 -di Edelweiss Cotti-

Per me che sono divenuto un consapevole ecologista sociale e della mente ed un antispecista ed animalista, tali pratiche di tortura violenta e mortale sugli animali mi addolora quanto mi indegna quella sugli umani;

(ma ) usando una congiunzione avversativa molto presente nelle scritture- memorie di Cotti, per le conoscenze anche esperienziali seppur brevi con il dott. Cotti, per averlo conosciuto e soprattutto per il fatto che, attraverso i suoi rapporti di cooperazione e ricerca con la cattedra di Sociologia II,dell’Istituto di Scienze sociali e politiche di Padova,corso che in quell’anno 1973-74 frequentavo, e che trattava specificatamente delle istituzioni totali (manicomi, carceri, collegi minorili ecc), alla fine dell’anno ai noi frequentanti ci fu proposto dai docenti, se volevamo recarci ad Imola all’Ospedale psichiatrico il “Lolli” diretta dal dott. Cotti come volontari ricercatori attivi, ove era in corso nei reparti della dott.ssa Gisella Frontini un’attività di ri- umanizzazione e ri- socializzazioni di pazienti dei suoi due reparti, uno di maschi adulti ed uno di donne adulte. E fu proprio per questa circostanza- esperienza che mi recai ad Imola e poi a Bologna, ove attualmente risiedo.

Ed inoltre avendo avuto modo di conoscere la sua empatia ed umanità che riservava ai pazienti- degenti, o ospiti come lui preferiva chiamarli, le sue parole dal suono cinico quali:”è bene limitare l’uso dell’elettroshock all’uccisione dei porci, come si faceva ai tempi in cui egli (Cerletti) cominciò a studiare l’effetto proprio sui maiali”, sono da iscriversi più nel suo linguaggio pop, iperbolico ed ironico, che anche questo era una caratteristica della sua complessa personalità; di Cotti per semplificare “si potrebbe dire che non farebbe male neppure ad una formica”, figuriamoci a dei maiali.

Per approfondimenti :

Testo tratto da: centro relazioni umane/antipsichiatria-bologna.net

Roger Pycha, primario di psichiatria all’ospedale di Brunico e noto sostenitore dell’elettroshock, in un’intervista alla “Tageszeitung” sudtirolese (quella di Arnold Tribus) sostiene, contro tutti/e, almeno in Italia, la bontà dell’elettroshock, con argomenti “soft”, oltre a tutto: A) minimizzandone gli effetti, dove, a parte la pratica in sé, la narcosi/anestesia locale ha notoriamente effetti anche sul piano strettamente medico (ogni anestesia, anche locale, è comunque un problema, come noto, persino in sede odontoiatrica – ciò vale a fortiori per ogni intervento chirurgico, anche piccolo – di scarsa entità); B) la protesta anti-elettroshock sarebbe, Pycha dicit (ma anche il giornale avalla questa tesi), un fenomeno soprattutto italiano e di sinistra, il che, in un pubblico sudtirolese favorisce la classica associazione Italiani=comunisti, con le conseguenze ben note.  Anche se Pycha (diamogli ciò che è suo, pur se, riprendendo e contrario le famose parole, non è né Dio né Cesare, almeno finora…) usa toni “soft”, ammettendo che prima l’elettroshock aveva funzioni punitive-di controllo sociale (come se ora non ne avesse…), anche sul piano psichiatrico estende la terapia elettroconvulsivante a categorie comunque non omologate, in genere, come i “maniaci”. Ora, a parte la giusta contestazione delle tassonomie psichiatriche (qui Szasz e Antonucci docent, non Pycha, ovviamente), neppure la limitazione dell’elettroshock a persone con “depressione grave” (Giovanni Cassano, per es.) al primario dell’ospedale brunicense basta più…   Fate voi…    Eugen Galasso 

il lato oscuro dell’elettroshock di Andrea Capoci

https://ilmanifesto.it/il-ritorno-oscuro-dellelettroshock

Testo di ricerche e memorie attive elaborato da Pino de March per Comunimappe

www.comunimappe.org

Riflessioni critiche intorno alle molte “vibrazioni di pancia” nei commenti social all’ennesimo femminicidio, quello della profuga e pastora etiope Agitu da parte di un suo collaboratore di ascendenza africana.

“Riceviamo la notizia che il sorriso bello ed impegnato della nostra cara Agitu Ideo Gudeta ha smesso di splendere” (Rural Hack)

Breve itinerariodi lotte e progetti eco-sociali ed d’inserimento progressivo di una studente e poi profuga etiope nel tessuto culturale, sociale ed economico del nostro paese.

“Agitu era arrivata a Trento nel 2010 dove era scappata dalle violenze degli scontri in Etiopia e dopo aver ricevuto diverse minacce del governo del suo paese, dove il problema principale era ed è quello del land grabbing (nota zero), gli espropri forzati dei terreni agricoli dei contadini per essere poi dati in mano alle multinazionali, per l’impianto di grosse coltivazioni mono-culturali per prodotti destinati all’esportazione(anche le sottrazione di prodotti di auto-sussistenza delle popolazioni locali).

Ed è proprio da qui che Agitu, assieme ad un gruppo di giovani iniziò la propria lotta per denunciare l”illegalità degli espropri.

Una battaglia che l’ha portata a ricevere minacce ed intimidazioni tanto da costringerla a prendere la decisione di scappare dalla propria terra.

Avendo studiato sociologia a Trento torna in Italia nel 2010 dove viene ospitata da amici, e avendo notato moltissimi terreni in montagna abbandonati comincia ad elaborare un progetto per il recupero (dei medesimi).

E’ riuscita a realizzare le nostre idee d’innovazione rurale, con la costituzione dell’azienda biologica – la capra felice -.

Una innovazione inclusiva, progressista, militante e ricca di senso”.

Testo tratto da Rural Hack (vedi nota 1)

Nel 2017 Agitu dichiarava all’Intenzionale (settimanale) : “L’Etiopia è un paese agricolo e queste politiche del governo riducono alla fame i contadini che sono costretti a lavorare per le multinazionali a 85 centesimi di dollari al giorno.”

Alcuni anni fa Agitu aveva rilasciato altre interviste e tra queste anche a “Il Dolomite”, giornale locale ed indipendente di Trento ed in essa sosteneva:

“Ci sono tantissimi terreni che non vengono coltivati in queste montagne trentine e possono diventare un’occasione importante sia per i giovani migranti ma anche per i ragazzi italiani che stanno cercando lavoro.

Potrebbero mettersi assieme, creare piccole cooperative dove tutti possono offrire le proprie capacità, dalla forza fisica alla propensione al marketing.

E’ un progetto che voglio portare avanti e mi sono già messa al lavoro”.

Penso però che dei migranti non bisogna solo evidenziare l’aspetto passivo della manualità come lascia intendere, ma far risaltare l’apporto attivo di quelle abilità rurali o saperi di coltivazione dei terreni, presenti in popolazioni provenienti da zone del sud del mondo ove l’attività agricola è ancora rilevante.

E riprendendo altre considerazioni e vissuti di Agitu sul – il Dolomite –: “All’inizio le persone che vivevano nelle zone montane non avevano mai visto una ragazza di colore e c’era molta diffidenza ma un può alla volta sono riuscita a conquistare la fiducia di tutti”.

Però l’invidia e il disprezzo di qualcuno serpeggiava tra loro.

“Nonostante fosse amata ormai da un gran numero di persone della comunità dovette spesso subire frasi del genere: – Brutta Negra -, – Voi non potete stare qua, tornatevene al vostro paese -, -devi morire-.

Due anni fa un’aggressione in casa della quale non riuscì a salvarsi, e tanti attentati alla sua azienda agricola e alle sue capre.”
Testo tratto da Rural Hack (vedi nota 1)

Le prime notizie dicono che ad ucciderla sia stato un pastore suo dipendente per motivi economici.

Quello che sconcerta non è solo l’atrocità del delitto “uccisione a martellate con abuso e stupro” ma i commenti sui social molti dei quali riflettono: “dolore intenso”, “tristezza”, “stupenda persona”, “orrore” altri invece pur empatizzando con Agitu, manifestando rabbia e disprezzo verso il colpevole, sia prima che dopo l’accertamento dell’identità del medesimo, fanno emergere una incomprensione delle dinamiche contemporanee che intercorrono nelle relazioni di genere, a volte banalizzandole, altre volte negandone il conflitto e la violenza che le attraversa;

sempre più frequentemente negli ultimi decenni anche nei paesi del nord pianeta,

si sono riaffacciate forme arcaiche di violenza contro donne ed Lgbtqi, femminicidi e omocidi, linciaggi, gogne digitali nel modo di trattare dei “delittti e delle pene” , o forme proiettive, reattive e rancorose in vere proprie vibrazioni di pancia;

e questo avviene nel nostro paese come in quelli dell’Europa continentale ove da tempo s’erano affermati modi critici e dialettici di trattare le questioni di genere, culture e sociali, dalle forme consuetudinarie a quelle formali di riconoscimento di diritti di genere, come l’accettazione d’orientamenti affettivi e sessuali differenti.

Altre espressioni denotano superficialità, fatalità, malvagità e crudeltà maschile, persistente razzialità di visioni colonialiste al nord del mondo, o una non detta arretratezza culturale che coinvolge il maschile del sud del pianeta.

In pochi casi si coglie le perturbanti contraddizione di genere che attraversano il pianeta con impliciti colpi di coda o tentativi espliciti di riproposizioni di culture patriarcali, maschiliste, omofobe e sessiste.

“Non è questione loro” (Fraces Tenti) nè semplicemente di “maledetto merda di uomo” (G.Nicotra)

Ripropongo alcune chat da pagine Facebook non della destra fascista,sovranista e leghista ma tratte dalle pagine del nostro mondo virtuale della sinistra democratica e diffusa indicando in modo contratto “nome, cognome e genere tra parentesi:

G.N (M)

“Questo bastardo deve pagare caro, maledetto merda di uomo, povera donna, che dispiace”.

PDM (M)
“Non solo maschi di merda come molti interpretano i femminicidi , ma soprattutto trattasi di una rinnovata eteronormatività (reale o immaginaria normatività eterosessuale) maschilista.

Il ritorno di consuetudini patriarcali dell’antico “Ius vitae necisque (diritto di vita e di morte), espressione indicante un potere dispositivo assoluto del pater familias. Nel diritto romano era il diritto del pater familias , capo indiscusso (o padre-padrone)di tutto il clan che conservava per tutta la vita con amplissime facoltà insieme ad un potere punitivo che si estendeva finanche della vita e della morte (vitae necisque potestas) su tutti coloro che era soggetti al suo dominio(mogli, figli, schiavi ecc) come quello, se ritenva di venderli come schiavi. Cristallizzando nelle XII Tavole quello che era già l’antico costume tribale.

V.S (M)

“Porci maledetti, razzisti e chi li difende!/!!

A.F (F)

“Un asteroide che ci spazzi via tutti, non c’è niente da salvare”.

M.L.B (F)

Veramente dovrebbe spazzare facendo una selezione e ne troverebbe lo stesso molti”.

L.P (M)

“Troppi merdosi e fassista in Italia”.

F.S (M)

“Maledetti razzisti. In galera a vita”.

K.V. (F)

“Ma quali razzisti?

L’ha uccisa un africano tentando di stuprarla mentre era a terra agonizzante.

Un ghanese di 32 anni”.

P.D.M (M)

“Purtroppo la mano femminicida è riconducibile ad una cultura trasversale sul pianeta maschilista, sessista e patriarcale.”

P.D.M (M)

“Nell’Italia meridionale del dopoguerra ma anche in altre parti d’Italia era consuetudine esercitare un abominevole ‘vendetta malintesa come giustizia’ per offesa a reputazione della famiglia o a soggetti considerati nei fatti possessi-proprietà maschili.

Il delitto d’onore era un reato compiuto da un reo con il fine di tutelare il proprio onore e la propria reputazione, contemplato dal codice penale italiano fino al 1981. (Fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975 che ne prevedeva la sua abrogazione (cancellazione).”

“L’omicidio d’onore regolato dall’art. 587 c.p. prevedeva la pena, decisamente clemente , della reclusione da tre a sette anni per chi uccideva il coniuge, la figlia o la sorella “nell’atto in cui ne scopre la legittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onore della sua famiglia”.

La stessa pena era prevista per chi uccideva, in tali circostanze, la persona che si trovava “in illegittima relazione carnale con il coniuge, la figlia o la sorella.”

Il delitto d’onore poteva essere commesso sia da un uomo che da una donna, senza alcuna differenza nel trattamento sanzionatorio. Però nella totalità dei delitti si documentata una prevalenza dei femminicidi sugli omicidi.

Le stesse consuetudini patriarcali e femminicide le troviamo non sanzionate ancora oggi in molte parti del mondo (dal Pakistan, passando per l’Albania, l’Iran, Palestina, paesi asiatici ecc).

A.T (F)

“Quel che è triste che si tratta di femminicidio, e non è trattato come tale”.

“Le prime notizie riferivano sì, che era stata uccisa da un suo collaboratore, dipendente, facendolo sembrare come una questione loro”.

M. B (F)

“L’avevo vista l’anno scorso ad un servizio di Geo&Geo …

Un esempio straordinario d’integrazione.

Mannaggia!.

Avevo pensato che fosse proprio una donna straordinaria.

Fanculo.

Ammazzata a martellate dopo essere stata stuprata, e proprio da un suo collaboratore.

Non è finita la strage di donne?

Non è possibile andare avanti così.

Basta!!

P.M (M)

“Stupenda persona!

Chi è stato abbia il massimo della pena”.

S.Z (M)

“Ergastolo e basta….riposa in pace Gudeta”.

PDM (M)

“Ergastolo. No!

(Se intendete per tutta la vita)

Sì ad una giusta sentenza di condanna. Il carcere nel nostro ordinamento costituzionale ha la funzione non solo di punire e sanzionare il colpevole, ma di far prendere coscienza al detenuto dell’offesa arrecata agli altri/e o per la vita sottratta ad altri/e, e poi per essere avviato a pena scontata, ad un inserimento nella vita civile da civile, e da umano tra umani.

(Ed in questo caso un lavoro analitico con altri uomini violenti e maltrattanti sulla violenza maschilista che li attraversa).

E’ necessario comunque avviare un processo diffuso di autoanalisi tra noi maschi per rimettere in discussione queste pratiche violente e visioni patriarcali che c’abitano”.

A.T (F)

“PDM sei troppo buono!”

G.R (M)

“Beh sì, la rieducazione è una delle funzioni della pena.

P.P (F)

“Che pena rieducativa?

Ergastolo a vita!.”

S.M (F)

“Per che fare?
Hai tolto deliberatamente la vita ad una persona, chi ti deve rieducare?”.

G.R (M)

S.M: Leggiti Beccaria. Non è che a me non vibri la pancia e venga voglia di fargli una sassaiola (linciaggio e lapidazione, sottinteso )

Ma la società civile è un pò più complessa”.

S.M (F):

“No! Non intendo quello (linciaggio e lapidazione), sono anch’io favorevole alla riabilitazione anche su altri campi, ma se uccidi una persona ossia gli togli la vita perchè tu hai deciso così, bé non rimani sempre in carcere a vita.. se poi dopo 30 anni sei un’altra persona allora se ne parla… non è che inneggio alla legge del taglione (dente per dente, occhio per occhio)”.

P.D.M (M)

“P.G in che senso omicidi e ragazzinicidi?”

P.G (M)

“Nel senso che scrivo molte donne usano violenza sugli uomini.. nel senso che esistono ominicidi e femminicidi e ragazzinicidi”.

P.G (M)

“Io forse ho prove”.

P.D.M (M)

“Se sei ancora vivo, questa è la prova casomai dell’esistenza del bullismo, delle prevaricazioni o dell’uso strumentale anaffettivo che possono riguardare anche il “femminile” come tu sotto-intendi, direi rovesciamento in forma modernista “femminile” dell’etero-normatività maschile, e questo ci sta

(ciò che stava sotto viene posto sopra senza cambiare i rapporti di dominio tra i generi),

domini entrambi che restano di natura o cultura primatista patriarcale o paritaria matriarcale ( anche se in molte di queste culture è coadivuata nell’esercizio del potere dalla figura del fratello della madre o dello zio), a differenza invece di quella pacifica matrista, e critica femminista o intersezionale transfemminista ,ove risalta la condivisione nelle relazioni materiali come esistenziali;

tutto si evidenzia nelle tue sofferte parole che esprimono sincera rabbia.

(Pater et mater +arché , parole composte che indicano l’origine del potere-dominio o sistema di antropologico di dominazione delle relazioni).

“Matrista” è invece in – concetto,affetto e percetto – che in qualche guppo di ricerca femminista (area la “Comune” e non solo) utilizza forse avvalendosi delle ricerche di un’antropologa lituana dell’est Europa, Marja Gimbutas, che indica con questa espressione l’esperienza dell’orizzontalità -non violenta e relazionale – delle donne nelle prime neolitiche -culture nell’Europa sud-orientale espansa poi verso Nord ed Ovest (della civiltà della dea).

P.D.M (M)

“Un conto sono le ferite d’amore che ragazze o donne, sanno fendere come gli uomini,

un altro conto sono la somma assoluta dei femminicidi da parte esclusivamente maschile;

non scambiamo esperienze esistenziali traumatiche che possono deprimere, ma molte volte anche aiutano a crescere, con tragici fatti che seppelliscono per sempre ogni esistenza d’amore e di vita possibile”.

P.D.M (M)

“La statistica non mente!”

P.D.M (M)

“Un abbraccio che curi le tue ferite, e come dice un proverbio: -non temere per le porte che si chiudono perché più in là c’è un portone semichiuso che non hai ancora visto o un portone apertissimo- per altre esperienze molto spesso più mature e significative “.

P.D.M (M)

“Esiste sì quello, cioè il bullismo tra le ragazzine come tra i ragazzini, peró questo è un maldestro tentativo delle ragazzine di imitare o superare in modo simmetrico l’inferiorità in cui le ragazzine vengono poste da una società che resta fortemente eteronormata in modo maschilista, in cui spinge i ragazzini a misurarsi fisicamente o muscolosa-mente e le ragazzine a subire, imitare, riconoscere la pre-potenza o il suprematismo dei maschi.”

P.G (M)

“P.D.M. Beh io adoro chi mi insegna cose”.

P.D.M (M)

“Più che insegnare ….io adoro raccontare esperienze, ricercare, fare approfondimenti su tematiche esistenziali e sociali.”

P.G (M)

“Oggi non soffro più .. io parlo dopo che ho sofferto non mentre soffro”.

A.T (F)

“Quel che è triste che si tratta di femminicidio, e non è trattato come tale”.

PDM (M)
“Non solo maschi di merda come molti interpretano i femminicidi , ma soprattutto trattasi di una rinnovata eteronormatività (come normatività eterosessuale) maschilista.

E’ necessario comunque avviare un processo di autoanalisi tra noi maschi per rimettere in discussione queste pratiche violente e visioni patriarcali che c’abitano”.

Negli ultimi anni si sono manifestate in piccoli gruppi una “maschilità consapevole”, un’intellettualità divergente e specifica dalla totalità degli uomini, come minoranza associativa denominatasi: “maschile -plurale” che dichiarano necessario immischiarsi nelle controversie di genere, e non solo limitarsi a solidarizzare con le vittime del femminicidio, ed innanzitutto prendere posizione contro “la cultura patriarcale che caratterizza la nostra società e della necessità di lavoro sugli uomini” e nel contempo analizzare le attuali asimmetriche dinamiche relazionali tra i generi.

Nella ricerca e nell’azione di contrasto alla violenza maschile e di lavoro tra i maschi emergono da tempo ormai riflessioni espresse nelle tracce costituenti di questo gruppo che desidero fare mio e riproporle a tutti i maschi in questa tragica circostanza:

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)
“Fino a poco tempo fa in Italia non c’era nessuna realtà formata da uomini che assistono altri uomini che vogliono attuare un cambiamento, riconoscendosi responsabili degli atti di violenza che hanno commesso, cercando di comprendere loro stessi e capire il perché di questi comportamenti”.

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)

“Maschile Plurale è un’associazione nata ufficialmente nel 2007 da una rete di uomini che già si conoscevano da molti anni e che, in maniera informale, lavoravano sulle tematiche di genere, sulla maschilità, sulle trasformazioni delle relazioni uomo-donna, sulla violenza maschile sulle donne. Nell’estate 2006 c’erano stati molti femminicidi . Da lì è stato lanciato il primo appello pubblico di uomini contro la violenza sulle donne che hanno sottoscritto tantissime persone. Siamo stati i primi uomini ad esprimerci pubblicamente sul tema della trasformazione delle relazioni tra uomini e donne e in particolare sul tema della violenza”.

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)

E in quelli stessi anni al centro sociale “xm-24 ” con un altro compagno Valerio Dondini iniziatatore con me ed altre di “in-quiete-tempeste-poetiche (gruppo trans-poetico, indicante con trans non solo uno specifico orientamento sessuale ed affettivo ma anche una ricerca poetica che coinvolgesse altre espressioni umane nella ricerc-azione(filosofia, arte, musica, danza ecc.) oltre che ad esperimentare forme autogestione ed auto-determinazione culturale, politica e sociale dal basso),

durante il mercatino del giovedi sera abbiamo cercato (tra noi maschi) di sensibilizzare e prendere posizione sull’emergere di violenze maschiliste e sessiste anche in contesti “che non te lo

saresti aspettato” come quello “nostro” della sinsitra diffusa o sociale in città, oltre altrove e prevalentemente nelle “famiglie o coppie di fatto o di diritto”.

Perché l’associazione si chiama Maschile Plurale?
Perché rifiutiamo l’eredità di un’identità sessuale molto rigida, riferita a modelli di genere violenti, non solo nei confronti delle donne, ma anche verso gli uomini, perché certi ambiti di esperienza, di relazione, di rapporto con se stessi e con la sessualità sono da sempre limitati e repressi.”

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)

Maschile Plurale significa quindi rivendicare la ricerca soggettiva di modelli di maschilità differenti da quelli che abbiamo ereditato. Cerchiamo di mettere in discussione i meccanismi del maschile di cui facciamo parte cercando di capire come ognuno di noi nel suo piccolo e nel suo intervento politico può fare questo percorso. Noi per primi che lavoriamo in questo campo non vogliamo sottrarci dal nostro essere uomini e dai meccanismi del maschile che ci riguardano e che vogliamo cambiare.”

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)

La violenza contro le donne nasce dunque dai modelli sessisti e patriarcali che caratterizzano la nostra società?
La violenza maschile contro le donne nasce prevalentemente come risultato di una cultura patriarcale e gerarchica che in qualche modo attribuisce una sorta di differenza di valore alla figura femminile rispetto a quella maschile. Il patriarcato cresce su questa asimmetria, su questa logica che pone l’uomo al di sopra della donna. Da qui hanno preso il via tutte le battaglie per l’uguaglianza dei diritti e la liberazione sessuale.
Il patriarcato ha fondato tutta la sua visione sull’assunto che l’uomo può comandare. Quando parliamo di patriarcato non facciamo riferimento solo agli uomini. Una cultura patriarcale può essere anche abbracciata o fatta propria dalle donne. Penso alle donne che hanno sostenuto la mafia o un modello economico gerarchico. Noi non mettiamo in discussione solo il comportamento degli uomini né siamo femministi, mettiamo piuttosto in discussione un modello, a prescindere da chi poi lo sostiene.”

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)
Come si combatte dunque la violenza contro le donne?
Non basta punire chi commette atti di violenza se non ci si rende conto che questi meccanismi sono dentro ognuno di noi. Spesso anche chi si pone come difensore delle donne ha una concezione asimmetrica del valore dell’uomo e di quello della donna. Se si agisce solo sul contenuto e non sul metodo non si produce un cambiamento. È un meccanismo profondo: se diciamo ad un bambino che non deve essere violento e, nel farlo ci rivolgiamo a lui con violenza, quale messaggio può percepire il piccolo? Il modo è molto più forte del contenuto.”

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)

Bisogna rendersi conto che questo è un tema sociale di cui dobbiamo farci carico tutti, dal privato cittadino alle amministrazioni.

Materiale tratto da Maschile -plurale (Nota 2)

Tranfemminista lo possiamo essere perché tale movimento intreccia le molteplici affinità che desiderano mettere sotto e sopra l’eteronormatività,

che le comprime ed le opprime tutte, partendo da sé o dalle loro specificità e ricerche di autenticità intese come realizzazione della propria soggettività,sessualità ed affettività negata. E l’agire comune non si rivolge solo alle subordinazioni di genere,

ma in modo intersezionali anche altre forme dialienazioni quali quelle:di classe,di “razze” o culture o delle nature (speciste, antropoceniche e capitalceniche)

ed altri aspetti della soggettività negata da forme politiche autoritarie e liberiste-capitaliste(private,burocratiche e tecnocratiche).

Note:

Nota zero:

(da wikipedia:accaparramento di terra, discusso fenomeno economico e geopolitico di acquisizione di terreni agricoli su scala globale, venuto alla ribalta nel primo decennio del XXI sec)

Nota 1:

Che cos’è Rural Hack?

E’ un progetto di ricerca che indaga gli aspetti culturali e tecnologici che legano tra Open Hardware e l’agricoltura.

Lo scopo è quello di rendere la tecnologia (più) accessibile, trasformandola in uno strumento per l’agricoltura, così da permettere agli stessi contadini di creare e modificare progetti o infrastrutture da loro sviluppate.

Open Hardware, così come Open Data, è stato pensato per generare una nuova logica del produttore legata a principi etici e condivisi, evitando così l’abuso delle risorse del territorio e la logica delle licenze.

II workshop di Rural Hack si svolgono in giro per l’Italia e l’Europa in cooperazione con Officine Innesto e Rural Hub.

Nota 2: M.P. -Materiali tratti dal Home Page del sito: www.maschileplurale.it

Testo elaborato e dedicato Agitu Ideo Gudeta di Pino de march

www.comunimappe.org

L’amore al/nel tempo delle pestilenze

“Tutti i vivi ci somigliano/Tutti i vivi che noi amiamo.

(Paul Eluard interpretato da F.Fortini)

Accade qui che non ci si ami più

se non da cyborg o da lupi solitari da tastiera tutti/e afflitti da una molteplici pestilenze

Stamattina la prima neve di quest’anno mi riporta al silenzio dell’infinito, alle morti stagioni, alle passate e alla sera,

quando dal cielo nevoso riversi sul mondo tenebre minacciose e lunghe, e sempre scendi [da me invocata], ed occupi dolcemente le vie nascoste del mio animo,

rifletto non tanto sull’acquietarsi al giungere della sera dell’animo inquieto del Foscolo e del mio o della potenza dell’immaginazione nel superare ostacoli o barriere del Leopardi che faccio mia,

bensì di altri vissuti e frammenti

di analisi psico-analitiche –sociali sulla comparsadi una strana peste che Wilhelm Reich codificherà come emozionale in un un Europa reattiva di passioni tristi, arrabbiata, scontenta e nazi-fascista a caccia di colpevoli, peste che avevamo già conosciuta nei secoli passati e ripresentasi in ripetute ondate, in forme e nomi diversi: la caccia alle streghe e agli eretici, il pogrom contro ebrei e “zingari” o romanì,

di poesie surrealisti damore, guerra e Resistenzae coprifuochi e confinamenti nella Francia della metà del secolo scorso,

ingenerati da un’occupazione umiliante e soffocante ogni espressività da parte delle truppe nazifasciste e “non resta che combattere a chi attenta alla vita degli altri, a chi s’oppone alla loro felicità, ma anche d’amore e di liberazione, di cui ci narra Jean du Haut (pseudonimo scelto da Paul Eluard per sfuggire ad un mandato d’arresto della polizia segreta collaborazionista-petanista dopo che le forze dell’aviazione alleata britannica avevano inondato i cieli e le città di Francia con volantini che riproducevano in migliaia di copie un suo poema in versi di una poeticità e vitalità sorprendente “libertè, j’ecris ton nom”, libertà, io scrivo il tuo nome”.

Sui quaderni di scuola

Sulla mia scrivania e sugli alberi

Sulla sabbia e sulla neve

Scrivo il tuo nome

Su tutta la carne concessa

Sulla fronte dei miei amici

Su ogni mano tesa

Scrivo il tuo nome

Sui miei rifugi distrutti

Sui i miei fari crollati

Sui muri della mia noia

Scrivo il tuo nome

Sull’assenza del desiderio

Sulla nuda solitudine

Sui passi della morte

scrivo il tuo nome

Sul ritorno della salute

Sul rischio scomparso

Sulla speranza senza memoria

Scrivo il tuo nome

E per il potere di una parola

ricomincio la mia vita

Sono nato per conoscerti

Per nominarti

Libertà.

Chiaramente cosa diversa e di dimensioni esistenziali incomparabili con quello di cui soffriamo, oggi, nel nostro in-quieto, a volte noioso quotidiano sopra-vivere, con un rischio però incalcolabile di incrociare un asintomatico agente di viralità in codice “Rna-Covid 19” attraverso sconosciuti, amici o parenti, il quale si è introdotto subdolamente nel nostro piccolo mondo bio-politico, tecnico ed economico, facendosi scoprire improvvisamente tutta la nostra fragilità;

s’avvale di un classico espediente cavallo di Troia o di moderno bio-trojan, che circola attraverso goccioline di saliva infetta di proteine virali,

sfuggita a dire dei complottisti da un improbabile laboratorio cinese di virologia di Wuhan ove si sperimentano vacini con patogeni pericolosi, ma più probabilmente invece da come ci documentano scienziati di vari discipline (zoolog*, epidemiolog*, climatolog*, virolog* ecc.) “si sia generato per ricombinazione tra due coronavirus di pipistrello ed un di pangolino all’interno dello stesso ospite. E’ probabilmente un ibrido naturale, i cui pezzi di virus si sono fusi con i pezzi di un altro. La ricerca è stata pubblica da Science Advances “(WIRED, 4/06/20 di Mara Magistroni).

Per contaminazione da carni di pipistrello o da medicine tradizionali cinesi tratte dalle squame del pangolino (formichieri squamosi), animali selvatici stressati ,che nel loro stato di cattività rilasciano grandi quantità saliva infettante;

animali catturati e tratti da buie caverne o foreste native, e poi venduti alla luce del sole in un Wet market della stessa città;

animali che possiedono in corpo enormi serbatoi di virus, a cui sono immuni ma portatori sani, virus trasferirtisi a noi, con un terribile salto mortale di specie, e propagatisi sulle rapidissime reti aeree di interconnessione transnazionali in ogni parte di mondo(mondo trans-moderno che si presenta con rilevanti contrazione di spazio e tempo);

a questo dobbiamo aggiungervi la nostra hybris o complicità arrogante antispecista ed una visione ristretta antropocentrica di mondo, che ha comportato nel corso della storia moderna (1492 ad oggi):

invadenze coloniali di ogni spazio sulla terra, appropriazione di spazi per-destinati ad altre specie o a altre popolazioni native in ogni angolo del pianeta, e danni collaterali quali:la riduzioni e la scomparsa a partire dalla metà del secolo scorso, di immense aree protette di foreste, brughiere e paesaggi di biodiversità, in particolare nell’emisfero australe dalle foreste amazzoniche a quelle australiane, oggetto di dolosi incendi per lasciare spazio ad allevamenti intensivi, provocando all’inizio di questo tragico anno 2020,un’immensa ecocidio o olocausto con sacrificio milioni di specie viventi piante, animali e popolazioni native sorpresi dalle fiamme.

La nostra pandemia “per salto di specie” è stata preannunciata nel romanzo “Spill Over” dal divulgatore scientifico David Quammen, nella quale vi documenta i suoi molteplici viaggi al seguito di cacciatori di virus nelle grotte della Malesia sulle cui pareti vivono migliaia di pipistrelli selvatici o nel folto delle foreste pluviali del Congo alla ricerca di rarissimi ed inoffensivi gorilla, pagine che ci inquietano per la scoperta di strani patogeni che i Sapiens mai hanno incrociato nella loro esistenza e dei quali per questo non possiedono immunità;

salti di specie o di zoonosi già avvenuti da una specie animale all’uomo tra il Neolitico e l’età del Bronzo a causa della concentrazione di uomini e animali in conglomerati promiscui, come le più recenti epidemie scoppiate in allevamenti intensivi e prevalentemente circoscritte nelle aree del sud del mondo quali: l’aviaria,la Sars, l’influenza suina, la Mers, l’Ebola ad esclusione dell’Hiv, della Mucca pazza, del Covid e dell’influenza H1N1 che sono divenute pandemiche coinvolgendo l’intero pianeta.

La Covid-19 dalle ultime inchieste-ricerche pare veicolata attraverso i wet market – mercati ove si macellano dal vivo animali selvatici, ritenuti carni rare e pregiate(pipistrello) o con supposte proprietà taumaturgiche o afrodisiache(pangolino), giunta in Europa, ed in particolare in Baviera attraverso un presunto viaggiatore europeo asintomatico, uno dei molteplici mercanti che intrattengono relazioni commerciale oppure di un tecnico o di un manager di imprese multinazionali che operano in Cina, riportata e diffusasi in Lombardia ed in altre Regioni d’Europa.

Un mercato parallelo quello degli animali selvatici a quello delle carni allevate, di cui possiamo ritrovare ancora in alcune nicchie di mercato delle nostre città europee: per esempio quello delle lumache, delle rane,dei cervi,delle lepri e perfino degli degli orsi.

E’ accertato ormai che queste zoonosi siano all’origine dell’attuale pandemia e di altre dormienti in altre specie selvatiche o imprigionate nei ghiacciai non più perenni.

L’informato lettore di saggi o di romanzi non riuscirà più a dormire se non dopo aver letto questo inquietante romanzo “Spill Over” come è capitato anche a me.

Recenti pubblicazioni scientifiche ci rivelano che 142 sono i virus di origine animale passati agli umani a seguito di distruzioni sistematiche di eco-sistemi, e nell’attuale era capital-antropo-cenica ci s’avvia a scoperchiare nuovi vasi di Pandora.

La differenza con le precedenti guerre, epidemie emotive e confinamenti del secolo scorso, consiste nel fatto che questo virus ci costringe alla distanza, all’isolamento più che ad una ricercata solitudine, e per un certo verso approfondisce una a-socialità già affermata con le ideologie e pratiche neo-iberiste già presenti dalle fine secolo scorso, quando nel 1987 quando Margaret Thatcher pronunciò queste parole: “la società non esiste, parole di cui siamo ancora ipnotizzati sia da liberisti di destra che di sinistra, che hanno determinato una radicale mutazione antropologica dell’homo Sapiens in Homo Oeconomicus , per il filosofo Emil Cioran “avviato un piano di occultamento e di cancellazione delle vite considerate non degne e che non trovano spazio neanche ai margini”. E chi volesse vivere come ha fatto lui, girovagando in bicicletta per tredici anni per tutta la Francia nel secolo scorso, riuscendo a vivere di quest’arte d’arrangiarsi, oggi a suo dire “ne sarebbe spacciato”, da “Ultimatum all’esistenza. Conversazioni ed interviste 1949-1994” con Emil Cioran.

(citato da Stefania Tarantino, Emil Cioran, il manifesto 3/12/20)

Da questa catastrofe esistenziale e sanitaria è emerso anche un senso etico seppur a macchia di leopardo, un sentimento comune di protezione verso gli altri o i propri familiari dall’infezione epidemica”, una riscoperta del “noi” dopo tanto individualismo e ricerca esasperata di un profilo sempre insoddisfatto di personalità narcisista, e del riemergere di un’eticità residuale ed empatia sottostante che può aiutarci a ricostruire quel senso del Comune e dell’amore per l’altro/a attraverso una riscoperta cooperazione o mutualismo economico-sociale, un’urgente prendersi cura di sé e dei mondi di vita comune con un approccio transpecista (tra umani, animali e piante tutt* assoggettat* e piegati a logiche utilitaristiche) ed intersezionale (tra nature,culture, società e generi, tutt* oppress* da etero-normatività maschiliste,o visioni sociali classiste, mono culturali e speciste).

L’auto-isolamento pandemico ci costringe ad una strana vita egoica e robinsoniana quella tanto ironizzata da Marx,come robinsonate.

“L’individuo isolato è stato fatto passare dagli storici della civiltà come una forma di ritorno all’uomo di natura,in contrasto agli eccessi dell’uomo civilizzato, al punti che si è voluto vedere nel “contratto sociale” di Rousseau un patto ” tra soggetti per natura indipendenti. Il che secondo Marx non ha senso. Tali robinsonate serviranno piuttosto, per anticipare, legittimandola, la “società civile”, quella che tutela la proprietà”; e prosegue:”Smith e Riccardo hanno avuto tutto l’interesse a presentare l’uomo borghese come un Robinson che esce dallo stato di natura, rozzo e primitivo,per diventare finalmente un uomo libero, autonomo e soprattutto “sociale”. Per Marx l’uomo l’individuo isolato non era affatto un “uomo di natura”ma il prototipo d’individuo di cui la classe borghese aveva bisogno per affermarsi. Il contratto tra individui liberi per Marx è illusorio della libertà dei due contraenti, in particolare quello privo di proprietà. Per gli economisti borghesi l’individuo isolato è “il punto di partenza della storia”, per Marx è invece il risultato storico “quello del crollo del feudalesimo e della nascita sulle sue ceneri del capitalismo” (e completo:con le sue asimmetrie sociali,naturali, di genere e culturali) .

Riflessioni tratte da Marx: Grundisse, lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-58).

Sindemie e non pandemie

Solo con l’arrivo di qualche “Venerdì” sociale, soggettività tecniche proletarizzate ed operanti nelle nostre isole di sopravvivenza e di cura, trasfigurate e mascherate da “eroi” sanitari o della protezione civile, o del volontariato sociale, che Robinson nella sua ormai nuda vita e confinata in numerose terapia intensive o sub intensive può trovare un ultimo sguardo e tocco d’umanità. o di altri “Venerdì” solidali vicini di casa, di strada o organizzazioni non governative (caritas, emergency,medici senza frontiera ed altro) che riattivano momenti di riscoperta umanità che storicizza in nostro essere umani e sociali(Trump e Berlusconi pur se infettati sono “risorti o salvati” in pochi giorni, non per natura o immunità clemente ma per denaro e proprietà differente,evidenziando che trattasi più di una diseguale sindemia che uguale pandemia).

sindemia s. f. L’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata. (da enciclopedia Treccani)

L’attualità della peste emozionale che s’aggiunge alle sindemie

La Haine est un ivrogne au fond d’une taverne,
Qui sent toujours la soif naître de la liqueur
Et se multiplier comme l’hydre de Lerne.
 
Mais les buveurs heureux connaissent leur vainqueur,
Et la Haine est vouée à ce sort lamentable
De ne pouvoir jamais s’endormir sous la table.

L’Odio è un ubriaco in fondo a una taverna, / che sente sempre la sete rinascere dal bere / e moltiplicarsi come l’idra di Lerna. // Ma i bevitori felici sanno chi è il loro vincitore, / e l’Odio è condannato a questa sorte lamentevole: / di non potersi mai addormentare sotto la tavola.)
(Versi tratti dalla poesia “Le Tonneau de la Haine”- “Barili d’Odio” ,in cui le Danaidi o le donne dannate sono protagoniste, inclusa in “Fleurs du mal” di Baudelaire)

Questa pandemia Covid-19 va a rafforzarne delle altre di sconosciute come ci documenta lo psico-analista – sociale Wilhem Reich, cioè le antiche forme di peste emozionali quali:l’indifferenza, la paura, i feroci odi contro chi non è simile, e esaspera la ricerca di capri espiatori, archetipi o simbolici già sedimentati nell’immaginario europeo, peste emozionale fattasi pandemica in molte altre parti del mondo (Brasile, India, America del nord).

Questa epidemia o peste emozionale parallela ad altre viene ben rilevata dai media (e social) anche in questi giorni senza coglierne la portata e l’infettività, e che s’insinua con una martellante e ripetitiva propaganda, ed ora s’avvale anche di flash mob in piccoli gruppi davanti alle prefetture d’Italia, ed urlata in Parlamento a favore del mantenimento delle leggi “razziali” salviniane e di sicurezza (Meloni-Salvini);

il “mostro-migrante -clandestino” viene ora rappresentato in un’altra forma fantasmatica non più di “ladro, spacciatore, assassino o accusato furto di lavoro agli italiani “ma portatore di terrorismo e pandemia”;

questa febbre epidemica emozionale è ben evidenziata dai sondaggi che danno i sovranisti di Lega e Fratelli giorno dopo giorno in crescita quotidiana con una curva di contagio che sale drammaticamente dopo una breve pausa di primavera-estate.
“Tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri, come esuli pensieri, nel vespero migrare” , e le ottuse visioni sovraniste ed hobbesiane di “homo homini lupus” ;uomo come lupo feroce per l’altro uomo, metafora antropomorfica e paranoica di lupo , non certo empatica e francescana di fratello lupo immagine pacifica, mistica, poetica e transpecista.

Uno strano mondo il nostro popolato di tanti lupi solitari da tastiera in un mondo digitalizzato per alcuni perversi modi de solidarizzato e disincarnato nelle relazioni tattili per dirla con Merleau Ponty, ed altrettanto inconsueto per dei Sapiens che nella loro più che millenaria storia di nomadismo,socializzazione e cooperazione hanno sempre cercato nuove terre d’abitare ed agito ricercando una certa comune coesione prima tribale e poi sociale, ed una necessitata lunga presenza educativa degli adulti con i minori.

W.Reich analizza i meccanismi psicologi per comprendere come abbiano potuto incanalareed assoggettare la volontà politica di un’immensa massa popolare, ad un leader populista e ad un gruppo autoritario, in sé alienante.

Per far ciò Reich utilizza metodologie di psicoanalisi freudiana, sociologia weberiana e materialismo dialettico marxista.

Il concetto di “peste emotiva,” proposto da Reich, è definito come la somatizzazione della repressione sessuale, economica e politica che viene esercitato a livello individuale e che produce comportamenti di natura fascista nella società e che apre la strada a governi fascisti in tutto il continente europeo accompagnati da espressione di violenza e terrore diffusi.

La peste emotiva sarà una categoria analitica della psicoanalisi reichiana considerata da essa un comportamento anomalo della società che minaccia la ricerca di una società aperta, libera e includente.

Qualche meccanismo di peste emozionale“, e qui di seguito una serie di frammenti di quel vasto discorso analitico su una strana peste emozionale in forma multidisciplinare dello psicoanalista W. Reich:

“Non ci sono motivi per supporre che passi, in modo ereditario da madre a figlio. Piuttosto, viene impiantato nel bambino dal suo primo giorno di vita. E’ una malattia epidemica, come la schizofrenia e il cancro, con questa importante differenza: si manifesta essenzialmente nella vita sociale”.

“Gli effetti della peste emotiva devono essere visti nell’organismo e nella vita sociale. Periodicamente come ogni altra peste, la peste bubbonica o il colera, la peste emotiva assume le dimensioni di una pandemia sotto forma di una gigantesca ondata di sadismo e criminalità, come l’inquisizione cattolica nel Medioevo o il neofascismo internazionale,in questo periodo storico”.

“La peste emotiva non ama il pensiero, come non ama il regno razionale, può anche giungere ad una conclusione corretta ma cercherà piuttosto di confermare un’idea irrazionale già esistente e proverà a razionalizzarla.

Questo è generalmente chiamato “pregiudizio”; ciò che viene trascurato di questo “pregiudizio” ha conseguenze sociali di notevole entità, che è molto diffuso e praticamente sinonimo di quella che viene chiamata “tradizione”, e l’umano afflitto da questa peste emozionale è intollerante, cioè non tollera il pensiero razionale che potrebbe metterlo in ombra; di conseguenza il pensiero della peste emotiva è inaccessibile agli argomenti;
ha la sua “logica”, per così dire;

per questo motivo, dà l’impressione di razionalità senza essere realmente razionale. “

“La disposizione alla peste emotiva è generale. Non esistono individui completamente liberi dalla peste emotiva. Proprio come ogni individuo, da qualche parte nell’organismo nell’inconscio, può sviluppare il cancro, la schizofrenia o l’alcolismo, così ogni individuo, sia esso il più sano o il più vivo, ha una tendenza alla peste emotiva”.

“La sessualità dell’individuo dominato dalla peste emotiva è sempre sadica e pornografica. E’ caratterizzato dall’esistenza simultanea della lascivia sessuale (a causa dell’incapacità di gratificazione sessuale) e dal moralismo sadico. Questo fatto è dato nella sua struttura;

non può cambiarla anche se avesse intuizione e conoscenze;

…questo è il nucleo della struttura caratteriale della peste emotiva. Sviluppa un odio violento contro qualsiasi processo che provoca desiderio nostalgico e, con ciò, ansia da orgasmo”.

Frammenti tratto di “Some Meccanismo of the emotional Plague”, scritto d W.Reich, ed apparso sull’International Journal of Sex-Economy and Orgone Research, vol.4, n,1 , aprile 1945, Orgone Istitute Press 1945

Se ritorniamo a confrontarci con altri coprifuoco e pandemie emozionali della metà del secolo scorso le passioni polarizzate sono chiare e distinte:

amore, solidarietà, autodifesa delle comunità e delle varie forme di disabilità,libertà individuali e sociali, pluralità culturali da una parte con un fronte ampio e plurale di antifascisti, e di odio, ostilità, oppressione, deportazioni e stermini dei diversi su altro versante dominante da parte di fascisti e nazisti.

Coprifuoco

Testo poetico di Paul Eluard tratto da “poesie e verità”, considerate come quelle della Resistenza pubblicate nel 1943, e tra esse “libertè, j’ecris ton nom”(libertà, io scrivo il tuo nome o l’urlo della libertà) che apre la raccolta.

“Che volete la porta era difesa

Che volete noi là s’era chiusi

Che volete la via era sbarrata

Che volete la città era domata

Che volete ella era affamata

Che volete s’era disarmati

Che volete la notte era discesa

Che volete noi ci siamo amati

Scritta durante la sofferta ed subita occupazione nazi-fascista della Francia, investita in quel tempo come il resto d’Europa di una peste emozionale, così la definirà il virologo austriaco, comunista e psico-analista-sociale Wilhem Reich in un’opera “Psicologia di massa del fascismo”, pubblicata nel 1933, in una data che coincide con l’ascesa di A.Hitler al potere.

Il lavoro di riferimento è una denuncia del comportamento della società in quel momento storico, fase che ha sviluppato una psicologia di massa caratterizzata dalla sottomissione psicologico-comportamentale di un popolo ad una mistica della razza ariana o del nord, per legittimare l’ascesa di un leader politico (monocratico, capo che dispone di pieni poteri e per alcuni versi assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo democratico)che ha favorito la classe borghese e benestante (agrari ed industriali),con acclamante appoggio di masse risentite, rancorose ed immiserite dalla crisi sistemica economica, sociale e valoriale(crisi del 1929 che ha investito prevalentemente le società industrializzate del Nord del Pianeta), i cui i principi ideologici erano protetti dal partito nazista, guidato da Hitler.

Che volete noi ci siamo amati (Paul Eluard)

Da “Coprifuoco come da tutti i testi poetici della raccolta “poesia e verità” e della Resistenza,

emana una nota freschissima di quell’amore conservato intatto nel marasma della guerra, il solo capace di garantire e dare senso alla vita nella pestilenza, ma affiora anche un tono di scusa del poeta per la propria felicità conservata rifugiandosi e trovando ospitalità in un inconsueto asilo manicomiale per quei tempi bui, in cui in tutti gli ospedali psichiatrici di Francia, più di 50 000 pazienti sono stati deliberatamente lasciati morire di fame e di stenti, riducendo giorno dopo giorno la dieta alimentare, deliberatamente perché era nelle teorie razziali nazi-fasciste di quel sistema totalitario “la ricerca della purezza della razza nordica ed ariana” veniva perseguito sia nei territori del Reich come nei territori invasi, lo sterminio di cioè non corrispondeva a quella normalità “di non degni di vivere” definita a priori da criteri di mistica razziale eugenetica.

“E noi siamo il comune

E tutto è comune sulla terra

Semplice come un solo uccello

Che confonde d’un solo colpo d’ala

I campi nudi ed i raccolti.”

A Saint-Alban a differenza di quei lager psichiatrici si è costituita una comune sommersa aperta, accogliente e terapeutica di pazienti, di infermieri, di psicoanalisti marxisti e surrealisti, di rifugiati ebrei, intellettuali ed artisti surrealisti e dadaisti, tutti e tutte antifascisti clandestini, che resistono insieme nella macchia (maquis) contro l’occupazione terrorista nazi-fascista dei territori ma anche contro ogni sistema concentrazionario di alienazione mentale e sociale ,

ove l’amore o “la fraternitè” , la cooperazione sociale tra gli abitanti dentro l’Ospedale psichiatrico e fuori nel villaggio di Saint-Alban, costituiscono una comunità di destino e di resistenza prefigurante non solo la liberazione dei territori dall’oppressione, dai rastrellamenti, dalle deportazione e dal minacciato sterminio di pazienti ed oppositori da parte dei dominanti nazi-fascisti ma anche la liberazione dei folli e della follia da un sistema di concentrazione ed alienazione mentale e sociale di tipo totalitario fascista(società autocratiche-autoritarie, militrariste ed illiberali) ma anche autoritarie-borghesi pre-fasciste(società conservatrici liberali).

Nella coppia illimitata senza origine e senza fine, di cui Paul Eluard e di Maria Benz nell’arte e nella danza Nusch (di famiglia sinta e circense alsaziana), rovesciando il processo di una coppia-limitata in una coppia-moltitudine di coppie.

“Noi non abbiamo cominciato mai

Sempre ci siamo amati

E perché noi ci amiamo

Vogliamo altri liberare

Dal gelo della loro solitudine

Vogliamo e dico io voglio

Dico tu vuoi e noi vogliamo

Che la luce perpetui

Coppie splendenti di virtù

Coppie in corazze d’audacia

Perché hanno sguardi che s’affrontano

E il loro fine sta nella vita degli altri”.

L’epidemia racconta il collasso di un mondo già devastato

Oggi 3/12/20 è presente sul “il Manifesto”,

(un quotidiano che mi mi accompagna da quando è uscito, e mi riservo di leggerlo postumo al ritorno delle vacanze estive o dalle mie assenze dall’Italia, chiedendo ad da un amico o al giornalaio di metterlo da parte o prenderlo per me, e che leggo sempre rigorosamente alla araba, cioè parto dalle ultime pagine, mi soffermo su quelle culturali sugli inserti alias o extraterrestre, e poi mi incammino frettolosamente verso la prima pagina),

è uscito un articolo di Enrico M. E. Moncado che merita di essere letto, sottolineato e poi tratto delle parti che più colpiscono per la capacità di cogliere l’insieme e anche di evidenziare cosa si nasconde sotto l’immenso iceberg di questa epidemia “Covid -19”, ma anche di dissentire da alcune improprie messa in stato di accusa di quella che a suo giudizio severo a mio sentire ingiusto da Cardinale Borromeo nei confronti di un’intellettualità di massa o diffusa (studenti, docenti, intellettuali e politici della sinistra critica) che E. Moncado taccia di pavidità o donabbondismo, sottolineando in forma manzoniana che “il ministero sacerdotale” o della cultura nel nostro caso “pecca” di “un eccesso di fredda razionalità traducendo la vita collettiva in irrazionali conflitti davvero lontani da un pensiero critico e plurale. Quest’ultimo invece è sempre comprensione qualitativa e anche quantitativa delle forze che intessono di senso ogni accadere, poiché la critica, se è veramente tale, è un esercizio di necessaria giustizia esterno ad ogni atteggiamento d’obbedienza.”.

Dialogo manzoniano tra il Cardinale Borromeo e Don Abbondio:

“Voi non rispondete?” riprese i cardinale?

“Ah, se aveste fatto dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva nel vostro ministero sacerdotale

in qualunque maniera le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta.

Vedete dunque voi stesso cosa avete fatto. Avete unito all’iniquità, non curandovi di ciò che il dovere vi richiedeva.

Vedendo qualcosa bisognava rispondere, disse (don Abbondio) con una certa sottomissione forzata:

“Monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando al vita non si deve contare, non so cosa mi dire . Ma quando si ha a che fare con certa gente che ha la forza, e che non vuol sentire ragioni anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si può guadagnare. E’ un Signore quello con cui non si può ne vincerla né impattarla”.

Invece potrebbe trattarsi di una nuova consapevolezza che questa pandemia costringe a riflettere e a muoverci con prudenza:mascherine, distanza fisica e non sociale per rispetto delle altrui esistenze oltre che delle nostre, in quanto il virus ci usa come agenti infettanti, non di “una fredda razionalità o di una paura introiettata” che paralizza la nostra vita attiva costringendoci ad una passiva nuda vita,ma piuttosto di autolimitazioni a narcisismi autodistruttivi comparabili piuttosto alla confusa reattività delle mitiche Dana idi, che dopo essersi rivolte verso il padre e in molti casi contro sé stesse, in quest’era capital-antropo-cenica accadde che ci si torce anche contro l’intera umanità o l’intero mondo di vita.

Non condividendo per nulla questa parte di reprimenda di Enrico M. Monca do contro l’intellettualità critica considerata remissiva al potere costituito, paralizzante ed “incrinata in modo radicale sul piano di una narrazione mediatico-televisiva colorata di un oscuro protezionismo biologico della vita, specie della vita in quanto vita” (sottinteso nuda).

“E cosa più significativa, lo scarto tra società e stato è parso appiattirsi per svuotamento di opposizione, in nome dell’impossibilità di fare altrimenti di fronte alla novità di in fenomeno senza precedenti. Introiettati, forse irreversibilmente, quali dispositivi necessari per la conservazione della vita, soprattutto di quella degli -ultimi – DPCM – Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri -, che hanno stabilito le soglie di comprensione dell’esistenza, dei suoi confini e dei diritti elementari.”

E poi il riferimento diventa esplicito al donabbondismo, alla soggezione e al controllo “del più forte” nella parafrasi manzoniana:

“Quando la vita non la si può contare, enumerare, proteggere o quando non la si può raccontare altrimenti se non con dispositivi di controllo di cui si dispone all’occorrenza, non ne rimane più nulla. Ed è questo un approccio quantitativo al mondo insieme al dissolversi dei corpi, degli spazi, delle relazioni, della didattica che i tanti Don Abbondio (studenti, docenti, intellettuali e politici della sinistra critica)hanno voluto celebrare “proteggendo la nuda vita, vita che non conosce altro all’infuori di se stessa, vita che è costante terrore della morte:il dispositivo fondamentale dell’autorità tirannica è infatti ed esattamente la la paura della morte che diventa pensiero ossessivo del decesso.”

E qui dissento nuovamente e mi differenzio dal pensare che la nostra intellettualità critica abbia potuto subire costrizioni “a capo basso del povero prelato di campagna nei confronti dei “Bravi o di quel tal Innominato Signore” :”come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un aria che non ha mai respirata”.

Per verità ed esperienza il personale della scuola nella sua totalità (o meglio l’intera comunità educativa) non si è mai mai sottratto al loro “ministero sacerdotale”, o culturale attraverso il mantenimento di un contatto costante affettivo e docente con i loro student*, sia da remoto cioè sui dispositivi mobili:cellulari, tablet e computer che in presenza nelle classi,cercando di conservare quel rapporto intenso passionale, d’esperienza e e di sapere che caratterizza il fare/disfare della scuola.

Inoltre va anche ricordato che molti tra loro hanno ridotto le loro ferie, per impegnarsi in modo diretto nelle scuole:e qui non troviamo solo i dirigenti scolastici ed amministrativi, ma anche docenti, ausiliari ed i tecnici, tutti insieme a predisporre le classi nelle modalità e le distanze che il comitato degli esperti aveva fornito loro, e all’apertura del nuovo anno scolastico nei primi giorni d’autunno (tra settembre ed ottobre) gli studenti e le studentesse si sono ribellati a questa alterazione virtuale (dad), piazzandosi in molti con mascherine e dispositivi mobili nei pressi della scuola per seguire le lezioni, e protestare chiedendo di stare in presenza dei loro docenti e compagni/e;

nei giorni successivi a questi gruppi studenteschi spontanei si sono aggregati via via che passava il tempo anche i loro docenti trasformando strade, parchi e vicoli delle città in agorà o scuole epicuree (scuole che nell’antichità Epicuro prima e Lucrezio poi, usavano incontrarsi sotto gli alberi e fuori città, perché trattava-si la loro di scuole anti-accademiche con frequenza aperta alle donne e agli schiavi).

Per documentare tale affermazioni in dissenso a E. Moncado mi avvalgo di alcune informazioni di R. Ciccarelli sul Il Manifesto del 6/12/20:

“I licei come gli Istituti tecnici e professionali, sono rimasti aperti da novembre 2020, quando il Governo ed i Presidenti di Regione li hanno chiusi in presenza però mettendo docent* e student* in didattica a distanza (DAD).

In via eccezionale si provvedeva diversamente per student* con disabilità (diversamente abili) e per i Bes (Bisogni educativi speciali, che sono student* che non presentano disabilità psico-fisiche piuttosto psico-sociali, in quanto provenienti da famiglie migranti e povere autoctone,da territori periferici che presentano rilevanti disagi e povertà materiali ed educative), per questo è stata prevista la presenza nelle aule assieme a docent* di sostegno, ‘per garantire inclusione scolastica e mantenere una relazione educativa.

[….]

A questa eccezionalità però se ne sono autorizzate delle altre con disposizioni dei DS (Dirigenti Scolastici), che per non lasciar da soli disabili e bes nelle classi, si è autorizzato che dei piccoli gruppi di student* volontar* si unissero per dare vicinanza affettiva e socialità ai loro compagni/e.

C’è da riferire poi che tra i docenti come tra (il personale sanitario) vi è un forte spirito di servizio di tipo “etico e passionale ” tutt’altro che donabbondismo, che spinge a prendersi cura e a esporsi a rischi che altri non osano.

In molti istituti si sono create attività di laboratorio seppure con numeri limitati e a rotazione per garantire a tutti accesso allo studio e alla convivialità .

Nell’articolo di Enrico M. Moncado viene presentato anche il saggio a più mani e voci di “Krisis”, le cui analisi esposte nei testi condivido e sottoscrivo, e che E.Moncado ben sintetizzate nel titolo dell’articolo:”l’Epidemia racconta il collasso di un mondo già devastato”.

L’argomentazione critica che ne segue nell’articolo di E. E. Moncado: “Che l’epidemia non sia soltanto un fatto medico o biologico è il presupposto fondamentale per comprendere criticamente il tessuto sociale e politico nel quale l’umano abita. Il fatto o meglio il dato di fatto epidemiologico non esiste come qualcosa di separato – giudicabile quindi in modo unidirezionale – bensì è in costante reciprocità con l’ambiente nel quale sorge.

Un ambiente che è sempre plurale e profondamente interrelato”. E prosegue presentandoci il saggio “Krisis” e sottolineando che la complessità e l’interdipendenza dei mondi è uno dei principali suggerimenti metodologici di Krisis: corpi, confino e conflitto Catartica edizione, pp.118, e tra gli autori figurano: Afshin Kaveh, Alberto Giovanni Buso, Xenia Chiaromonte, Cristiano Sabino, Nicoletta Poidimani ed Elisabetta Teghil”.

La tanatopolitica, o una politica della distruzione o dell’estinzione è quella che scinde l’umano dall’intero ed inverte le ragioni del malus attribuendone la colpa allo straniero.

Chi sarà vettore di cambiamento?

Quali saranno le azioni che lo produrranno

Il Chi, in un scenario di decisione imminenti, è la grande domanda.

“E’ difatti una storia di reclusione e di estrema plasticità dei corpi, di degenerazione e decostruzione dello stato di diritto quella vissuta sotto il Covid-19, considerato come panottico(come architettura circolare adibita a carcere ideata alla fine del XVIII sec .dal filosofo inglese J. Bentham in modo tale che da un punto si può sorvegliare tutte le celle) .

Il rischio d’appiattirsi c’è “andrà tutto bene, possiamo tornare a fare quello che facevamo prima”ed in aggiunta con la superficialità con cui s’affronta quest’emergenza, pensando trattarsi di una crisi passeggera e superabile con un vaccino, ignorandone tutte le connessioni e la sistematicità che la crisi rivela. Una punta di un iceberg di dimensioni molto più devastanti.

E’ una pagina di storia che se letta, come fanno gli autori di Krisis, con sguardo genealogico, rivela i rapporti di forza che sottendono alla prassi d’internamento e domesticazione fisico-virtuale, la cui scaturigine è qui

nel dispositivo -sicurezza, legalità, meritocrazia e darwinismo sociale. Lo sguardo genealogico che lega insieme il trinomio -capitalismo, crisi-ecologica, crisi epidemica-, non soltanto coglie l’immediatezza del fenomeno eccezionale ma dispiega anche le sue mediazioni all’interno di un concatenamento di rapporti interni al fenomeno stesso: la crisi del capitalismo è -la crisi ecologica, è la crisi epidemica è la crisi finanziaria-.

(“il grande gioco della storia è impadronirsi delle regole ,e e utilizzarle in controsenso e rivolgerle contro chi le aveva imposte, in modo tale che i dominatori si trovino dominati dalle loro stesse regole”, M. Foucault, F. Nietzsche, la genealogia, la storia).

“Covid -19 è quindi un marchio d’insostenibilità politico-economica dei paradigmi che già da tempo disegnano le geometrie del mondo contemporaneo: controllo ed assoggettamento,sfruttamento agro-alimentare e allevamento intensivo, cementificazione delle aree verdi e distruzione della biodiversità. Sono questi alcuni esempi della tanatopolitica che scinde l’umano dall’intero ed inverte le ragioni del malus attribuendone la colpa allo straniero, al dissidente, all’untore a chi abita a chi abita i margine dei fatti, così che i cittadini si possono riconoscere come causa stessa dei loro malanni. Resta infine, aperta la serie di domande che scuote questo sogno illuministico:

Chi sarà vettore di cambiamento?

Quali saranno le azioni che lo produrranno

Il Chi, in un scenario di decisione imminenti, è la grande domanda.”

Annota bene questa frase di Teresa di Lisiueux (santa): “la paura mi fa indietreggiare, con l’amore non soltanto vado avanti, ma volo” , oppure un altra :” non si conta niente, ma bisogna fare come se ci contasse“, e questa frase la ripeteva più volte la partigiana di pace – Lidia Menapace”, che è venuta a mancarci in questi giorni, e che diventò il moto di riaffermazione d’esistenza politica e culturale del “il Manifesto” quando Lei dissidente crisitano sociale s’unì poco dopo al gruppo di dissidenti comunisti;

non ci mancheranno la sua resistenza e la sua lotta per la restituzioni delle libertà civili ma anche sociali confiscate dalla tirrannide nazi-fascista , e per queste libertà enunciate ma ancora sulla carta per lunghi anni, Lei ha continuato a resistere nel dopo guerra per resituire alla donne la liberazione “dalle tradizionali oppressioni patriarcali e agli ultimi (i migranti) ma anche ai penultimi (i marginali e precari d’Italia) , quelle le libertà sociali enunciate nell’art.3 comma 2 della Costutuzione partigiana-repubblica: “

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociali, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (la liberazione delle classi subalterne (stabile o precarie) dalla soggezione e dalla paura) e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Possono esser un buon consiglio le parole di Teresa di Lisiex anche per i non credenti, e la vita attiva di Lidia Menapace per non credenti e credenti.

Dedico questo mio testo a Lidia Menapace

autore:Pino de March

sciopero planetario contro i cambiamenti climatici e le relative catastrofi e pandemie del 9/10/20

(da Terra Madrem 2020 – dizionario “dizionario filosofico )

Dobbiamo interpretare il coronavirus (come altri eventi catastrofici di/in questi tempi)come una risposta biologica del nostro pianeta vivente, Gaia, alla stato d’emergenza ecologica e sociale del quale il genere umano è vittima e causa. Il contagio è nato da uno scompenso di tipo ecologico, ma le sue ricadute sono drammatiche a livello sociale. Gli studiosi e gli ambientalisti ci hanno messo in guardia sulle devastanti conseguenze dei nostri sistemi non non-sostenibili (o insostenibli) in tutti gli ambiti (dalla produzione,alla circolazione e al consumo).

Finora,però, i nostri leader,incapaci d’affrancarsi dall’ebbrezza del profitto e del potere, si sono ostinati a far finta di nulla….

Adesso, però, le élite politiche e finaziarie non possono più fare finta di nulla, perché il Covid-19 ha fatto di quelle nefaste prospettive una realtà vissuta.

Per contenere la diffusione delle pandemie è fondamentale migliorare le condizoni di vita dei meno fortunati. Sono gli approcci di ordine etico, orientati dal bene comune, a diventare una questione di vita o di morte.

La sistematica copromissione degli eco-sistemi, mossa dall’avidità dei gradi conglomerati aziendali, ha frammentato quei sistemi, lacerando la terra della vita. Nelle epoche di pandemia, in fatti, il problema della giustizia sociale non più (solo) una questione politica di sinistra contro destra, ma un a questione di vita o di morte.

Voce “Pandemia” di Fritjof Capra:fisico,economista e scrittore austriaco

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FridaysForFuture Bologna dichiara lo sciopero scolastico per il clima venerdì 9 ottobre 2020 alle ore 9 in Piazza Maggiore e invita tuttə a partecipare!*

Venerdì studenti e studentesse (e non solo!) si riuniranno in sciopero in una manifestazione di piazza per chiedere al governo che il piano “Ritorno al Futuro” venga messo in atto!

Le richieste di FFF:

♻️

1. investire nella transizione ecologica

💸

2. riaffermare il ruolo pubblico nell’economia

⚖️

3. realizzare la giustizia climatica e sociale

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🍽️

4. ripensare il sistema agro-alimentare

🩺

5. tutelare la salute, il territorio e le comunità

Durante la manifestazione si svolgeranno le seguenti azioni collettive:

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-die-in con lettura della lettera aperta di FFF Emilia-Romagna e canto della canzone “Power to the People” nella versione di XR (https://youtu.be/PmxN90bKY0o)!

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🎻
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-jam session con strumenti musicali, fischietti, pentole e mestoli e qualsiasi oggetto sonoro!

Misure di sicurezza e di tutela della salute collettiva:

✅

•compilare modulo di presenza (https://docs.google.com/…/1FAIpQLSddm…/viewform…)

😷
🧴
🍼

•portare con sè la propria mascherina (da indossare durante tutta la manifestazione e da posizionare in modo da coprire naso, bocca e mento), il gel igienizzante e la borraccia

❌

•durante lo sciopero stare sui segni tracciati per terra e mantenere sempre la distanza di un metro e mezzo (1,5m) da chiunque

•non scambiarsi cartelli, megafoni né altri oggetti

🤒
🤧

•se si hanno sintomi influenzali quali febbre, tosse o difficoltà respiratorie rimanere a casa propria e partecipare da remoto alla manifestazione in piazza!

🖌️
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🖍️

In vista dello sciopero, preparazione di materiali e cartelli e momento di scambio e balotta: giovedì 8 in Piazza Maggiore vicino al Comune dalle ore 16 alle ore 19!

LA CONTRADA SOLIDALE ROM,SINTA E GAGE’ DI VIA ERBOSA ORGANIZZA INCONTRO CON CANDIDATI-E DI CORAGGIOSA

Coraggiosa, ecologista, progressista, femminista: così vogliamo l’Emilia-Romagna, che ha già dimostrato di avere coraggio in altri momenti storici, e oggi deve ritrovarlo per affrontare nuove sfide epocali come l’emergenza climatica e la crescita delle diseguaglianze.

Riconosciamo e tuteliamo le differenze, contrastando le discriminazioni razziste, di genere e per orientamento sessuale. Sosteniamo la buona accoglienza diffusa e rispettosa dei diritti. Cultura e formazione sono prioritarie per costruire comunità inclusive.

LA CONTRADA SOLIDALE ROM,SINTA E GAGE’ DI VIA ERBOSA ORGANIZZA INCONTRO CON CANDIDATI-E DI CORAGGIOSA

SABATO 18 GENNAIO 2020                                          

DALLE 16 ALLE 19

IN ZONA ORTIVA – VIA ERBOSA 17 -BOLOGNINA(per arrivare imboccare via F.lli Cervi una traversa di Arcoveggio,arrivati in fondo si va a dx in via Erbosa, e passato il cavalcavia ferroviario dopo aver costeggiato il campo sosta della comunità urbana Rom-SINTA ci troverete e sarete accolti nella casetta degli orti).

“QUALE FUTURO SOCIO-CULTURALE ED ECONOMICO-SOCIALE PER LE NUOVE COMUNITA’ URBANE ROM E SINTE NELLA NOSTRA REGIONE EMILIA-ROMAGNA”

Presenta l’iniziativa Pino de March della Libera Comune Università Pluriveristà Bolognina

Relazionano per Emilia-Romagna Coraggiosa i candidati-e:

Donatella Ascari, segretaria e attivista dell’associazione Thèm Romanó Onlus di Reggio Emilia, impegnata a promuovere la cultura romanì e a combattere il razzismo e la discriminazione verso questo popolo“.

JORA MATO, nata a Tirana (Albania) e vive a Bologna da oltre venti anni, ha tre figli. Si occupa di mediazione interculturale in ambito sociale e sanitario. Nel 1998, la sua prima esperienza nell’accoglienza dei profughi kosovari arrivati a Bologna: da allora segue diversi progetti lavorando sull’antidiscriminazione e la garanzia dei diritti. L’anno successivo, insieme a un gruppo di donne straniere, fonda l’associazione AMISS di cui è presidente, che si occupa di mediazione, animazione sociale, progettazione, diritti e antidiscriminazione. Dal 2010 con AMISS, insieme a Piazza Grande e le Cucine Popolari organizza l’evento cittadino “Indovina chi viene a pranzo”. Negli anni lavora per diverse associazioni e cooperative locali come Senlima Soc. Coop. di cui è stata presidente dal 2010 al 2016, e Trama di Terre, di cui è stata responsabile del coordinamento area accoglienza e membro del consiglio direttivo dal 2014 al giugno 2016.“

Sergio Caserta. È stato dirigente d’impresa e di associazioni di categoria, nella Lega delle cooperative nei settori distribuzione, finanza, editoria. Da sempre impegnato nel mondo dell’ambientalismo e dei movimenti in difesa della pace e dei diritti sociali e attivo nella comunicazione politica, ha una lunga storia politica. È stato consigliere provinciale a Bologna. Proveniente dal PCI, non ha aderito al PD e sostiene la difficile causa di una sinistra unita e unitaria.

INTERLOQUISCE: TOMAS FULLI, PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE -MIRS:MEDIATORI INTERCULTURALI ROM E SINTI

PROMUOVE L’INIZIATIVE COMUNIMAPPE-LIBERA COMUNE UNIVERSITA’ PLURIVERSITA’ BOLOGNINA

ADERISCE MIRS -MEDIATORI INTERCULTURALI ROM E SINTI E I DSC(1,3) DIEM 25-BOLOGNA           

PER CONTATTI:COMUNIMAPPE@GMAIL.COM

PER INFORMAZIONI:

 www.comunimappe.org

www.coraggiosa.it

COMUNIAè un possibile nome e respiro comune per gli spazii restituiti alle comunanze (caserme sani – bolognina)

PUNTO DI SVOLTA

“Dopo il tempo del declino viene il punto di svolta”. I Ching

COMUNIAE’ LA VIA DELLA RESTITUZIONE DELLE TERRE COMUNI O DEI BENI COMUNI ALLE GENTI DELLE NUOVE CITTà in transizione verso un nuova era “IL POIETICENE”

“Di fatto l’aggettivo “privato” deriva dal latino privare,cosa che illustra bene la diffusa opinione degli antichi1 che la “proprietà” fosse innanzitutto e soprattutto “comune”. Quando le società passarono da questo punto di vista “delle comunanze” ( terre comuni delle Gens o delle singole tribù)a punti di vista più individualisti , la gente non pensò più alla proprietà privata , come a quei beni del cui uso certi individui privarono il gruppo,ma rovesciò di fatto il significato del termine, sostenendo che la proprietà dovrebbe essere innanzitutto privata e che la società non dovrebbe pr1ivarne gli individui senza i debiti procedimenti di legge. (1)

Testo tratto dal Cap.7,”il punto morto dell’economia” del “Punto di svolta”, F,Capria pag.162,Ed.Feltrinelli,1986

La chiamerei  ComuniaE’

  1. perché parola ha in sé tutte vocali ed esse nelle lingue degli umani corrispondo al respiro e all’aria che dà vita alle consonanti che sono le nostre carni ed ossa.

Abbiamo bisogno di ritrovare un respiro comune

Uno spazio dove si elaborano nuove grammatiche del vivere singolare e di comuni interelazioniali tra culture non divisive ,di nature non de-predate,di generi non binari e fludi,e di classi aspirano alla giustizia sociale e a superare se stesse, il capitalismo ed il prati arcato.

2) perché tale termine può considerarsi il punto di svolta “al punto morto dell’economia e politica capitalista di stato o privata”, ma può anche considerarsi  il punto d’incontro tra antiche perdute concezioni delle terre e attività comuni e le nostre contemporanee  e ritrovate concezioni di comunanza,di beni comuni  o mondi di vita comune .

3) perché la proprietà dello Stato e dei privati, è da considerarsi a tutti gli effetti proprietà sottratta o privata (participio passato del verbo privare, participio poco partecipato) alle comunanze oppure  all’uso dei molti;e se istituita come res-publica (come cosa pubblica)deve essere concepita per il ben-essere singolare e comune, oltre che per il ben-essere degli altri esseri viventi .(non semplicemente green ma innanzi tutto del vivente tutto:umano e degli altri esseri viventi)

 perché l’unica eco-nomia viva concepibile è quella che rinuncia per sempre ad un’antropologia dell’individualismo proprietario e s’avvia a ripensare un trans-personale esistenza “comune”autogestita, condivisa, partecipata, o di cooperazione comune materiale e valoriale per realizzare se stessi(nella solitudine e negli spazi scelti  per le nostre relazioni affettive o di generi) , e sé con gli altri (nella moltitudine  o nelle comuni relazioni affettive o nell’amicizia o filia o amore tra esseri umani e il resto del vivente.)

 E l’amore oggi non può essere più inteso in senso etnocentrico, cioè quelli della nostra lingua e cultura, o antropocentrico, cioè il nostro affetto e protezione non rivolgersi solo agli umani,  ma il nostro affetto deve estendersi al mondo di via comune o al vivente..

(1)Posiamo ritrovare la nascita di questo processo di privatizzazione delle terre comuni e di nascita di una nuova antropologia o dell’individualismo proprietario ,in seguito alla centuriazione in epoca repubblicana romana e proseguita il epoca imperiale(era il modo in cui gli antichi romani organizzavano il territorio come centuriatio o castramentatio  o reticolo ortogonale di strade,canali,appezzamenti agricoli destinati ai nuovi coloni o molti più spesso )

Con la legge agraria di Tiberio Gracco del 133 a.c., prevedeva la privatizzazione dell’Ager publicus, e diede un grand impulso alla divisione delle terre effettuate con le centuriazioni. Fu utilizzata la privatizzazione nei casi di bonifica che di fondazione di nuove colonie sottratte alle terre delle Gens colonizzate. Nelle tante guerre civili tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero, tra le quali la battaglia di Filippi del 42 a.c.. in questo caso abbiamo una testimonianza illustre nelle Bucoliche di Virgilio che lamenta del modo ingiusti nelle assegnazione delle terre nel mantovano che privilegiavano i soldati che avevano partecipato alla battaglia rispetto a coloro che invece si dedicavano al lavoro pastorale.(E il dialogo tra due pastori uno Melibio che è costretto ad abbandonare la sua terra per non aver partecipato alla battaglia  e Titiro l’altro pastore invece che l’ottiene  per avervi partecipato)

Per una nuova poieticene (immaginario po-etico,di saperi comuni ed interelazionali  ) –vedi:comunimappe.org

Note di Pino de March, di comunimappe:libera comune università pluriversità bolognina

Bologna città aperta e nuovi processi di trans-culturazione: simposio romsintogagiano d’autunno

         “                                                                  

“I frutti puri impazziscono”                                                                                                                               

James Clifford, etnografo surrealista,  titolava così un suo saggio,                                                          

 riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos Williams.

L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP- Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO

“BOLOGNA CITTA’ APERTA:

NUOVE RELAZIONI DI CONVIVENZA URBANA TRA GENTI, LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI(non rom)

SABATO 23 NOVEMBRE 2019

AL CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44

DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00

(Ci sarà a partire dalle 19.30 una meravigliosa frugale stuzzicheria accompagnata da un buon vinobio-rosso con musica roma-gagiana; se partecipate inviateci un messaggio di partecipazione per accogliervi meglio)

Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

E per attivare memorie di deportazione e stermini nazi-fascisti dimenticati: divoramento o genocidio che i romanì chiamano “Porrajmos, Samuradipen”, e gli Lgbtq chiamano “omocausti” e le comunità ebraiche “shoah”.

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione:www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI dom,lom o rom                                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherdò in romanes), frantumate(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco aner, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

         “                                                                  

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione:www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI dom,lom o rom                                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherò in romanes), frantumata(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco “aner”, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone

simposio romsintogagiano d’autunno

         “                                                                  

“I frutti puri impazziscono”                                                                                                                               

James Clifford, etnografo surrealista,  titolava così un suo saggio,                                                          

 riprendendo un verso del poeta statunitense William Carlos Williams.

L’Associazione MIRS – Mediatori Interculturali Rom e Sinti in cooperazione educativa e culturale con il CESP- Centro studi per la Scuola Pubblica e COMUNIMAPPE – Libera Comune Università Pluriversità Bolognina

organizzano un SIMPOSIO ROM-SINTO-GAGIANO

“BOLOGNA CITTA’ APERTA:

NUOVE RELAZIONI DI CONVIVENZA URBANA TRA GENTI, LINGUE E CULTURE ROM, SINTE E GAGI(non rom)

SABATO 23 NOVEMBRE 2019

AL CENTRO SOCIALE COSTA, VIA AZZO GARDINO, 44

DALLE ORE 16.30 ALLE ORE 23.00

(Ci sarà a partire dalle 19.30 una meravigliosa frugale api-cena con musica roma-gagiana; se partecipate inviateci un messaggio di partecipazione per accogliervi meglio)

Invitiamo tutti e tutte coloro che abitano, transitano, vivono e sentono la città di Bologna come una Comune Città,

siano essi nomadi, sedentari o migranti,

che desiderano partecipare ad un progetto di costruzione di “contrade solidali” o  “zone di contatto o di transculturazione” ospitali, solidali e pluriverse, ove possano con-vivere e cooperare attivamente molteplici genti, lingue e culture nel reciproco rispetto.

Invitiamo associazioni culturali, centri sociali e culturali, educatori, docenti, intellettuali, artisti e persone delle comunità urbane Rom, Sinte e Gagi.

Abbiamo organizzato questo Simposio al fine di ri-conoscere le nuove comunità urbane Rom e Sinte, tuttora disconosciute, disperse e discriminate e abitanti delle nostre estreme periferie, e le loro relative culture,  che sono a tutti gli effetti parte della nostra cultura comune europea, culture che hanno eccelso  in molti campi delle arti e dei mestieri (c’è molto di romanes nella cultura europea e molto di europeo nella cultura romanes),

ma anche per far conoscere le attività di educazione emozionale e di trans-culturazione nelle scuole come nei territori metropolitani, contro il ritorno delle discriminazioni, pregiudizi, stereotipi e stigmi che colpiscono negativamente la dignità comune delle minoranze come delle individualità romanì (Rom e Sinti), discriminazioni che sono diventate altrettanto intense e trasversali verso altre soggettività minori presenti tra noi (migranti, donne, lgbtq, ebrei,disabili ecc).

E per attivare memorie di deportazione e stermini nazi-fascisti dimenticati: divoramento o genocidio che i romanì chiamano “Porrajmos, Samuradipen”, e gli Lgbtq chiamano “omocausti” e le comunità ebraiche “shoah”.

 X contatti : Pino de March – referente progetto di cooperazione all’educazione emozionale -relazionale e di tras-culturazione

e-mail: comunimappe@gmail.com

per conoscenza attività di cooperazione all’educazione emozionale-relazionale e di trans-culturazione: www.comunimappe.org

MEMORIE DI ESODI di dom,lom o rom                                                                                     Nel 1011 il poeta persiano Firdowsi terminò il “Libro dei Re” (Shahanama), trattasi di una vasta opera poetica, che costituisce l’epica dei paesi di lingua persiana; libri che raccontano il passato mitico e storico di quell’esteso paese, la Persia. In esso si racconta anche dell’arrivo di diecimila ‘Luri’ (suonatori di liuto), accolti dallo Scià Behram-gor V, richiesti e inviateli dal suocero, il re indiano Shengùl, per divertire le sue Genti. I Lùri (chiamati  Dom (uomini o umani) in Medio Oriente; in seguito Lom (uomini o umani) in Armenia e Rom(uomini o umani)  in Europa), sono spesso menzionati dai poeti persiani che ne decantavano l’eleganza nel vestire, l’abilità nel suonare il flauto e il loro colore “nero come la notte”:

“O re cui giunge l’implorazione altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.

Testo poetico tratto dal “il vento e l’orologio di Antonello Mangano,ed. terre libere;                                                                                     traduzioni di Italo Pizzi,iranista ed accademico,ma anche artista, filosofico religioso e giuridico istituzionale)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la

testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  genti nomadi proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.                                                                                                                         Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua romanes,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli romanì in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono gli elementi linguistici  a svelarci  il percorso dei romanì: la loro è una lingua rotta (pagherò in romanes), frantumata(o pagherdì in romanes) da lunghi esodi, migrazione,schiavitù, divoramenti o genocidi (porrajmos o samuradipen),una lingua e una cultura aperta (testimoniata e documentata in tutte le sue varianti linguistiche e culturali), che ha saputo accogliere in sé, tra queste fratture-rovine, altre parole ed espressioni non solo persiane ma di tutte le culture apprese nei territori di transito o di soggiorno. Da ormai un millennio dopo aver lasciato l’India settentrionale in differenti ondate, passando per il Medio Oriente, risalendo attraverso i Balcani o navigando per mari nostri giunsero all’Europa, ed in questo nostro comune continente si sparsero in ogni dove, ma molti altri di loro non si fermarono tra noi, ma andarono spinti dalla curiosità o dalla necessità a popolare tutti i continenti, tanto da essere considerati assieme agli ebrei, popoli transnazionali).

BOLOGNA 1422                                                                                                                                                                            Una delle prime cronache italiane che raccontano della presenza dei Rom è un documento del XV secolo, di un anonimo bolognese (la “Historia miscellanea bononiensis”) che narra dell’arrivo a Bologna, nel 1422, di una comunità nomade, ospitata nell’attuale Montagnola, dicesi condotta da un duca che si faceva chiamare ‘AndreaS’. Questo gruppo sosteneva di provenire dall’Egitto(oggi solo i romanì anglo-americani si definiscono “Gipsy”, che deriva dal latino aegyptanus o ovvero egiziano, etnomino usato per farsi accettare contrabbandandosi per ricchi mercanti  egiziani nonostante la loro evidente povertà), ma molte  altre fonti sostengono che questi popoli romanì  ebbero una lunga permanenza nell’Impero Bizantino d’Oriente, e documentano che da lì  essi tutti provenissero, terre ove si parlava il greco bizantino, lingua che in quel tempo essi usassero per rivolgersi ai Gagi (non Rom). E quindi è probabile che il duca Andreas intendesse dire di essere il Duca degli “Adreas”, cioè degli uomini (Andreas, derivante dal greco aner, che indica gli uomini, con lo stesso significato che essi ora attribuiscono a se stessi, cioè “Rom o uomini).                   

La musica, le arti circensi,gli spettacoli viaggianti, la magia  e tutte le attività ad esse connesse, sono state sempre annoverate tra le attività tradizionali di questo popolo.                                                                                   « Popolo di acrobati, danzatori, cantanti, giocolieri, saltimbanchi, i Romanì si sono sempre distinti sia nello spettacolo viaggiante, (giostrai, circensi, saltimbanchi), sia nei gruppi stanziali come quelli dei Romanì di antico insediamento dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo, dove accanto ad attività più “statiche” e tradizionali (allevatori e mercanti di cavalli, lavoratori dei metalli, arrotini, ombrellai  ecc.) non si sono mai trascurate attività legate all’arte».                                            Da questo punto di vista il destino del popolo romanì sembra racchiuso nel significato stesso del suo nome, derivante dall’originario etnonimo (sinonimo di etnico) Dom e Domba, che in sanscrito significa “spettacolo”; così come i Dom (intesi come uomini di spettacolo), popolo indiano antenato dei Romanì, è attestato che fosse una popolazione di musicisti, cantanti, fabbri e conoscitori dei metalli e arti magiche,che in virtù delle loro straordinarie abilità tecnico-musicali godevano per questo di stima ed erano queste  attività che garantivano loro, ospitalità (nell’Europa centrale nominati come bohémienne, eteronimo attribuito ad artisti e musicisti romanì, viaggianti con salvacondotti del Re di Boemia (in seguito in epoca romantica indicava gli artisti che vivono in modo libero  ed anticonformista come i romanì.                                                                                                                                                                                                           Da notare e sottolineare che “zingaro” è un eteronomo, cioè un termine etnico attribuito ai romanì dall’esterno dai gagi (o non Rom), oggi usato solo in modo monovalente per  disprezzare, termine equiparabile ad altri termini eteronomi come negro,frocio, terrone,avaro come un ebreo o un genovese ecc.                                                                                                        Non è sempre stato così, solo 30 anni fa in Italia, “zingaro” aveva un significato ambivalente (negativo come positivo) gli artisti e i musicisti, tra loro Claudio Lolli cantava  “di zingari felici in Piazza Maggiore”, e Iva Zanicchi con “prendi questa mano zingara”, chiedeva ad una “zingara” di dirli di “futuri e d’amore” o Fabrizio d’Andrè che in una canzone cantava “mia madre mi diceva di non giocare nel bosco con gli zingari” e in un’altra “il cuore rallenta e la testa cammina/in buio di giostre in disuso/qualche rom si è fermato italiano/come un rame a imbrunire su un muro/saper leggere il libro del mondo/con parole cangianti e nessuna scrittura/nei sentieri costretti in palmo di mano/i segreti che fanno paura/finché un uomo ti  e incontra e non si riconosce/e in ogni terra s’accende e s’arrende la pace”.

 BOLOGNA 2022: Prepariamoci a ricordare  i 6OO anni d’arrivo a Bologna e ospitati alla Montagnola delle genti del duca Andreas o degli “Andreas”,degli “uomini neri, felici e raminghi” da un millennio ormai per il mondo(ton anthròpon), ma sicuramente per secolare girovagare, nascere e crescere  in terre italiane,per “ius soli”,cittadini italiani a tutti gli effetti; ed invece percepiti o non visti come stranieri.  

Per il Mirs:testi di presentazione di Pino de March e loghi di Raffaele Petrone